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L’inconfondibile tristezza della torta al limone. Di Aimee Bender – Recensione

RECENSIONE del libro di Aimee Bender, L'inconfondibile tristezza della torta al limone. Edito da Minimum Fax, Recensione di Brunella Coratti.

Di Brunella Coratti

Pubblicato il 08 Mag. 2012

Aggiornato il 06 Set. 2012 15:31

Brunella Coratti. 

 

Scritto con i toni surreali e inconsueti delle favole, L’inconfondibile tristezza della torta al limone di Aimee Bender è un romanzo originale e bizzarro, che vale proprio la pena di leggere.

Aimee Bender, L’inconfondibile tristezza della torta al limone. Recensione. - Immagine: © minimum fax
Aimee Bender. L’inconfondibile tristezza della torta al limone. Ed. Minimum Fax

Rose Edelstein è una bambina di nove anni che, il giorno del suo compleanno, si accorge di possedere una qualità speciale: attraverso il cibo che mangia scopre i sentimenti, non sempre consapevoli, di chi ha cucinato. La torta di compleanno che la madre ha preparato non sa di limone, ma di vuoto e di solitudine, emozioni che la madre nasconde dietro un’apparente gioiosità.

Da quel momento Rose svilupperà una potente empatia nei confronti delle persone, stabilendo un’infallibile collegamento tra cibo cucinato e stati d’animo. Tuttavia, questo “cibo pieno di sentimenti” la priva del piacere del nutrimento: le emozioni altrui sono invadenti, inondano la sua mente e Rose talvolta è costretta ad ignorarle, mangiando prodotti industriali asettici e piuttosto anonimi.

Riesce anche ad indovinare, del cibo che mangia, alcuni aspetti concreti tra cui luogo di provenienza, caratteristiche del terreno o dell’acqua e anche questo è un modo che la ragazza utilizza per distanziarsi, quando l’altrui stato d’animo è troppo faticoso per lei; questo concentrarsi su un particolare per sfumare l’impatto emotivo dell’insieme sembra quasi un movimento dissociativo.

Rose vive in una famiglia alquanto originale.

La madre ha una personalità emotiva, irrequieta, il rapporto con la realtà è continuamente alterato da un pensiero magico attraverso cui legge le cose che accadono come se avessero significati speciali, segni di qualcosa che va interpretato. Figlia di una donna eccentrica e fredda, “mi chiamava camion della spazzatura quando le chiedevo troppe cose” è, al contrario, madre affettuosa e iperprotettiva ma inconsistente, a tratti fatua e trasognante.

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Il padre appare come una persona lineare, quasi mediocre, abitudinario e un po’ monotono che, solo verso la fine della storia, rivelerà alla figlia di essersi sempre difeso, attraverso una vita banale, dalla consapevolezza di avere anche lui delle qualità particolari , ereditate a sua volta dal proprio padre, che poteva raccontare la vita delle persone attraverso gli odori che emanavano, percepiti con intensità tale da dover portare sempre una benda sul viso.

Infine il fratello maggiore Joseph, il più enigmatico della famiglia, una sorta di genio solitario, che evita tutte le relazioni umane ( ad eccezione di un unico amico) comprese quelle con i suoi familiari. Non si fa toccare, fugge il contatto oculare e il suo sguardo è talmente angosciante e imbarazzante per tutti che, durante la cena, o legge libri oppure gli mettono davanti al piatto le scatole di cibo cosicchè lui possa leggere le etichette ed estraniarsi dal contesto. Joseph sembra appartenere ad un altro mondo, si colloca in una dimensione estranea e silenziosa del vivere e si esercita nell’ “arte delle sparizioni”, prima brevi poi via via sempre più significative.

Il libro è la narrazione della vita di questa famiglia attraverso lo sguardo fin troppo empatico di Rose, prima bambina, poi ragazza e adulta.

Rose inciampa nei segreti della madre, del fratello, infine del padre e questo le consente di conoscerli al di là delle apparenze, non sempre di capirli, ma comunque di amarli profondamente. E, nonostante sia la più piccola della famiglia, ne diventa la presenza regolatrice, il punto di riferimento, la confidente prediletta che modula emozioni sotterranee, convinzioni magiche, affetti inopportuni ed eccentricità.

Lei contiene tutto: i tradimenti della madre, le sparizioni del fratello, il silenzio un po’ fobico del padre, osservandoli in silenzio ed amandoli teneramente. In lei è potente l’istinto di proteggere i suoi familiari, si accorge di quanto siano fragili negli affetti, come se la realtà fosse, per ognuno di loro, fonte disorganizzante di caos emotivo.

Viene in mente il mestiere di psicoterapeuta, le emozioni suscitate dalla relazione clinica e utilizzate come ingredienti controtransferali di comprensione del mondo interiore del paziente, insieme ai rischi che il terapeuta corre, essere inondato dalle emozioni altrui al punto a volte di doversene difendere, oppure perdere il sapore della propria vita vivendo quella degli altri.

Leggendo questo romanzo davvero insolito vengono in mente i disturbi di personalità, nello specifico lo stile schizotipico.

Una stanza piena di gente. by Daniel Keyes. (Recensione).
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Aimee Bender ci presenta una radice schizotipica familiare, sembrano tutti affetti dallo stesso disturbo che si plasma diversamente nell’espressività del linguaggio dei cinque sensi: è gustativa in Rose, olfattiva nel nonno paterno, visiva nel fratello, più genericamente mentale nella madre, compromessa dal pensiero magico.

Le modalità relazionali dei personaggi tra loro, con se stessi e con la realtà tutta, sembrano proprio ben descrivere questo genere di disturbo che si caratterizza per alcune convinzioni irrazionali alquanto bizzarre: l’idea di poter influenzare magicamente gli altri sia direttamente che indirettamente o di poterne essere influenzati, l’idea che sia possibile il controllo dei pensieri propri ed altrui, che si possano acquisire conoscenze attraverso canali speciali o a distanza e la disponibilità a mettere a disposizione degli altri le proprie doti “soprannaturali”.

Queste idee sono accompagnate da esperienze percettive insolite che possono arrivare alla depersonalizzazione, derealizzazione, talvolta ad illusioni ed allucinazioni. Anche a causa di una certa dose di ansia sociale, queste persone non sono inclini a rapporti affettivi importanti, ad esclusione della propria famiglia, dove rimane saldo il senso di appartenenza.

Solo in famiglia si parla lo stesso linguaggio, il resto del mondo è estraneo e poco comprensibile e la solitudine è ricercata come indispensabile e sicuro rifugio: viene da chiedersi se una piccola dose di schizotipia non sia un ingrediente costitutivo del disturbo evitante di personalità e della fobia sociale.

Una lettura, in definitiva, che concede molti spunti di riflessione significativi, nonostante la leggerezza dello stile.

 

 

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