Un recente studio condotto in Cina da Teo e colleghi (2020), si è occupato di indagare se le differenze intergenerazionali potessero costituire un fattore discriminante nel modulare l’intenzione di usufruire della psicoterapia online.
Il recente sviluppo tecnologico ha sicuramente rivoluzionato le nostre esistenze in modi imprevedibili, modificando i nostri stili di vita, le città, i mestieri e le società in modo permanente e irreversibile. Fondamentale per questa rivoluzione è stata l’introduzione di internet, che ha contribuito in maniera determinante all’evoluzione di un ‘villaggio globale’ interconnesso, come definito dal teorico dei media Marshall McLuhan (1962). La velocità con cui la tecnologia cambia e si evolve rende quasi impossibile rimanere al passo, ciò che è nuovo oggi diviene obsoleto in un paio d’anni e possiamo facilmente riscontrare come nella nostra vita quotidiana molte usanze o attività comuni si siano inevitabilmente modificate per assecondare l’onnipresenza tecnologica: il puntare una sveglia, il leggere le notizie di cronaca, il cercare una via sconosciuta, sono solo alcuni degli esempi che immediatamente rendono evidente come il mezzo che rendeva possibili queste attività si sia trasformato grazie all’introduzione dei nuovi supporti informatici.
Di recente, anche il mondo della psicologia si sta aprendo alla possibilità di sfruttare nuovi mezzi tecnologici nella propria pratica clinica e consulenziale. Da un lato, questa tendenza riflette forse un desiderio di innovazione in seno alla disciplina, dall’altro è sicuramente un’esigenza implicitamente espressa dagli utenti stessi, sia per necessità legate alla flessibilità e mobilità garantite da questi strumenti, ma anche, e forse soprattuto, perché i nativi digitali, le nuove generazioni di futuri pazienti, stanno crescendo immersi in una realtà tecnologica, dalla quale la psicologia non può più esimersi, pena l’essere percepita come alienata e non attuale.
In anni recenti quindi si è lavorato per creare applicazioni che consentissero di ‘portare in tasca’ il proprio strumento di benessere psicologico, si pensi ad esempio alla ottima Headspace che fornisce agli iscritti percorsi guidati di mindfulness quotidiani, ad inTheapy, strumento ad usufrutto dei terapeuti per assegnare homework ai propri pazienti e monitorarne l’andamento nel tempo, oppure la cybertherapy, ovvero la possibilità di svolgere le sedute a distanza, servendosi di servizi di videochiamata o di messaggistica istantanea, pratica la cui efficacia è stata confermata da svariati studi (per una review vedi Postel et al. 2008).
Tuttavia, nell’immaginario storico di quei paesi dove non si è andata sviluppando un’adeguata cultura psicologica, permane l’idea vetusta del paziente sdraiato su di un lettino, in uno studio chiuso al mondo e quasi fuori dal tempo, dove misticamente si risolvono i problemi mentali delle persone: una visione che poco si concilia con la flessibilità e mobilità che contraddistinguono i tempi moderni (oltre ad essere comicamente errata). Sorge quindi spontanea una domanda, gli strumenti sono stati creati, ma ora i pazienti vorranno usarli?
Un recente studio condotto in Cina da Teo e colleghi (2020), si è occupato di indagare se le differenze intergenerazionali potessero costituire un fattore discriminante nel modulare l’intenzione di usufruire del cybercounseling, osservando come il fatto di essere un paziente adulto, facente parte ad esempio delle cosiddette generazioni X e Y (nati tra il 1965 e il 1989) nelle quali la presenza tecnologica è giunta tardivamente, oppure un giovane paziente, come i ragazzi della generazione Z o ‘network generation’ (nati tra il 1995 e il 2015), avrebbe verosimilmente comportato differenti traiettorie, rendendo conto delle differenze generazionali nella familiarità ma anche della disinvoltura nell’utilizzare i nuovi mezzi tecnologici a disposizione.
Lo studio trae il suo fondamento teorico dalla Extended Theory of Planned Behavior di Mak e Davis (E-TPB, estensione dell’originale TPB di Ajzen, 1991) che prevede come diversi fattori intervengano nel modulare l’intenzione di un individuo di utilizzare terapie somministrate telematicamente. Se nel modello classico l’intenzione è determinata dalla compresenza di attitudini, norme soggettive e percezione di controllo sul comportamento target, nella versione estesa questi tre fattori risentono a loro volta rispettivamente dell’attitudine verso l’utilizzo di internet, lo stigma sociale verso la richiesta di aiuto psicologico e da ultimo la percezione della propria autoefficacia nell’utilizzo dei mezzi informatici. I ricercatori hanno raccolto i dati ottenuti da questionari self-report somministrati a 1494 individui, provenienti da due gruppi demografici diversi in termini di età, la generazione Z, ovvero i nativi digitali, e le generazioni X e Y.
I risultati hanno dimostrato come l’autoefficacia nell’uso del computer sulla percezione di controllo del comportamento da una parte e l’effetto dell’attitudine nell’influenzare l’effettiva intenzione di utilizzo della terapia online dall’altra, risultassero avere un peso maggiore nel gruppo anagraficamente più vecchio, in linea con i risultati emersi da precedenti studi (Morris et al., 2005; Wagner et al., 2010), suggerendo come lo sviluppo di interfacce facili da usare per facilitare utenti di ogni livello di alfabetizzazione informatica potrebbe contribuire ad un maggiore coinvolgimento dei pazienti adulti. Contrariamente alle aspettative, l’effetto delle norme soggettive sull’intenzione risultava più debole nella fascia di età inferiore, risultato che è stato interpretato come riflesso dell’ubbidienza e del rispetto del volere dei genitori e di una mentalità collettivista (contrapposta a quelle indivisualiste Occidentali) fortemente presenti nella cultura cinese, effetto che potrebbe differire in altre culture. Al contrario di quanto ipotizzato dagli autori, non si sono riscontrate differenze generazionali negli effetti che sia l’attitudine verso l’utilizzo di internet che e la percezione del controllo del comportamento avevano sull’attitudine, permettendo ipoteticamente di soprassedere su questi aspetti nell’ideazione di campagne di promozione per l’utilizzo del cybercounseling. Allo stesso modo non è risultato significativo l’effetto della percezione dello stigma legata alla ricerca di aiuto psicologico sulle norme soggettive, forse perché la segretezza garantita dal mezzo informatico interviene nel contrastare le resistenze verso la psicoterapia ingenerate dallo stigma legato alla ricerca di supporto psicologico.
Con le dovute limitazioni, date in primis alla non generalizzabilità dei risultati ottenuti a campioni di nazionalità differenti, questo studio suggerisce come sia necessario prendere in considerazione l’impatto che il background di conoscenze e familiarità con i mezzi informatici hanno sull’attitudine verso la cybertherapy, non trascurando aspetti che riflettono la rapida ed inevitabile evoluzione delle tecnologie e le implicazioni che questa ha avuto e continuerà sempre più ad avere sul vissuto personale dei pazienti.