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Bastano 20 neuroni per “vedere”

Un recente studio ha utilizzato le moderne tecniche di optogenetica per chiarire quali siano i meccanismi neurali sottesi alla percezione visiva.

Di Enrica Gaetano

Pubblicato il 02 Set. 2019

Da un punto di vista neurale, ancor oggi non si conosce la ragione per cui alcuni specifici pattern neurali siano coinvolti nella percezione visiva mentre altri, nelle medesime aree cerebrali, sembrano non partecipare. Le moderne tecniche di optogenetica sembrano però venirci in aiuto nel rispondere a tale questione.

 

Una nuova ricerca dell’Università di Stanford, pubblicata recentemente su Science, suggerisce come sia sufficiente l’attivazione di soli 20 neuroni per indurre un’allucinazione visiva nei roditori. Il tutto grazie alle eccezionali potenzialità dell’optogenetica.

La percezione visiva è frutto dell’attività della corteccia visiva che elabora l’informazione sensoriale visiva proveniente dalla retina producendone un percetto.

Da un punto di vista neurale, ancor oggi non si conosce la ragione per cui alcuni specifici pattern neurali siano coinvolti nella percezione visiva mentre altri, nelle medesime aree cerebrali, sembrano non partecipare; parimenti non si hanno a disposizione tecnologie in grado di testare causalmente la precisa influenza e azione sul processamento percettivo da parte di specifici e individuali gruppi neurali sia tramite la loro attivazione sequenziale, uno alla volta, o globalmente in sincrono (Reardon, 2019).

A partire da evidenze ottenute su studi animali tra cui quella di Joglekar, Mejias e colleghi (2018) che hanno investigato a livello cellulare la corteccia visiva di roditori, è stata osservata una cruciale relazione tra singoli neuroni e pattern di interconnettività e reciprocità tra diverse aree e strati anatomici della corteccia visiva sia primaria che di livello gerarchico più alto per la codifica visiva.

Da esso ne è risultato che l’attività neurale sincrona, in combinazione con meccanismi sinaptici inibitori, consentirebbe ai neuroni posti nelle aree visive interconnesse tra loro, di amplificare o di sopprimere specifici segnali in risposta allo stimolo visivo realizzando così la parte iniziale della percezione visiva.

Tuttavia la relazione funzionale tra le dinamiche dei networks neurali e l’architettura anatomica delle aree visive che darebbe origine ai compiti percettivi di queste cellule nervose rimane ancora poco chiara (Marshel, Kim, Deisseroth et al., 2019).

Le tecniche optogenetiche per lo studio della percezione visiva

Le tecniche optogenetiche di nuova generazione di controllo in vivo dell’attività di singoli neuroni potrebbe fornire il mezzo più adatto per investigare tale relazione e la più consona ad elicitare tali compiti nei neuroni (Houweling & Brecht, 2008).

Nello specifico questa tecnica, attualmente utilizzata esclusivamente sugli animali da laboratorio, permette di controllare in modo individuale singole cellule nervose tramite impulsi di luce che interferiscono con la loro attività, con il fine di poterne manipolare l’attività e studiarne le relazioni causa-effetto mentre l’animale è impegnato in differenti task percettivi o comportamentali.

Questa tecnica appare particolarmente efficace soprattutto negli animali che hanno subito delle modifiche optogenetiche in quanto le loro cellule nervose a seguito di essa producono una proteina che “risponde” all’impulso di luce quando colpite, emettendo un altro impulso di luce che viene successivamente registrato.

Quest’ultimo consente di individuare il sito di attività delle cellule dalle quali è partito l’impulso di luce in modo tale da conoscere non solo la loro area di origine ma anche di differenziarne i pattern d’attività che sono stati elicitati associandoli ai comportamenti osservati negli animali (Houweling & Brecht, 2008).

Utilizzando una risoluzione cellulare nelle aree visive di roditori geneticamente modificati, Karl Deisseroth dell’università di Stanford e colleghi dei dipartimenti di bioingegneria, fisiologia molecolare e cellulare e medicina del medesimo ateneo, hanno indotto “allucinazioni” visive usando impulsi di luce su singoli neuroni nervosi delle aree visive di roditori, con lo scopo di comprendere come il cervello integri, interpreti e agisca sulla base delle informazioni che provengono dalla retina.

Il gruppo di lavoro di Deisseroth ha addestrato tramite condizionamento un piccolo numero di roditori a rispondere leccando un piccolo tubo che forniva loro acqua, ogni qual volta apparivano immagini di barre verticali, con orientamento a 90°, anziché orizzontali, cioè senza alcun tipo di orientamento.

Mentre il topo era impegnato nel task di discriminazione di stimoli visivi, i ricercatori hanno monitorato l’attività neurale nella corteccia visiva primaria V1, registrando gli spike dei singoli neuroni, posti in diversi livelli della corteccia, che rispondevano al task visivo discriminativo.

Da tale registrazione neurale i ricercatori hanno identificato circa 20 cellule nervose che sono apparse essere associate in modo consistente con l’osservazione delle immagini delle barre verticali da parte dei roditori.

In un secondo momento, utilizzando tecniche di optogenetica, iniettando cioè all’interno delle 20 cellule di V1 un virus in grado di alterare l’espressione genica delle cellule nervose visive rendendole in grado di sintetizzare alcune proteine che ne modificano la conformazione in presenza di un impulso luminoso, i ricercatori hanno innescato un’attività che a sua volta ha determinato in modo sorprendente il comportamento di avvicinamento del roditore al tubo per l’acqua, allo stesso modo di quando gli venivano mostrate le immagini delle barre verticali.

Tuttavia, in questa specifica condizione, l’animale si trovava in una gabbia completamente priva di luce in cui non vi era alcuna immagine da discriminare. In aggiunta a ciò, questo comportamento non era presente quando i ricercatori stimolavano i neuroni di V1 che rispondevano selettivamente alla presentazione delle immagini di barre orizzontali (Marshel, Kim, Deisseroth et al., 2019).

Conclusioni e prospettive future

Nello studio descritto non vi è una spiegazione del tutto chiara e dettagliata dell’eventualità che i roditori, al momento della stimolazione optogenetica, abbiano “visto” le barre verticali in modo consapevole o subliminale, la cui messa in evidenza potrebbe richiederebbe un diverso compito sperimentale.

Nonostante ciò, è sorprendente come la mera stimolazione di sole 20 cellule nervose abbia sviluppato “allucinazioni” nei roditori, cioè la percezione visiva di uno stimolo non presente realmente nell’ambiente.

Le evidenze di questa incredibile ricerca hanno introdotto anche un ulteriore avanzamento scientifico costituito dalle straordinarie potenzialità delle tecniche optogenetiche che consentono attualmente di manipolare attivamente e sul momento l’attività neurale anziché semplicemente registrarla, come se se si stesse suonando il “piano della mente” premendo progressivamente, con i nuovi avanzamenti scientifici, sempre più tasti (Marshel, Kim, Deisseroth et al., 2019).

Il passo successivo sarà in primo luogo quello di stabilire come i neuroni che codificano per uno specifico stimolo, come nel caso della ricerca sopra descritta, siano connessi alle altre regioni cerebrali che integrano e interpretano il significato dei dati visivi che ricevono e in un secondo momento di investigare le proteine che consentono alla cellula nervosa di “leggere” le informazioni riguardo alcuni attribuiti dello stimolo visivo come il colore, la forma o altri dati sensoriali come il suono o il tocco.

Non è ancora possibile utilizzare tecniche optogenetiche su gruppi umani, tuttavia la compagnia americana Second Sight di Los Angeles, ha pubblicato i primi risultati clinici ottenuti su un gruppo di pazienti con cecità che hanno ottenuto un beneficio alla vista grazie all’impianto in corteccia di un device in grado di stimolare e ripristinare l’attività neurale in risposta alle informazioni registrate da una telecamera posta vicino all’occhio della persona (Reardon, 2019).

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