La paura degli eventi naturali un tempo era qualcosa di più della paura. Era panico e terrore, un sentimento di ordine cosmico. Il panico era terrore dell’ira degli dei, non paura di terremoti, frane, slavine, inondazioni. Malgrado si tratti di un’emozione, il panico ha più i caratteri di un fatto esterno che di interiore. Già il timore di Dio era passato a essere stato interiore, non panico. Il panico è un’emozione esterna, in cui la minaccia è terrificante perché l’individuo sente messo a rischio il suo senso di protezione e di sicurezza.
Gli esseri umani creano legami sociali molto profondi che connotano il loro luogo di vita e di crescita, la loro tana, in termini non solo di protezione ma anche di relazione con gli altri membri della famiglia e del clan. Il nostro senso di cura e sicurezza è così sviluppato che la minaccia a esso genera uno stato di disorientamento così intenso da essere percepito non come paura interna, ma come panico, possessione esterna da parte di un dio o un essere demoniaco.
Non basta. Quando i legami familiari e sociali sono saldi e sicuri, questi alimentano la salute psicologica degli esseri umani per tutta la vita. La carenza di questi legami invece genera sentimenti di desolazione e infelicità, mentre il ricongiungimento genera un senso di conforto e sicurezza. Insomma, il panico non ha molto a che vedere con la paura, perché sono diversi i circuiti neurali ed è diversa la reazione.
La paura, a differenza del panico, è percezione di un pericolo specifico che non mette rischio il nostro senso di protezione e di cura. Di fronte a pericoli specifici, che non mettono a rischio la nostra sicurezza, abbiamo a disposizione la fuga oppure possiamo perfino contrattaccare. Così si spiega la capacità della paura di rovesciarsi in rabbia, e viceversa. Non così il panico, per il quale non c’è fuga ne attacco. C’è la paralisi terrifica, il raggelamento delle funzioni vitali, il freezing, nel quale godiamo di una flebile speranza di sopravvivenza. In quelle condizioni di rallentamento delle funzioni vitali, sopravvivere diventa leggermente più facile.
Con la modernità il nostro controllo sulla natura è enormemente aumentato. Questa ossessione del controllo, che pure ci ha liberati dalla paura e tanti benefici ci ha portato in termini di sicurezza e benessere, genera però una curiosa incapacità di comprendere i nostri limiti e la nostra vulnerabilità. Pare che negli Stati Uniti i programmi di meteorologia dominino il palinsesto, in una lotta infinita tra disastri imprevedibili e volontà ferrea di prevedere tutto, compreso l’imprevisto dei terremoti.
Questo progresso ci permette di pensare pensieri diversi. La natura non ci fa più paura. O meglio non ci ispira più terrore. E quando leggiamo sui giornali di disastri naturali, non proviamo più il panico reverente che si deve alla natura, ma fastidio, il fastidio che si riserva alle cose che non sono andate come avremmo desiderato.
Questo però a patto di non essere li, di fronte al disastro. Di non essere a Rigopiano davanti alla slavina che rotola spaventosa giù dalla montagna o in Giappone durante lo Tsunami. In quel caso non cambia la nostra reazione al pericolo naturale: torna il panico terrificante. Solo le vittime tornano a contatto con il sentimento di potenza della natura di fronte alla quale siamo indifesi.
Non così noi, affaccendati lettori di giornali nei caffè cittadini. La notizia del disastro si trasforma in un ennesimo dibattito tra esseri umani inclini alla chiacchiera, tutti espertissimi di sicurezza, di protezione civile e di organizzazione dei soccorsi. Eppure tutta questa razionalità malposta, se schiva l‘esperienza cosmica del panico e del terrore della natura, finisce per sfociare in un’altra esperienza altrettanto arcaica: la ricerca del colpevole, del capro espiatorio su cui caricare la colpa del disastro e da espellere dal gruppo sociale. Curioso ping pong tra razionalità e riti arcaici. E così si dibatte infinitamente di responsabilità e si imbastiscono innumerevoli processi.