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Valore atteso e rischio nel processo decisionale: quali i correlati neuronali?

Si è oggi alla ricerca dei sistemi cerebrali coinvolti nel processo decisionale e nell’elaborazione della grandezza e della probabilità degli esiti.

Di Raffaele Guido

Pubblicato il 08 Feb. 2017

Aggiornato il 03 Set. 2019 15:19

Affrontare un processo decisionale, dal più banale al più complesso, richiede la capacità di anticipare e soppesare adeguatamente le possibili conseguenze delle proprie scelte. Dalla neurofisiologia alle neuroscienze cognitive, numerosi ricercatori sono oggi in cerca dei sistemi cerebrali che prendono parte all’elaborazione della grandezza e della probabilità degli esiti, e che spingono il decisore ad accettare o rifiutare le opzioni proposte.

Raffaele Guido – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

La vita di ciascuno di noi è costellata di situazioni in cui è necessario scegliere tra varie alternative: che si tratti del colore di un vestito o dell’apertura o meno di un mutuo, ogni via percorsa e ogni processo decisionale porta a conseguenze differenti. È, quindi, auspicabile essere in possesso oltre che di una buona capacità previsionale, anche di un metodo oggettivo per il calcolo del valore delle opzioni da esaminare.

 

La teoria delle decisioni

Questa necessità ha dato vita alla teoria delle decisioni, che, fin dagli albori, ha cercato di sostituire  ad ogni alternativa disponibile un numero, in modo da semplificare il processo decisionale alla sola scelta dell’opzione col valore più alto.

La prima formulazione della teoria delle decisioni risale al XVII secolo, quando Pascal e Fermat cercano di formalizzare in linguaggio matematico le proprie aspettative circa l’occorrenza di eventi. Tale iniziativa ottiene una eco considerevole nell’aristocrazia del tempo, fortemente interessata sia a migliorare i propri risultati nel gioco d’azzardo, che ad assicurare i preziosi carichi in partenza, con grandi rischi, dai porti europei. Le fondamenta della teoria si basano sull’intuizione che due elementi siano essenziali per determinare le nostre scelte: quanto ardentemente si desideri qualcosa (il valore v) e quante probabilità si abbiano di ottenerla (la probabilità p). Per la teoria delle decisioni risulta quindi possibile misurare e confrontare il valore delle diverse alternative attraverso la semplice moltiplicazione del valore v con la probabilità p, ottenendo il cosiddetto valore atteso (EV dall’inglese expected value). Chiave di volta di questo costrutto teorico risulta, quindi, la scelta dell’opzione con il più alto valore atteso.

L’uomo “in carne ed ossa”, però, non segue rigorosamente questi dettami nel processo decisionale tra più opzioni. La teoria razionale si basa sulla massimizzazione del valore atteso, atteggiamento adottato non così frequentemente quanto si creda.

Già a cavallo tra XVII e XVIII secolo, infatti, Bernoulli e Huygens si accorgono di quanto sia ampia la distanza tra aspettative razionali e reale comportamento umano, sottolineando in particolare la naturale propensione delle persone all’avversione al rischio. Per esempio, la maggioranza della gente preferisce la certezza di ricevere un pagamento di 49 euro piuttosto che scommettere sull’eventuale vincita di 100 euro con una probabilità del 50%, nonostante il valore atteso della seconda opzione sia superiore a quello della prima. Nella prima metà del 1700, quindi, la teoria viene riformulata con l’introduzione del concetto di utilità (U), un valore dalla forte connotazione soggettiva (chiameremo questa teoria EUT, dall’inglese expected utility theory). La differenza rispetto al “valore” descritto sopra è sottile, ma cruciale. La funzione dell’utilità, infatti, presenta incrementi non lineari a seconda del livello di ricchezza iniziale: ad esempio, un aumento da 0 a 10 euro ha un impatto maggiore di uno tra 100 e 110. Tali incrementi, inoltre, sono associati a livelli di utilità differenti in base al patrimonio di cui si dispone: maggiore è quest’ultimo, minore sarà l’effetto dell’incremento monetario (Fig.1).

Valore atteso e rischio nel processo decisionale quali i correlati neuronali _ FIGURA 1

Fig. 1 – Rappresentaziona grafica dell’andamento dell’utilità in funzione dei guadagni

 

L’accorgimento teorico permette quindi di salvare sia l’aspetto razionale del decisore, sia l’applicazione realistica della teoria agli effettivi comportamenti.

 

La teoria della scelta razionale

Infatti, la nozione di utilità porterà, due secoli dopo, a quella che ancora oggi è considerata la teoria della scelta razionale nell’economia neoclassica. Questa svolta si verifica nella prima metà del ‘900, quando Von Neumann e Morgenstern, un fisico e un economista, partendo dalle basi teoriche fin qui descritte, costruiscono un modello normativo del comportamento razionale, che preveda anche la valutazione di alternative in condizioni di rischio o di incertezza. Questo modello riconosce all’attore del processo decisionale, intento a selezionare l’opzione con la più alta utilità attesa, la capacità di stimare le probabilità di stati del mondo, trattandoli secondo le regole del calcolo delle probabilità (e in particolare, nella loro teoria con una visione frequentista della probabilità). Tale modello si fonda su alcuni assiomi che caratterizzano la razionalità delle scelte di un ipotetico decisore, e che si basano soprattutto sulla coerenza nelle sue preferenze.

 

La teoria del prospetto

Nel 1979 Amos Tversky e Daniel Kahneman espongono, in un articolo divenuto poi un classico, la “teoria del prospetto” (dall’originale inglese “Prospect Theory”). Trenta pagine scarse, ma che nel 2002 frutteranno il premio Nobel a Kahneman, e che sin da subito bastano a scuotere il mondo dell’economia neoclassica, puntando i riflettori su una serie di sistematiche violazioni della EUT nella descrizione dei comportamenti umani. La caduta del costrutto teorico della EUT equivale alla fine del dominio dell’iper-razionale “Homo Oeconomicus” e lascia spazio a decisioni influenzate da considerazioni cognitive non razionali (oggi, come vedremo, ne conosciamo i risvolti emotivi) ma decisamente più realistiche.

Tra gli apporti teorici più innovativi della teoria del Prospetto vanno sicuramente menzionati l’effetto di incorniciamento e l’avversione alla perdita. Il primo, meglio noto come “framing effect”, dimostra come descrizioni alternative di un problema decisionale possano mettere in luce aspetti differenti dei risultati e condurre, quindi, a preferenze diverse. Con avversione alla perdita definiamo, invece, la tendenza a preferire l’evitamento di una perdita all’acquisizione di un guadagno. Alcuni studi suggeriscono che la perdita abbia un impatto psicologico doppio rispetto al guadagno (Kahneman D. e Tversky A., 1984).

Ne segue, quindi, che due diverse modalità di esporre un problema decisionale, pur logicamente equivalenti, conducono gli individui a scelte differenti a causa della loro maggiore sensibilità alle perdite, rispetto ai guadagni. Tutto ciò porta gli attori del processo decisionale a valutazioni differenti del rischio di una situazione, con una tendenza a comportamenti “conservatori” in condizioni di vincita e “avventurieri” in condizioni di perdita.

 

Il rischio nel processo decisionale

In particolare dagli studi di Kahneman e Tvesky emergono quattro possibili attitudini al rischio, ovvero comportamenti che tendiamo ad attuare in quelle situazioni in cui sono note le probabilità di un’eventuale vincita o perdita e in cui ci si discosta regolarmente dalle predizioni basate sulle regole del valore atteso. Tali attitudini sono suffragate da una grossa mole di osservazioni sperimentali.

Andremo adesso a vedere nello specifico queste quattro situazioni, ma prima è necessaria una precisazione. Le scommesse sono principalmente di due tipi, pure e miste. La scommessa pura offre $x con una probabilità p e 0 con una probabilità 1-p. Una scommessa mista offre invece due esiti: nel primo l’opportunità di vincere x con una probabilità p (e quindi di non vincere nulla con una probabilità 1-p), nel secondo la possibilità di perdere y con una probabilità m (e ovviamente di non perdere nulla con una probabilità 1-m). Le scommesse miste, quindi, espongono potenzialmente a un rischio più alto, ma le probabilità degli esiti sono comunque note.

Con l’espressione C(x,p)=$q, si indica che q è la quantità di denaro che in media un campione rappresentativo della popolazione ritiene ugualmente attraente ad una vincita x con probabilità p.

Utilizzando tali definizioni le quattro attitudini citate in precedenza possono essere espresse come segue:

  • (a) C($100,0.05)=$14
  • (b) C($100,0.95)=$78
  • (c) C($-100,0.05)=$-8
  • (d) C($-100,0.95)=$-84

Vediamo in che modo queste equivalenze violano i dettami della EUT.

(a) indica che 14 dollari rappresenta il quantitativo di denaro ritenuto in media ugualmente attraente a una scommessa che offra la possibilità di vincere 100 dollari con una probabilità del 5%. Tuttavia, la EUT prevede che:

EV(a)=100*0.05=5

Nella sostanza un’offerta sicura di 14 dollari non dovrebbe solo eguagliare la scommessa, ma addirittura essere molto più desiderabile. In questo caso di potenziale guadagno ,quindi, la somma ritenuta equa è superiore al suo reale valore atteso. Bisogna capire perché la EUT non sia in grado di generare delle corrette previsioni sul valore atteso e spiegare il fondamentale apporto teorico della PT in questo senso. Poniamo che $14 sia C (sta per certezza) e la scommessa in (a) sia S (scommessa). La predizione del valore atteso è che C>S, ovvero che 14 dollari dovrebbero essere sempre preferiti alla scommessa in (a). Ciò che invece osserviamo è che C=S, ovvero che si tenda a essere indifferenti nella scelta tra una e l’altra, senza una reale preferenza. Sono due le potenziali ipotesi che entrano in gioco nella spiegazione del fenomeno: la prima è che C sia sottostimata e la seconda è che S sia invece sovrastimata. La sottostima di C spiegherebbe la propensione al rischio dei soggetti, ma per poter sostenere appieno questa ipotesi è necessario che sia soddisfatta almeno una tra due condizioni: o vi sia una qualche distorsione soggettiva delle probabilità in gioco oppure un effetto dato dalla concavità della funzione dell’utilità attesa.

La prima condizione è facilmente trascurabile, essendo l’impatto delle probabilità praticamente nullo in caso di certezza del risultato. La seconda d’altro canto predice il fenomeno opposto: la somma di 14$ dollari dovrebbe sempre essere preferita alla scommessa in (a). Ricordiamo infatti che una funzione concava prevede che un aumento da 0 a 14 abbia un peso maggiore di un aumento da 86 a 100. Le previsioni teoriche della EUT sono quindi in disaccordo coi fatti. Nel dominio dei guadagni ci si aspetta infatti un comportamento di avversione al rischio, qui vediamo esattamente il contrario: con basse probabilità di guadagno si osserva una marcata propensione al rischio.

Esclusa quindi la prima ipotesi, è necessario testare anche la seconda, la sovrastima di S. Nuovamente vanno prese in considerazione le due condizioni già vagliate per C: l’effetto della funzione concava dell’utilità o l’eventuale distorsione della percezione soggettiva delle probabilità. Come nel caso precedente, la concavità della funzione spinge verso l’esito opposto, attribuendo un peso maggiore agli incrementi più vicini allo zero. Va quindi presa in considerazione la percezione soggettiva delle probabilità, che risultano, in questo caso, sovrastimate. In situazioni di rischio moderato, rimanendo nel dominio del potenziale guadagno, i soggetti tendono ad attribuire a probabilità basse (per esempio 0.05) un impatto psicologico maggiore rispetto a quello del loro equivalente previsto dalla EUT.

In parole povere si sentono fortunati e spronati a rischiare. Quanto appena analizzato presenta delle somiglianze con il caso (c). In questa situazione, nel dominio delle potenziali perdite, dovremmo preferire l’accettazione della scommessa, come si evince da EV=-100$*0.05=-5$, piuttosto che una perdita sicura di 8 dollari. La convessità della funzione del valore atteso per le perdite non è da annoverare tra le possibili spiegazioni poiché tende a privilegiare l’accettazione della scommessa, che presenta un valore ponderato più basso (-5$), rispetto alla sicura sottrazione di 8$. L’ipotesi più plausibile è che, nel processo decisionale, un’eventuale distorsione nella percezione delle probabilità contrasti con il comportamento di propensione al rischio, atteso in questo contesto dalla EUT.

L’aspetto comune ai due contesti è la valutazione di probabilità molto basse, che vengono sistematicamente sovrastimate dalla maggior parte dei soggetti. Tale sovrastima agisce in direzione opposta alla funzione del valore atteso, concava nel dominio dei guadagni e convessa in quello delle perdite, generando, contrariamente alle attese, un comportamento di propensione al rischio in caso di potenziali guadagni poco probabili e di avversione al rischio in condizioni di possibili perdite, anch’esse scarsamente probabili.

Passiamo ad analizzare il caso (b), che presenta aspetti diversi rispetto ai due precedenti. Nel primo, infatti, la somma dell’equivalente certo (78$) è più bassa del potenziale valore della scommessa: EV=100$*0.95=95$. La possibilità, anche se minima (5%) di non vincere, spinge i soggetti ad accettare una somma meno rilevante, generando un comportamento di avversione al rischio nel dominio delle vincite. A differenza di (a) e (c), in (b) l’andamento concavo della funzione del valore atteso può giustificare la sovrastima del valore di C, agendo, come vedremo anche in (d), in sinergia con la sottostima della probabilità di S. In (d), infine, si ritiene equo un valore certo (-84$) più basso del valore della scommessa S: EV(d)=-100$*0.95=95. In questo caso interviene, quindi, un effetto di sottostima della probabilità di S.

Le osservazioni da (a) a (d) costituiscono quattro diverse attitudini al rischio: vi è una marcata propensione al rischio nel caso di guadagni poco probabili (a) o perdite altamente probabili (d), mentre si tende a preferire un comportamento di avversione al rischio qualora si faccia fronte a guadagni molto probabili (b) o perdite scarsamente probabili (c).

Alla luce di tali considerazioni la PT introduce due nuove variabili nella canonica equazione del valore di una scommessa che offra x con probabilità p ( e nulla con probabilità 1-p):

V(x,p)=v(x)*w(p)

Dove v rappresenta il valore soggettivo di x, quindi descrive la funzione valore (Fig.2) e w misura l’impatto della probabilità p sul grado di attrazione di un’opzione e determina la cosiddetta “funzione di ponderazione” (Fig.3) ( dall’inglese weighting function).

Valore atteso e rischio nel processo decisionale quali i correlati neuronali_FIGURA 2

Fig.2 – Concava per i guadagni e convessa per le perdite

 

Valore atteso e rischio nel processo decisionale quali i correlati neuronali_FIGURA 3

Fig.3 – Dalla curva ad S invertita si nota la sovrastima di probabilità basse e la sottostima di probabilità medio-basse fino all’annullamento della distorsione con P=1

 

La forma della weighting function descrive al meglio le quattro diverse attitudini appena viste. La curva tende ad essere concava verso zero (impossibilità) e convessa verso uno (certezza). Ciò sta ad indicare che probabilità basse vengono costantemente sovrastimate, come accade in (a) e (c) e che probabilità medie o tendenti ad uno sono di norma sottostimate, come osservato in (b) e (d). Restando nel dominio dei guadagni, notiamo che la curva della weighting function presenta una pendenza maggiore andando da 0.99 verso 1 rispetto all’incremento che va, per esempio, da 0.10 a 0.11. Infine si può notare come la funzione valore sia più ripida nel dominio delle perdite che in quello delle vincite: ciò indica che nelle cosiddette scommesse miste (in cui si può contemporaneamente perdere e vincere una data somma), si riscontreranno alti livelli di accettazione delle stesse qualora le vincite offerte superino di almeno 2.25 volte le possibili perdite.

L’innovazione cardine della PT è, in sintesi, quella di aver fornito un quadro teorico in grado di descrivere e prevedere accuratamente il reale comportamento di qualsiasi agente in procinto di scegliere tra varie opzioni, accantonando il mito dell’essere umano iper-razionale.

Una così efficace predizione dei comportamenti di scelta da parte della PT, ha spinto la ricerca a cercare di identificare traccia di eventuali correlati neurali nel processo decisionale delle stesse variabili della teoria del Prospetto.

 

Le basi cerebrali del processo decisionale

Ricapitolando, affrontare i processi decisionali della vita quotidiana, dai più banali ai più complessi, richiede la capacità di anticipare e soppesare adeguatamente le possibili conseguenze delle proprie scelte.

Sin dalla sua origine, la Teoria della decisione ha previsto che questa anticipazione coinvolga innanzitutto, come variabili decisionali basilari, la grandezza (magnitude) di ciò che vogliamo, la probabilità di ottenerlo, e il loro prodotto, il valore atteso. Proprio quest’ultimo, “sintesi pesata” del valore degli esiti e della loro probabilità, costituisce nella teoria normativa del processo decisionale, il criterio guida basilare per la scelta ottimale. Non stupisce, quindi, che tali parametri, e la loro elaborazione, siano divenuti oggetto di studio di molti settori delle neuroscienze. Dalla neurofisiologia alle neuroscienze cognitive, numerosi ricercatori sono oggi in cerca dei sistemi cerebrali che prendono parte all’elaborazione della grandezza e della probabilità degli esiti, e che spingono infine il decisore ad accettare o rifiutare le opzioni proposte, modulando quindi quei comportamenti di approccio vs. evitamento che costituiscono le modalità basilari del comportamento umano.

Nell’ampia letteratura di studi sulle basi cerebrali del processo decisionale, è centrale in questo senso quel sottogruppo di studi che hanno indagato la cosiddetta “decision utility”, ossia la pura anticipazione degli esiti senza l’aspettativa della conoscenza immediata degli stessi. Oggetto principale di questi studi, infatti, è proprio l’anticipazione delle variabili di base, ossia guadagni e perdite.

In estrema sintesi, i risultati di questi studi hanno mostrato che l’anticipazione di esiti positivi è associata all’attività dello striato ventrale (Tobler et al., 2005), mentre l’anticipazione di eventuali perdite è associata a un’attivazione dell’amigdala (Canessa et al., 2009, 2011; Yacubian et al., 2006), ma senza una visione unanime. Uno studio, in particolare, suggerisce che l’anticipazione delle perdite sia associata alla deattivazione di quelle stesse aree mesocorticolimbiche coinvolte nella valutazione delle vincite (una risposta “bidirezionale”), senza tuttavia alcuna attivazione specifica di regioni “emotive” come insula e amigdala (Tom et al., 2007).

 

I correlati neurali del valore atteso e del rischio nel processo decisionale

Per approfondire le conoscenze sui correlati neurali del processo decisionale, ci siamo concentrati sull’anticipazione del valore atteso e del rischio, variabili sovraordinate e più complesse rispetto a guadagni e perdite, ma comunque cruciali ai fini dell’esito del processo decisionale. 56 soggetti hanno partecipato ad un “gambling task” che richiede l’anticipazione di guadagni e perdite di reali somme di denaro. Il compito consisteva nell’accettare o rifiutare, durante sessioni di risonanza magnetica funzionale attraverso la pressione di due tasti, una scommessa “mista”, cioè composta sia da una lotteria “vincente”, che avrebbe potuto portare alla vincita di una somma di denaro M+ con probabilità P+ (o a nessuna vincita con la probabilità complementare 1-P), che da una lotteria “perdente”, che avrebbe potuto portare alla perdita di una differente somma di denaro M- con probabilità P- (o a nessuna perdita con probabilità 1-P-). Le due lotterie venivano presentate simultaneamente in video, l’una sopra l’altra.

Inoltre, in linea con la complessità delle analisi neurofisiologiche sul profilo di scarica di singoli neuroni (es. Padoa-Schioppa e Assad, 2006; Rolls et al., 2008), si è indagata sia una componente lineare, ovvero quelle regioni cerebrali in cui l’attività aumenta linearmente all’aumentare di rischio e valore atteso, che una componente quadratica, per individuare quelle aree cerebrali che mostrano un’attività massima per valori intermedi dei parametri in esame, e minima per valori estremi.

L’esistenza di profili di attività “lineare” e “quadratica” riflette plausibilmente sotto-tipi differenti di elaborazione del segnale. E, in particolare, una relazione quadratica tra stimolo e attività cerebrale suggerisce una forma di valutazione delle variabili decisionali in cui i valori estremi vengono sistematicamente accettati o rifiutati (perché di più facile valutazione), mentre l’attività massima legata a valori intermedi, rispecchia il tentativo di dirimere un conflitto decisionale da parte di queste regioni. Alla luce di queste considerazioni, i nostri risultati mostrano un mosaico di regioni cerebrali che sembrano specificamente coinvolte nell’elaborazione del valore atteso dell’opzione di scelta, del suo rischio intrinseco ed infine nella scelta finale di accettazione vs. rifiuto.

In particolare, l’elaborazione del valore atteso riflette attivazioni cerebrali che crescono linearmente con esso in un ampio insieme di regioni, e precisamente striato ventrale bilaterale, talamo, area supplementare motoria, e la parte dorsale della corteccia del cingolo anteriore. Alla luce delle conoscenze disponibili (Croxson et al., 2009), è plausibile un quadro del processo neurale sottostante in cui valori attesi più elevati, associati ad una più intensa anticipazione di una gratificazione, hanno maggior probabilità di condurre all’implementazione di programmi di approccio alla posta in palio (mediata dall’area supplementare motoria), in seguito ad analisi costi-benefici favorevoli mediate dalla corteccia del cingolo anteriore.

L’analisi della componente quadratica del valore atteso mette in luce, invece, un interessamento della corteccia orbitofrontale, che mostra un’attività massima per valori intermedi, ossia quelli nei quali la differenza tra potenziali guadagni e perdite è ridotta. Come accennato in precedenza, e in linea con precedenti dati neurofisiologici (Padoa- Schioppa, 2009, 2011), questo dato mette in luce l’elaborazione di un conflitto tra criteri di scelta differenti. Un valore atteso molto elevato o estremamente negativo, infatti, richiede un minimo carico cognitivo per, rispettivamente, accettare o rifiutare la scommessa. Al diminuire della differenza tra possibili vincite e perdite, invece, aumentano la difficoltà e, al contempo, l’importanza di un’attenta valutazione a carico della corteccia orbitofrontale (Fig.4).

Valore atteso e rischio nel processo decisionale quali i correlati neuronali_FIGURA 4

Fig.4 – Regioni coinvolte nell’elaborazione del valore atteso:in giallo la componente lineare, in verde quella quadratica

 

Queste considerazioni possono probabilmente essere estese alla curva di risposta quadratica dell’elaborazione del rischio, che coinvolge il network esecutivo (Fig.5).

Valore atteso e rischio nel processo decisionale quali i correlati neuronali_FIGURA 5

Fig.5 Regioni attive durante l’elaborazione del rischio

 

Per valori di rischio intermedi, infatti, il controllo cognitivo richiesto per il processo decisionale è maggiore, rispetto a valori estremi associati, rispettivamente, al rifiuto del rischio (e quindi al rifiuto) per valori molto alti o all’accettazione del rischio (e quindi della scommessa) per valori di rischio molto bassi. Infine, un’ulteriore segregazione si osserva per i sistemi cerebrali che sottendono il processo di selezione dell’azione, ossia la scelta finale di accettazione vs. rifiuto.

Questo contrasto, che segna la fase finale della catena “stimolo-risposta” nel compito decisionale qui usato, evidenzia ancora una volta una netta distinzione tra sotto-processi differenti quali quelli che sottendono comportamenti di approccio vs. evitamento (Fig.6).

Valore atteso e rischio nel processo decisionale quali i correlati neuronali_FIGURA 6

Fig.6 Aree coinvolte nell’elaborazione della risposta: in magenta accettazione, in blu rifiuto

 

In particolare, l’accettazione della scommessa attiva strutture frontomediali quali la porzione anteriore della corteccia del cingolo media e l’area supplementare motoria, già associate ad analisi costi-benefici (Croxson et al., 2009). All’opposto, il rifiuto della scommessa coinvolge strutture somatosensoriali nel giro postcentrale e limbiche (ippocampo e l’amigdala), che plausibilmente riflettono la generazione di segnali avversativi e di “pericolo” (LeDoux, 2012). In estrema sintesi, questi dati sembrano suggerire la necessità di riconsiderare il coinvolgimento della corteccia orbitofrontale nel processo decisionale.

Il ruolo di questa regione, a lungo ritenuta il “direttore d’orchestra” del comportamento umano (Goldberg, 2004) può oggi essere ri-descritto in termini più specifici, e in particolare nell’integrazione dei parametri decisionali basilari quali vincite e perdite (si veda anche Basten et al.,2010) Tale integrazione, però, confluisce in una funzione di risposta cerebrale quadratica (e non lineare) di valutazione del valore atteso. Un altro dato cruciale è rappresentato dal fatto che, se la corteccia orbitofontale integra e gestisce conflitti tra differenti criteri decisionali, la scelta finale sembra, invece coinvolgere altre regioni, coinvolte nel controllo cognitivo e nell’implementazione dell’azione. Del resto, quell’ampio settore di studio che indaga la presa di decisione in termini computazionali, nell’ottica della Teoria dell’apprendimento del rinforzo, afferma ormai senza alcun dubbio che “decidere” equivale a “selezionare un’azione”, e che i sistemi motivazionali localizzati nello striato costituiscono un’interfaccia tra percezione e azione, volta a massimizzare le gratificazioni minimizzando, al contempo, le punizioni (Rolls, 2008).

È ancora lunga la strada che ci separa dalla piena comprensione dei meccanismi che sono alla base del processo decisionale nell’uomo. Qualcuno può considerare lo studio di poche variabili e della loro integrazione come un approccio troppo semplicistico, rispetto alla complessità del tema trattato.

Come diceva, però, Jean Perrin “compito della scienza è sostituire invisibili semplici a visibili complessi” e in questo atto non bisogna intravedere un’opera di riduzionismo, bensì un tentativo di portare alla luce, attraverso l’individuazione dei costituenti primitivi, i meccanismi cognitivi e cerebrali del processo decisionale. Processi che, con il procedere della ricerca, scopriamo sempre più emotivi e sempre meno ”freddamente razionali” come amiamo credere.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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