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La Funzione Riflessiva nel Paziente e nel Terapeuta

Funzione riflessiva: capacità di riconoscere gli stati mentali propri e altrui, si è poi inscritta nel concetto di mentalizzazione.

Di Gianluca Frazzoni

Pubblicato il 13 Dic. 2012

 

La Funzione Riflessiva nel Paziente e nel Terapeuta. - Immagine: © olly - Fotolia.com

La funzione riflessiva, ossia la capacità di riconoscere gli stati mentali propri e altrui, è stata descritta da Peter Fonagy e Mary Target e si è poi inscritta nel concetto di mentalizzazione.

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La funzione riflessiva, ossia la capacità di riconoscere gli stati mentali propri e altrui, è stata descritta da Peter Fonagy e Mary Target (Fonagy et al., 1991; Fonagy, Target, 2001) e si è poi inscritta nel concetto di mentalizzazione(Fonagy et al., 2002; Fonagy, Target, 2003), col quale ci riferiamo alla capacità dell’individuo di rappresentarsi i propri comportamenti e quelli degli altri come frutto di intenzioni, desideri, scopi, più in generale come risultante di stati mentali specifici.

Se la relazione con le figure di attaccamento è povera di sintonizzazione emotiva, se i genitori non mentalizzano i bisogni del figlio e non riescono perciò a fornire risposte adeguate, il bambino viene esposto ad un’esperienza prolungata di mancato riconoscimento; in particolare, quando la relazione di attaccamento non coinvolge il bambino come individuo pensato pensante – dotato cioè di intenzionalità complessa nella rappresentazione del genitore – egli non sperimenta il rispecchiamento necessario alla costruzione della funzione riflessiva, poiché l’immagine che i genitori gli rimandano con i loro comportamenti e le loro reazioni non descrive un soggetto che ha scopi e vissuti psichici individuali, in grado di differenziarsi dalla mente dell’altro e di generare una rappresentazione autonoma dell’esperienza, bensì un bambino incapace di aderire alle richieste che gli vengono impartite e di adattarsi correttamente all’ambiente in cui vive.

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Si creano perciò categorie rigide e non mentalizzate, per le quali il bambino è semplicemente cattivo, stupido o disobbediente; tale processo è sia fonte di sofferenza emotiva, dalla quale il soggetto si difende elaborando a sua volta rappresentazioni rigide dell’esperienza in cui è assente l’attribuzione di stati mentali evoluti a sé e all’altro, sia fattore predittivo della successiva incapacità di reagire a vissuti dolorosi o traumatici adottando modalità di fronteggiamento efficaci.

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Il fallimento della funzione riflessiva conduce infatti l’individuo a percepire eventuali maltrattamenti subiti o la carenza di cure genitoriali come conseguenza della propria indegnità; se l’abuso non viene ricondotto all’intenzionalità specifica di chi lo compie, i sentimenti di vergogna, di rabbia, l’identificazione con l’aggressore e lo sviluppo di modalità altrettanto violente nella vita adulta diventano elementi centrali nella descrizione clinica del trauma.

La funzione riflessiva può però fallire anche nel terapeuta, e in questo caso i rischi che coinvolgono il lavoro clinico sono molteplici. Baldoni (2008) ne sottolinea cinque: interpretazioni inappropriate o precoci; utilizzo difensivo della diagnosi; prescrizione impropria di farmaci; reazioni non mentalizzate del terapeuta (noia, ostilità, disinteresse, seduzione, umorismo); relazione sessuale o sentimentale con il paziente.

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In questi casi il fallimento della funzione riflessiva nel terapeuta porta a non considerare gli stati mentali del paziente, il quale potrebbe non essere ancora pronto ad accogliere nella propria struttura di conoscenza le interpretazioni che il clinico narcisisticamente esibisce, oppure chiede diagnosi e farmaci sulla spinta di bisogni propri – essere rassicurato sulla controllabilità del disturbo, ricevere un rifiuto alla richiesta di terapia farmacologica così da sentirsi in grado di affrontare il malessere con le proprie risorse – che il clinico non coglie.

Per quanto attiene alle emozioni del terapeuta, l’assenza di un’efficace funzione riflessiva porta a non riconoscere né gli stati mentali elicitati dalla relazione terapeutica né quelli derivati dal proprio vissuto personale, e questo compromette la possibilità di utilizzare confini relazionali appropriati all’interno del setting; nei casi più gravi la seduttività del paziente, che costituisce in realtà un’infantile richiesta di tenerezza, trova come risposta la messa in atto da parte del clinico di comportamenti che esprimono un linguaggio sessuale adulto, e una distonia affettiva di simile intensità espone il paziente al riemergere dei contenuti traumatici.

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