Mentre la moderna ricerca in ambito medico riconosce i limiti di un approccio strettamente nomotetico, la psichiatria e la psicopatologia vengono ciclicamente definite in crisi per il loro non esser sufficientemente nomotetiche!
Mentre la moderna ricerca in ambito medico riconosce i limiti di un approccio strettamente nomotetico, investendo ingenti risorse in modelli basati su personalizzazione, umanizzazione e sistemi complessi (es. Personomics; Precision Medicine; Medical Humanities; etc.), la psichiatria e la psicopatologia vengono ciclicamente definite in crisi per il loro non esser sufficientemente nomotetiche! Se aprite un qualsiasi motore di ricerca troverete numerosi item a riguardo, che, anno dopo anno, si interrogano o sulla mancanza di un nesso causale tra sofferenza e meccanismi neurobiologici o sulla limitata innovazione psico-farmacologica e relative impasse farmaco-economiche (Smith, 2004; Jablensky, 2010; Harrington, 2019).
Con questo post vorremmo proporre un commento alla tesi di Gilberto Corbellini (2019) che, sull’inserto del Sole 24 Ore del 1 settembre, sostiene l’idea che la psichiatria offra solo cure illusorie. Nel sostenere questa tesi, da cui dissentiamo, il saggista formula alcune argomentazioni che riteniamo opportuno contestare a partire da evidenze scientifiche ormai consolidate.
La Tesi e le Argomentazioni di Corbellini
In breve Corbellini sostiene che la psichiatria sia “la specialità medica con le più flebili basi scientifiche” in assoluto. Tale asserzione è agli occhi dell’elzevirista del Sole 24 Ore corroborata dall’assenza di un modello biologico della malattia mentale, che a sua volta sarebbe ostacolato da un modello psicodinamico di psicopatologia assolutamente a-scientifico. Nel suo procedere argomentativo si rifà in particolare a due libri: un saggio di recente uscita in lingua inglese sulla storia della psichiatria (Harrington, 2019) ed uno di recente traduzione in lingua italiana in cui si propone una teoria infiammatoria sull’origine della depressione (Bullmore, 2019).
Pur ammettendo da parte nostra un bias blind spot (Pronin & Kugler, 2007) nei confronti di Corbellini visto quanto sostiene, riteniamo che sia a livello argomentativo che contenutistico le sue tesi siano da rigettare. Innanzitutto Anne Harrington avrebbe forse da dissentire sull’uso e sull’interpretazione del proprio lavoro. Le asserzioni su una certa debolezza scientifica della psichiatria e degli approcci psicodinamici viene a ragione collocata da Harrington (2019) nella prima parte della storia della psichiatria (da fine ‘800 alla fine degli anni ’70 del secolo scorso). E le sue conclusioni sono in realtà a favore di un maggior e più proficuo utilizzo di psicologici, psicoterapeuti e social worker nella salute mentale. Secondariamente, le tesi sostenute dall’elzevirista sembrano dimenticare due argomentazioni a nostro avviso cruciali: (I) l’assenza di marker biologici in psicopatologia sembra suffragata dall’attuale comprensione della problematiche psicopatologiche; (II) le evidenze scientifiche a favore delle psicoterapie esistono in ambito psicodinamico ed in altri ambiti come la Terapia Cognitivo Comportamentale.
L’Infinita Querelle sui Marker Biologici
Senza voler addentrarsi in un’esegesi del Corbellini-pensiero appare però probabile un assunto organicista di fondo, che sembra dimenticare gli onnipresenti capitoli introduttivi dei testi di biologia, etologia e cliniche varie in cui si fa pace tra nurture and culture, natura e cultura, ambiente e genetica. Per chi, come chi scrive, si è laureato in una disciplina sanitaria asserire un predominio tra uno di questi due poli implicherebbe aver disertato ben più lezioni di quanto ricordavamo.
La Harrington ripropone in chiave aggiornata e forse migliorata la soluzione diplomatica o difensiva che la psichiatria ha solitamente offerto alle critiche legate ad una sua possibile crisi (si veda gli editoriali di Lancet ad aprile 1997, di JAMA Psychiatry a maggio 2015, e di Nature a giugno 2019). Il gioco argomentativo prende le mosse da un assunto biologicista della psichiatria e dal presumere l’impossibilità per questa disciplina di poter interloquire con discipline e campi di applicazione che non stiano nell’alveo della stretta causalità biologica. Successivamente l’iter retorico sembra basarsi sulla diffusa banalizzazione della sentenza di Wittgenstein “su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”, che non è un invito a star zitti, quanto a ripensare e ridefinire i propri vincoli creando dunque nuove possibilità! Sfortunatamente numerosi teorici della psichiatria assumono che l’assenza di un indiscutibile marker biologico per ognuna della problematiche psicopatologiche esistenti implichi circoscrivere tale disciplina in quegli ambiti dove i tanto agognati marker siano riscontrabili. Per quanto suoni rassicurante tale affermazione sembra ingenerare più problemi che soluzioni.
Prendiamo ad esempio la mossa diplomatica di Harrington di confinare la psichiatria nelle psicosi. Ora gli antipsicotici di nuova generazione hanno sicuramente incrementato l’efficacia terapeutica degli interventi, ma come risolviamo il fatto che molti dei disturbi psicotici non abbiano evidenti marker? O che un costrutto per sua natura dimensionale come la schizotipia oscilli da stati dissociativi e bizzarrie normali (quindi privi di marker) sino alla franca schizofrenia? Quello che dovrebbe essere il posto sicuro della psichiatria 2.0 diviene facilmente un rompicapo. Anche Lenzenweger (2010) che ha dedicato tutta la sua vita alle neuroscienze e alla psicopatologia sperimentale sostiene come la schizotipia sia una suscettibilità latente osservabile tramite numerosi indicatori (psicosi, caratteristiche di personalità, misure di laboratorio, indici psicometrici, etc.) che non sono però isomorfici rispetto a tale costrutto. Dulcis in fundo, esistono ormai dati consolidati sulla maggiore efficacia e minor tasso di drop-out delle terapie combinate antipisocotici/psicoterapia rispetto ai soli antipsicotici (Guo et al., 2010) e buone evidenze sull’uso esclusivo degli interventi psicoterapeutici (Morrison et al., 2018).
In un precedente articolo su State of Mind (2015) Francesco Mancini rimarcò come vi fossero almeno tre valide contro-argomentazioni nello sconfermare questa visione e mission difensiva della psichiatria. Primo, non esiste una relazione causale biunivoca tra farmaci e cambiamenti psicologici. Un antidepressivo può aumentare la quantità di serotonina o un antipsicotico può ridurre la dopamina, ma quali cambiamenti psicologici ne conseguano direttamente e quali tra questi svolgano un ruolo cruciale nel migliorare il quadro clinico esula da una spiegazione biologicista e sembra avvalorare piuttosto una cognitivista che presupponga un processo interpretativo soggettivo di eventi esterni o interni alla persona. Il secondo punto si fonda sulla centralità nella moderna medicina di modelli multifattoriali su base evolutiva in cui, ad esempio, esperienze negative interpersonali svolgono un ruolo comparabile se non a volte superiore all’ereditarietà genetica nell’insorgenza di una psicopatologia (Cicchetti & Walker, 2000). Il terzo punto ruota attorno all’assunto logico che non è legittimo inferire una neuropatologia solo perché si osserva una diversità, anche se la diversità osservata nel cervello corrisponde a una psicopatologia. Esempio chiaro di questo è l’alterazione neurobiologica in aree cerebrali diverse tra un paziente con demenza e soggetto normale, ma anche tra un paziente con disturbo ossessivo e soggetto normale ed infine tra un genio degli scacchi o del piano e tutti noi non scacchisti o pianisti.
Torniamo dunque alla centralità nella moderna psicopatologia dei modelli dimensionali, processuali e transdiagnostici e a come stiano ricevendo così grande attenzione e così tante conferme sperimentali (Harvey et al, 2004;,Widiger et al., 2002; Hayes & Hoffman, 2018). A meno di non voler cedere ad innumerevoli bias cognitivi, è forse più sensato non cercare di confermare ostinatamente un organicismo che si è ad oggi dimostrato fallimentare. Piuttosto che accorciare lo spazio a disposizione della psichiatria come Procuste era solito fare con gli ospiti di lunghezza diversa da quella del suo letto e confinarla in miserrime nicchie, converrà far proprie ipotesi alternative e cambiar il nostro sguardo al problema in oggetto. La comprensione dei meccanismi di funzionamento su base descrittiva dovrebbe più spesso orientare la ricerca di correlati organici piuttosto che imporre ai clinici la possibilità di parlare solo dopo riprove biologiche. Altrimenti la chirurgia non sarebbe potuta nascere sino all’avvento dei coniugi Curie e dei raggi x!
Evidenze e Prospettive Psicoterapeutiche
Ripartiamo dai dati. Nel leggere in maniera a nostro avviso creativa le argomentazioni della Harrington e gli ultimi 50 anni di storia della psicopatologia, Corbellini si dimentica di accedere alle linee guida esistenti sia nello specifico ambito della salute mentale (es. National Institute of Mental Health – NIMH) che più genericamente medico (es. National Institute of Care Excellence – NICE). Qualora scegliesse di farlo potrebbe scoprire come protocolli psicodinamici come il Mentalization-Based Treatment o la Transference-Focused Psychotherapy non si basano su quello che l’elzevirista definisce il “sonno della ragione”, quanto piuttosto su metodologie di validazione scientifiche.
Inaspettatamente organismi di rinomata fama internazionale come il NICE, che ben poco indulgono a “credenze pseudoscientifiche”, inseriscono protocolli psichiatrici e psicoterapeutici tra le loro prime linee di intervento! E molti tra gli interventi psicoterapeutici con le più solide evidenze scientifiche afferiscono alla cornice cognitivista che come sopra riportato ben si integra con una visione non più organicista della psichiatria e della scienza moderna. Come ben noto infatti, l’assunto è che i sistemi cognitivi rappresentino il nostro modo di percepire, interpretare ed attribuire significati agli eventi. E parlare di psicopatologia significa riconoscere che “a volte le risposte sono maladattive a causa di dispercezioni, interpretazioni errate, disfunzionali o idiosincratiche delle situazioni” (Beck & Weishaar, 2000, p. 242) con le quali ci confrontiamo.
Dunque vale sempre il principio evoluzionistico sommariamente riassunto in quello che in genere è il criterio C del DSM (leggasi disagio clinicamente significativo): per il pianista di cui sopra, dotato di un cervello a-normale, questo, fino a prova contraria, è pienamente adattativo per gli scopi della sua carriera di musicista. Nella misura in cui, come accadde al povero Schumann, l’esercizio pianistico diviene uno striving perfezionistico che porta a ledersi il nervo del dito anulare, compromettere la carriera solistica e sconfinare in un ritiro sociale, allora insorge una sofferenza che è ben altro dalla apollinea a-normalità cerebrale di un genio del pianoforte. Ed in tal caso, il Corbellini non ce ne voglia, una comprensione psicopatologica ed uno dei protocolli suggeriti da NICE o NIMH potrebbero pur valer qualcosa.