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Le Sorgenti del Male di Zygmunt Bauman (2013) – Recensione

Le Sorgenti del Male: L’atteggiamento dell’uomo che sceglie segna il vero discrimine tra l’uomo privo della parola, e quello dotato di decisa loquacità.

Di Selene Pascasi

Pubblicato il 24 Apr. 2013

 

– Recensione –

Le Sorgenti del Male

Zygmunt Bauman (2013)

 

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Le Sorgenti del Male di Zygmunt Bauman (2013) – Recensione
Le Sorgenti del Male di Zygmunt Bauman (2013) – Ericskon (immagine di copertina)

L’atteggiamento dell’uomo che sceglie, e non di colui che viene scelto dal contesto, segna il vero discrimine tra l’uomo privo della parola, e quello dotato di decisa loquacità.

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Riflettere. Riflettere è esigenza. Ed è proprio una coerente riflessione, quella cui induce ogni passo delle 108 pagine del nuovo romanzo, carico di travolgenti e vigorosi messaggi, scritto dal sociologo polacco della modernità liquida, Zygmunt Bauman. L’autore, apprezzato come uno dei più accreditati pensatori viventi, aveva già parlato ai suoi lettori, di un male che “non è distinguibile, in mezzo alla folla”, che “non ha segni particolari né usa carta d’identità”, ammonendoli come “chiunque potrebbe trovarsi a essere reclutato per la sua causa, in servizio effettivo, in congedo temporaneo o potenzialmente arruolabile” (Paura Liquida, 2008, Laterza).

Ebbene, con il saggio sociale pubblicato dalla Erickson Edizioni, a cura di Young-June Park, il filosofo torna a pungolare, quasi solleticandola, la parte più pigra della coscienza umana: quella che fatica a rallentare, a fermarsi, a scartare il plico che custodisce la risposta ai più intimi quesiti, e che, ancor di più, annaspa nel tentativo di dialogare con dubbi e perplessità, per poi raccoglierne un senso… il senso di domanda che, in nuce, contiene già la risposta.

Un’istigazione al pensiero, dunque, di cui il Bauman si rese “complice”, tempo fa, nell’osservare che “essere morali” non significa necessariamente “essere buoni”. Occorre sapere, annota, che “cose e azioni possono essere buone o cattive. Ebbene, per saperlo gli uomini hanno bisogno di un’altra consapevolezza preliminare: cose e azioni possono essere diverse da quelle che sono”.

Dopo tutto, e forse prima di tutto, ricorda il sociologo, la “moralità riguarda la scelta. Niente scelta, niente moralità.

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Come dice Aharon Appelfeld, uno dei grandi narratori morali del nostro tempo: “La montagna è fredda ma non è malvagia. I venti abbattono gli alberi ma non sono cattivi” (Società, etica, politica, 2002, Raffaello Cortina). Elemento distintivo, quindi, sarebbe proprio la peculiare capacità di taluni soggetti di mettere in moto ed usare – come ricorda Riccardo Mazzeo, nella pregiata prefazione all’opera – la “particella no”, intesa come l’elemento in grado di “trasformare l’esistenza nell’esperienza”.

La scelta, dunque. O meglio, la capacità e la forza di scegliere, legata a doppio filo alla tematica della moralità. Così, nel quotidiano vivere, la preferenza accordata all’una, piuttosto che all’altra opzione che ciascun essere umano intravede dinanzi a sé, consentirebbe all’individuo di tracciare un proprio sentiero, mai o di rado calpestato dalla società (politica, professionale o religiosa) di riferimento.

Rilievo, che ha suscitato in chi scrive l’odierna recensione, un pensiero, del tutto personale: l’atteggiamento dell’uomo che sceglie, e non di colui che viene scelto dal contesto, segna, ritengo, il vero discrimine tra l’uomo privo della parola, e quello dotato di decisa loquacità.

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Sarebbe lui, mi preme annotarlo, l’unico tassello, incastrato nel gruppo sociale, in grado di far sentire davvero il proprio io, e di distinguersi in un universo reso sordo dall’appiattimento delle idee. Considerazione, che si ricollega alla meditazione sulla “normalità” di Bauman, proteso a spiegare come chi si distingue dalla maggioranza, non solo per un di meno, ma altresì per un di più, è comunque un soggetto anomalo.

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 È come dire – mi si consenta, ancora, una nota personale – che normalità e anormalità non viaggino su binari paralleli, ma vivano di flussi, incontrandosi, scontrandosi e abbracciandosi più volte, di guisa che persino la più usuale delle normalità, si colorerebbe di stravaganza in un contesto di parametri ordinariamente eccezionali e sopra le righe.

In fondo, tutto è relativo, e se l’anormalità è un qualcosa che si distanzia dalla norma, non potrebbe essere altrimenti, laddove la norma varia con il variare di tempi, culture, religioni e politiche.

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Ebbene, Bauman, ragionando sulle “sorgenti del male”, ovvero sull’unde malum – domanda travolta, come afferma, dal totalitarismo del ventesimo secolo, e dalle “rivelazioni relative all’Olocausto” – regala al lettore, una metodica interpretazione di tre espressioni di pensiero, trattenutesi al riguardo. Il viaggio dell’autore, inizia dagli studi di Theodor Adorno, sulla “personalità autoritaria”, avvalorante l’idea dell’autoselezione dei malfattori, alla stregua della quale, detta autoselezione resterebbe determinata da predisposizioni naturali, più che culturali, del carattere individuale.

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L’itinerario di Bauman, poi, cambia direzione e posa lo sguardo sulla pista del condizionamento comportamentale, teso alla valorizzazione, non già del dato psichico, ma delle peculiarità del singolo, e del fattore contestuale, atti a generare il male, risvegliando latenti predisposizioni malvagie.

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Atmosfera morale, ascritta da Hannah Arendt, alle predisposizioni prototalitarie della borghesia (Arendt, Le origini del totalitarismo, 2004, Torino, Einaudi). La logica del sociologo, di li a breve passo, percorre poi il ragionamento di Kant, per il quale rispetto e benevolenza per il prossimo sarebbero un imperativo della ragione. Ragione che però, marca il filosofo polacco, spiega tempo ed energie nel “disarmare le richieste e le pressioni del sedicente imperativo categorico” (pag. 34), assurgendo a fabbrica di potenza che consentirebbe all’uomo di rifornirsi, come ad un distributore, della capacità di superare lo scoglio dell’inerzia.

Il pensiero, allora, torna alla questione della probabilità che le risposte comportamentali di diverse persone esposte alla pressione di commettere il male, assuma la forma di una “curva gaussiana” laddove (pag. 73) i risultati dipendono dalla “vicendevole interferenza di un gran numero di fattori indipendenti”. Altra tappa del cammino, magistralmente raccontato da Bauman, è lo studio dello psicologo sociale Zimbardo, il cui esito avrebbe dimostrato come persone normali, amabili, dalle occupazioni più responsabili, anime sensibili, dunque brava gente, possano trasformarsi in “mostri” se innestati in determinati contesti, anche territoriali (Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa? 2008, Milano, Raffaello Cortina).

Un male banale, quello su cui l’autore si concentra nel quinto capitolo del libro. Un male che, proprio dalla banalità, trae la sua insita pericolosità. Un male insospettabile, che sa cogliere in contropiede, che sorprende, e si fa scudo nell’imprevedibilità del suo scatenarsi. Un male, quello descritto da Bauman, che vive e dorme, nell’uomo “non solo normale” ma nel “più desiderabile” (pag. 56), sulla falsariga del “dormiente” evocato da Steiner, e della sua non rivelata inclinazione a delinquere, sapientemente eletta a titolo del settimo capitolo del saggio.

 Di qui, un interessante “colloquio” con le tesi di Littell e di Anders, padre del pensiero per cui il “potere umano di produrre” è stato emancipato “dal potere meno espandibile degli umani di immaginare, rappresentare e rendere intellegibile”. Intensamente auspicata, dunque, l’esigenza di restituire nuova reattività ad una mente sociale, anestetizzata dall’abituazione desensibilizzante (Roth, Juden auf Wandershaft, 2001). Non si dimentichi, che il pensatore polacco definì il tempo di oggi come “puntillistico, ossia frammentato in una moltitudine di particelle separate”. Il senso era palese: i particolari della realtà – come accade ammirando un quadro dipinto con la tecnica del puntinismo – si notano solo se osservati a distanza, prospettiva dalla quale è più agevole orientarsi (Vite di corsa – Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero, 2009, Il Mulino).

E forse è proprio da una tale prospettiva, che il filosofo, indagando sulle effettive origini del male, parrebbe estirparlo dall’io dell’essere umano, per imputarlo a dati ad esso esterni, all’inarrestabile progresso della tecnica, che ha reso l’individuo straordinariamente potente, ma, probabilmente cieco di immaginazione e fantasia, ed incapace, nel mio pensiero, di percepire i segnali del mondo. Si chiude, così, il riuscito lavoro di Bauman di osservare in controluce i percorsi tracciati sulle fonti del male, prenderne le distanze e – per usare un’espressione del Kundera, presa in prestito dallo stesso autore (pag. 25) – “strappare il sipario delle preinterpretazioni”, questa volta sulle sorgenti del maligno, calando il lettore nell’universo dei perché. E si sa, che da ogni perché nasce un nuovo perché, e forse una risposta. E nel mentre, ci si scava dentro.. ridefinendo i contorni di quelle identità, a mio parere, ormai svendute nel discount delle idee, uniformate, e senza colore.

 

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LETTERATURA – SOCIETA’ E ANTROPOLOGIA –  PSICOLOGIA COMPORTAMENTALE – COMPORTAMENTISMO – ETICA E MORALE

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APPROFONDIMENTO: Scheda di Bauman Zygmunt su Wikipedia

 

 

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Selene Pascasi

Avvocato, Giornalista Pubblicista e Scrittrice

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