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La risonanza magnetica può predire il rischio di schizofrenia: le alterazioni delle connessioni cerebrali come biomarker precoce di malattia

Nei cervelli dei pazienti schizofrenici è stata rilevata una riduzione di densità, forza ed efficienza delle connessioni a livello del cosiddetto “rich club

Di Redazione

Pubblicato il 03 Giu. 2015

Sabrina Guzzetti

FLASH NEWS

A partire dalla fine degli anni ’90, diversi studi di neuroimmagine condotti su pazienti schizofrenici hanno evidenziato, in modo piuttosto consistente, la presenza di un diffuso pattern di disconnessione cerebrale, tanto che questa malattia ha iniziato ad essere sempre più concettualizzata come una vera e propria “sindrome da disconnessione”.

La schizofrenia è una malattia psichiatrica tendenzialmente cronica o recidivante, caratterizzata dalla presenza di alterazioni della percezione, del contenuto e della forma dei pensieri, del comportamento e dell’affettività, che determinano una grave disfunzione a livello sociale, scolastico e lavorativo. 

A partire dalla fine degli anni ’90, diversi studi di neuroimmagine condotti su pazienti schizofrenici hanno evidenziato, in modo piuttosto consistente, la presenza di un diffuso pattern di disconnessione cerebrale, tanto che questa malattia ha iniziato ad essere sempre più concettualizzata come una vera e propria “sindrome da disconnessione”.

Questo filone di ricerca ha ricevuto grande impulso dallo sviluppo della Graph Theory (GT), un potente modello matematico che, applicato alle scansioni di risonanza magnetica, permette di esaminare nel dettaglio l’architettura e la funzionalità delle connessioni cerebrali, con la possibilità di rilevare anche minime alterazioni non identificabili dai tradizionali metodi di indagine.

Nei cervelli dei pazienti schizofrenici, nello specifico, ha permesso di rilevare una riduzione di densità, forza ed efficienza delle connessioni a livello del cosiddetto “rich club”, un network cerebrale composto da veri e propri hub di instradamento dell’informazione che normalmente consentono a regioni anche molto distanti tra loro di comunicare in modo veloce ed efficace. Poiché la maggior parte di questi studi è stata condotta su pazienti che hanno ricevuto diagnosi di schizofrenia anche da molti anni, non è chiaro se le alterazioni riscontrate possano rappresentare dei veri e propri correlati neurologici della malattia o siano, piuttosto, il risultato di possibili fattori confondenti (es. assunzione prolungata di antipsicotici e complicazioni).

Per superare questo limite metodologico, un gruppo internazionale di ricercatori, guidati da Mark Drakesmith e Derek K. Jones, dell’Università inglese di Cardiff, ha applicato la GT ad un gruppo di 123 individui con esperienze psicotiche (EP) non trattati farmacologicamente e privi di una diagnosi clinica di schizofrenia, sebbene ad alto rischio di svilupparla.

I risultati, pubblicati sulla rivista Human Brain Mapping, mostrano negli individui con EP delle alterazioni molto simili a quelle rilevate in pazienti con diagnosi formalizzata di schizofrenia, specie a livello degli hub cerebrali, con delle ripercussioni importanti attraverso l’intero cervello. Questa scoperta, oltre a supportare l’ipotesi disconnessionista della schizofrenia, suggerisce che la connettività strutturale cerebrale potrebbe essere utilizzata come “biomarker” per identificare le fasi precoci di psicosi e, potenzialmente, per individuare una predisposizione allo sviluppo della malattia, fondamentale per poter implementare prontamente degli interventi a carattere terapeutico.

[blockquote style=”1″]Il motivo per cui questa sorta di predisposizione alla schizofrenia esiti in taluni e non in altri nello sviluppo effettivo della malattia non è chiaro ma rappresenta la nostra prossima sfida[/blockquote], sostiene il Prof. Anthony David del Kings College di Londra, coautore dello studio.

 

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