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Forse Esther (2014) di Katja Petrowskaja – Recensione

Forse Esther è una storia di contraddizioni: una ricerca delle proprie radici tra un presente invaso dalle informazioni e un passato denso di oscurità.

Di Marco Innamorati

Pubblicato il 24 Nov. 2015

Aggiornato il 07 Gen. 2016 14:13

Una donna alla ricerca delle proprie radici tra un presente invaso dalle informazioni e un passato denso di oscurità.

Katja Petrowskaja è un personaggio che sfugge a ogni semplice etichettatura. Nata in Ucraina da una famiglia di origine ebraica, studia a Tartu e a Mosca in due delle università più prestigiose dell’Unione Sovietica ma per molti anni il suo talento letterario rimane muto. Sposatasi con un esponente di spicco di Greenpeace, si trasferisce a Berlino e sembra del tutto a suo agio nel ruolo di moglie e madre fin’oltre il compimento dei quarant’anni. A un tratto, però, decide di intraprendere la carriera giornalistica e nel giro di qualche mese diviene uno dei columnist più seguiti della Germania, scrivendo sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung con la firma Die östliche Diwa, cioè la Diva dell’est (gioco di parole sul West-östlicher Diwan, ovvero il Divano Occidentale-orientale di Goethe). La Diva, tuttavia, non ancora soddisfatta di una carriera pressoché istantanea e fulminante, decide di mettere in atto un progetto a lungo solo vagheggiato: un libro basato sulla storia delle origini della propria famiglia.

Ne nasce ‘Vielleicht Esther’, che viene pubblicato dalla più prestigiosa casa editrice tedesca (Suhrkamp) e vince prima ancora della pubblicazione il Premio Bachmann nel 2013. All’uscita in Germania, nel 2014, il successo è travolgente: acclamato da molti come un capolavoro, il libro viene subito tradotto in sedici lingue, tra le quali l’italiano. In Italia esce come ‘Forse Esther’ per Adelphi (casa editrice alla quale sembra attagliarsi perfettamente il profilo da outsider dell’autrice) e vince subito un premio letterario anche da noi: la prima edizione del Premio Strega per romanzi stranieri.

In Germania suscita stupore anche l’uso della lingua tedesca da parte di una straniera: una prosa talmente sfaccettata da indurre Suhrkamp a invitare i traduttori a un seminario comune per studiare insieme gli interrogativi stilistici posti dalle rispettive traduzioni. Alcuni critici considerano la scrittura della Petrowskaja una delle più brillanti ed efficaci di questo scorcio di secolo. Lei, tuttavia, non si scompone; abituata ad anni di penombra si limita a rispondere nelle interviste, a chi esprime stupore per la sua tecnica, che comunque lei si fa correggere gli eventuali errori dal marito. Divenuta nota in Germania proprio nel periodo del conflitto russo-ucraino, viene naturalmente invitata varie volte in televisione e si segnala anche per una tendenza naturale a evitare la diplomazia. Lo imparano subito i colleghi giornalisti che si sentono chiedere in diretta televisiva, di fronte all’ambasciatore russo, perché lei si trovi seduta allo stesso tavolo con il rappresentante di un paese che ha appena invaso il suo…

‘Forse Esther’ è una storia di contraddizioni e di oscurità. L’Io narrante si muove in un mondo dove «Google regna su di noi come il Padreterno», o piuttosto dove «Dio ci ‘googla’ la strada, affinché non smarriamo il cammino» (p. 18). Eppure la ricerca del passato si muove tra buchi di informazione paradossali. Il titolo stesso annuncia il primo mistero familiare: il padre della protagonista dichiara che il nome della propria nonna è appunto forse Esther. Come forse?, chiede l’io narrante, come è possibile non ricordarsi il nome della nonna? La risposta è disarmante: i figli la chiamavano mamma e i nipoti babuška. Nessuno quindi pronunciava mai il suo nome. La natura del libro è anch’essa difficilmente riconducibile a una definizione univoca. Si muove al confine tra romanzo e ricerca storica; tra memoria e creazione. Il senso del vissuto non offre punti di riferimento stabili: «Eravamo felici, e tutto in me si ribellava al detto di Tolstoj che ci è stato tramandato, secondo il quale, nella loro felicità, le famiglie felici si assomigliano tutte, mentre uniche nel loro genere sono solo quelle infelici, un detto che, adescandoci nella sua trappola, suscitava in noi la propensione all’infelicità, come se soltanto dell’infelicità valesse la pena parlare, mentre la felicità era vuota» (p. 23). L’ambivalenza è evocata fin dalla surreale scritta che l’io narrante vede lampeggiare dalla volta dello Hauptbanhof, la stazione centrale di Berlino, all’inizio del suo viaggio verso est: «Bombardier willkommen in Berlin». Senza conoscere il contesto si tradurrebbe con un benvenuto di Berlino ai bombardieri che suona veramente grottesco; in realtà la città ospitava un musical francese di grande successo, appunto ‘Bombardier’.

Fantasmi dai cognomi troppo diffusi si affacciano dal passato: Geller e Heller, Levi e Stern. Soprattutto Stern, come ‘stella’. Sono gli infiniti discendenti di ebrei dallo stesso cognome, dalle stelle gialle perché Stern sulle Yellow Pages di un elenco telefonico americano; alle stelle gialle che contraddistinguevano gli ebrei nei campi di concentramento; alle stelle rosse dei combattenti per l’Unione Sovietica. Una delle stelle rosse, lo zio Vil dell’io narrante, è talmente coinvolta nella fede verso il proprio paese da consolidarla viepiù dopo un episodio atroce. Il plotone del quale fa parte viene mandato all’assalto sotto il fuoco incrociato nemico solo per riempire un fosso anticarro sul quale possono infine passare i panzer; ferito gravemente, viene ritrovato ancora vivo sotto tutti gli altri compagni di plotone. Come non disperare della patria del socialismo? «Chi aveva dubitato non era sopravvissuto» è la risposta (p. 38).

Tutti i personaggi si avvicendano in storie dal contenuto traslucido come la Esther (forse) del titolo, che pare fosse stata uccisa dalla rivoltellata noncurante di un ufficiale tedesco, in risposta alla sua innocua domanda su dove fosse Babij Jar (la fossa comune degli ebrei vicino Kiev). «Osservo questa scena» scrive la Petrowskaja «come fossi Dio, dalla finestra della casa dirimpetto. Forse si scrivono così i romanzi. Oppure anche le fiabe. Siedo in alto, e vedo tutto! A volte mi faccio coraggio e mi avvicino e mi metto alle spalle dell’ufficiale, per ascoltare di nascosto la conversazione. Ma perché mi voltano le spalle? Giro loro attorno, e ne vedo solo le spalle. Per quanto mi sforzi di guardarli in volto, di vedere i loro volti, quello di babuška e quello dell’ufficiale, per quanto allunghi il collo per riuscire a vederli e tenda tutti i muscoli della mia memoria, della mia fantasia e della mia intuizione – non funziona proprio. Non vedo i volti, non capisco, e i libri di storia tacciono» (pp. 186-7). La scrittura si ripiega su se stessa e diventa così interrogativo estetico, domanda sul senso del domandare. Chiunque si occupi di psiche troverà in Forse Esther spunti di riflessione, oltre al puro e trasparente piacere della lettura.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Petrowskaja, K. (2014). Forse Esther, trad. it. Adelphi, Milano.
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