Autismo e disinformazione: analisi scientifica e impatto delle narrazioni politiche
Nella sua prima conferenza stampa come segretario del Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani degli Stati Uniti, Robert F. Kennedy Jr. ha detto che “l’aumento dei tassi di prevalenza dell’autismo negli Stati Uniti riflette un’epidemia -prevenibile- a livello di crisi che è stata causata da una tossina ambientale” (da Quotidianosanità.it).
Questa dichiarazione, fortemente controversa e discutibile, ha suscitato un acceso dibattito nel mondo accademico, scientifico e politico. Per comprendere appieno l’impatto di affermazioni del genere, è necessario esaminare in profondità le basi neuroscientifiche del disturbo dello spettro autistico (ASD), la psicologia dello sviluppo e la complessa interazione tra fattori genetici, epigenetici e ambientali. Inoltre, è fondamentale analizzare come gli annunci politici influenzino la percezione pubblica della scienza e il processo decisionale in ambito sanitario.
Comprendere l’autismo attraverso le neuroscienze
L’autismo è un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da difficoltà nella comunicazione sociale e dalla presenza di comportamenti ripetitivi o interessi ristretti. Le attuali evidenze neuroscientifiche indicano che il disturbo dello spettro autistico è il risultato di un’alterazione nello sviluppo precoce del cervello, che coinvolge la connettività neuronale, la migrazione neuronale, la sinaptogenesi e la plasticità cerebrale (Gilbert et al., 2017).
Numerosi studi di neuroimaging hanno mostrato differenze strutturali e funzionali in regioni chiave del cervello, tra cui la corteccia prefrontale, l’amigdala, il cervelletto e il corpo calloso. Alcune ipotesi suggeriscono una “iperconnettività locale” e una “ipoconnettività a lungo raggio” nel cervello autistico, che potrebbe spiegare sia le capacità speciali che le difficoltà tipiche del disturbo (Travers et al., 2012).
Dal punto di vista genetico, l’autismo è altamente ereditabile, con centinaia di geni associati che contribuiscono in modo poligenico e interattivo (Sandin et al. 2017). Tuttavia, nessuna mutazione genetica singola spiega la totalità dei casi, suggerendo che l’autismo sia una condizione multifattoriale.
L’ambiente: tossine o contesto?
Quando si parla di “tossine ambientali”, si entra in un territorio scientificamente complesso e semanticamente ambiguo. Il termine può riferirsi a una vasta gamma di sostanze: metalli pesanti (come il mercurio o il piombo), pesticidi, sostanze chimiche industriali, farmaci assunti in gravidanza o inquinanti atmosferici.
Alcune ricerche suggeriscono correlazioni tra esposizione prenatale a determinati agenti chimici e un aumentato rischio di disturbo dello spettro autistico (Morales-Suárez-Varela et al. 2024). Tuttavia, correlazione non implica causalità. La difficoltà maggiore consiste nel disegnare studi che isolino variabili complesse in un contesto umano, dove l’esposizione ambientale si intreccia inevitabilmente con predisposizioni genetiche e condizioni socio-economiche.
A ciò si aggiunge il ruolo dell’epigenetica: modificazioni chimiche del DNA indotte dall’ambiente che non alterano la sequenza genetica ma influenzano l’espressione genica. Questo meccanismo potrebbe rappresentare un ponte tra genetica e ambiente, rendendo più plausibile l’idea che l’ambiente giochi un ruolo nel modulare la vulnerabilità a sviluppare il disturbo dello spettro autistico, senza essere causa diretta.
Eziologia multifattoriale e predisposizione genetica
Ad oggi, l’eziologia dell’autismo rimane multifattoriale e non completamente definita. Le evidenze convergenti indicano una componente genetica significativa, con un’elevata ereditabilità stimata intorno al 70–90%. Tuttavia, non è stato identificato un singolo gene responsabile: si parla piuttosto di una architettura genetica complessa e poligenica, in cui varianti rare de novo, mutazioni strutturali (CNV) e polimorfismi comuni concorrono a determinare la vulnerabilità individuale (Sandin et al., 2014; Grove et al., 2019).
Questi dati rafforzano l’ipotesi che i fattori genetici costituiscano la componente principale nella vulnerabilità all’autismo, pur non essendo esclusivi né deterministici. L’elevata concordanza tra gemelli monozigoti, la frequenza di diagnosi in presenza di sindromi genetiche note (es. X Fragile, Sclerosi Tuberosa, Rett) e i tassi aumentati di tratti autistici nei familiari di primo grado confermano l’esistenza di un fenotipo autistico ampliato (Broad Autism Phenotype, BAP). Questo comprende caratteristiche subcliniche (es. lievi difficoltà pragmatico-comunicative, rigidità cognitiva, scarsa reciprocità sociale) condivise da soggetti imparentati con persone affette da autismo, e può costituire un indicatore intermedio nei modelli di trasmissione familiare.
La complessità genetica dell’autismo si esprime anche nella diversità delle varianti coinvolte: si riscontrano sia mutazioni rare a forte impatto (de novo o ereditate), sia varianti comuni a effetto additivo, che concorrono alla predisposizione. Inoltre, le interazioni gene-ambiente e i meccanismi epigenetici (es. metilazione del DNA, modifiche istoniche) giocano un ruolo cruciale nella modulazione dell’espressione genica durante lo sviluppo fetale e postnatale.
Lo studio su larga scala di Bai et al. (2019), condotto su oltre due milioni di individui in un disegno multicentrico e longitudinale, ha rappresentato una delle evidenze più solide a sostegno dell’alta ereditabilità dell’autismo, stimata attorno all’80%. Questo dato non implica una trasmissione mendeliana classica, ma sottolinea la forte influenza genetica su un quadro clinico modulato anche da contesti ambientali precoci, soprattutto durante il periodo perinatale.
In sintesi, l’Autismo appare oggi come un disturbo del neurosviluppo con eziologia complessa e multifattoriale, in cui la componente genetica, pur altamente significativa, interagisce con fattori ambientali, epigenetici e stocastici, rendendo conto della grande eterogeneità fenotipica osservata.
Accanto ai fattori genetici, sono stati individuati numerosi fattori ambientali di rischio non genetici. Tra questi, l’età avanzata dei genitori, complicanze ostetriche, prematurità, basso peso alla nascita, infezioni materne e l’esposizione prenatale a farmaci (es. acido valproico) o inquinanti ambientali (Volk et al., 2013). Il ruolo della carenza di micronutrienti, come l’acido folico, è ancora oggetto di studio. Tuttavia, nessun singolo fattore ambientale è stato finora associato in modo univoco allo sviluppo del disturbo dello spettro autistico.
Nel DSM-5 (APA, 2013), l’autismo è classificato come disturbo del neurosviluppo a esordio precoce, con una presentazione fenotipica estremamente eterogenea. Questa variabilità clinica rende improbabile l’identificazione di una causa unica e supporta un modello eziopatogenetico basato sull’interazione dinamica tra geni e ambiente, probabilmente attiva in epoca prenatale o perinatale.
Infine, l’assenza di biomarcatori diagnostici conferma che l’autismo è diagnosticato unicamente su base comportamentale. La diagnosi precoce e l’intervento tempestivo, soprattutto nei primi anni di vita, rappresentano attualmente i fattori più efficaci per migliorare gli outcome funzionali.
Psicologia dello sviluppo: traiettorie neurocognitive e fattori protettivi
Il disturbo dello spettro autistico si manifesta in genere nei primi tre anni di vita e può essere identificato attraverso alterazioni precoci nel comportamento sociale, nella regolazione affettiva e nella comunicazione non verbale. La psicologia dello sviluppo fornisce un quadro teorico per comprendere come le interazioni precoci con l’ambiente, i caregiver e il contesto culturale influenzino la traiettoria neurocognitiva del bambino.
Studi longitudinali indicano che l’intervento precoce può modificare in modo significativo l’evoluzione dei sintomi dell’autismo, suggerendo una plasticità del cervello infantile che può essere sfruttata in modo terapeutico. Pertanto, focalizzarsi unicamente sulle cause, specie se vaghe o ideologiche, rischia di distogliere risorse e attenzione dalla promozione di strategie di supporto basate sull’evidenza.
Politiche sanitarie e percezione pubblica
Le dichiarazioni di figure pubbliche, specialmente quando ricoprono ruoli istituzionali e di governo, influenzano profondamente l’opinione pubblica e le scelte collettive in termini di salute. Il caso di Kennedy Jr. solleva questioni cruciali sul rapporto tra politica e scienza e sulle conseguenze rispetto all’opinione pubblica di informazioni non validate.
Nonostante il crescente tasso di diagnosi, l’ipotesi di un’”epidemia” non è sostenuta dalla letteratura scientifica: il fenomeno è attribuibile in gran parte all’ampliamento dei criteri diagnostici, a una maggiore consapevolezza e all’accesso più diffuso ai servizi di salute mentale.
Etichettare l’autismo come “epidemia prevenibile” alimenta stigma, colpevolizzazione e paura, ostacolando il progresso verso una visione più inclusiva e scientificamente fondata della neurodiversità. Inoltre, ipotizzare l’esistenza di una imprecisata “tossina” come causa primaria dell’autismo apre la porta a interpretazioni pseudoscientifiche e a soluzioni non validate, a scapito delle politiche basate sull’evidenza.
Conclusione
L’autismo non è una malattia da debellare, ma una condizione da comprendere, accogliere e supportare. La ricerca neuroscientifica e psicologica ci mostra un quadro complesso, dove natura e ambiente si intrecciano in modo dinamico. Le dichiarazioni che semplificano eccessivamente questa complessità rischiano non solo di travisare la scienza, ma anche di influenzare negativamente la vita delle persone autistiche e delle loro famiglie.
La sfida per il futuro sarà quella di coniugare eticamente, rigore scientifico, empatia umana e responsabilità politica, rafforzando una cultura sociale che promuova conoscenza, rispetto e inclusione.