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Si può parlare di guarigione dalla Schizofrenia? Dalla sessione plenaria del Convegno SOPSI

La schizofrenia richiede l'impiego di farmaci e una riabilitazione cognitiva e la famiglia dovrebbe essere coinvolta in tutto il processo decisionale.

Di Giuseppina Di Carlo

Pubblicato il 30 Mar. 2015

Dalla Sessione plenaria del Convegno SOPSI:

Meccanismi patogenetici della Psicosi: implicazioni per la Diagnosi e il Trattamento di J.A. Lieberman (Columbia University NYC, presidente APA)

L’intervento farmacologico da solo, quando è già in corso il deterioramento, è insufficiente e va affiancato a una riabilitazione cognitiva. E’ fondamentale anche coinvolgere il paziente e la sua famiglia in tutto il processo decisionale, sui farmaci, per l’occupazione/istruzione assistita, per aiutarlo nell’implementazione delle abilità sociali e cognitive e nelle pratiche di prevenzione del suicidio.

Storicamente, grazie a Kraepelin, la schizofrenia, in origine dementia praecox, è stata considerata una malattia che determinava un deterioramento intellettivo irreversibile nei giovani.

Prima dell’utilizzo degli antipsicotici il trattamento consisteva nella gestione dei sintomi, non della cura della malattia. Oggi la speranza è che i risultati nella ricerca portino a identificare le chiavi per una modificazione nella patologia. L’ipotesi su cui si muovono gli studi è che vi sia un pull genetico coinvolto nel malfunzionamento dei neurocircuiti in alcuni contesti ambientali. Sempre più si parla di vulnerabilità probabilistica, la schizofrenia come un fenotipo indotto dall’ambiente.

Il modello teorico più influente in questo campo è quello appunto del neurosviluppo. I fattori scatenanti intervengono prima della manifestazione sintomatica, ma il fenotipo non si esprime fino alla pubertà: la diagnosi non coincide con l’esordio della schizofrenia. Ad un intervento veloce, corrisponde una migliore prognosi. Gli studi condotti a partire dagli anni ’80-’90, hanno dimostrato che i pazienti trattati adeguatamente al primo episodio avevano buone possibilità di ripresa e nessuna recidiva al follow up. Al contrario se l’esordio non era trattato in maniera ottimale il decorso portava a una degenerazione e cronicizzazione della malattia. Parlare di cronicità della schizofrenia significa parlare di caratteristiche sintomatiche persistenti e limitazioni cognitive, il target del trattamento deve essere sul deterioramento.

Grazie al Brian Imaging nei soggetti schizofrenici si evidenzia una sottile e graduale perdita di materia grigia e bianca, l’ipotesi è che vi sia una riduzione dei dendriti associati con le cellule corticali, un’atrofia dovuta agli effetti tossici della disregolazione sinaptica. Se riuscissimo a identificare il decorso prima dei sintomi, si potrebbe prevenire l’esordio. Le ricerche hanno confermato che ad un trattamento farmacologico più lungo, si associa una minore riduzione dendritica. Sono stati testati i farmaci aloperidolo e clozapina (che ha dimostrato un’efficacia maggiore). I farmaci di seconda generazione potrebbero essere neuroprotettivi o essendo stati migliorati, indurrebbero un aumento della tolleranza al trattamento. I follow up hanno evidenziato anche un tasso di recidive più basso.

L’andamento della schizofrenia ha diverse fasi: in quella iniziale la malattia è silenziosa e rimane latente fino all’età prepubere, tra i 20 e i 30, che corrisponde alla fase di rischio dell’esordio, a partire dalla quale inizia il deterioramento nel paziente.

L’intervento farmacologico da solo, quando è già in corso il deterioramento, è insufficiente e va affiancato a una riabilitazione cognitiva. Attualmente a causa della questione metodologica, questa pratica non è ancora inserita come standard di cura. 

E’ fondamentale anche coinvolgere il paziente e la sua famiglia in tutto il processo decisionale, sui farmaci, per l’occupazione/istruzione assistita, per aiutarlo nell’implementazione delle abilità sociali e cognitive e nelle pratiche di prevenzione del suicidio. A ciascun paziente dovrebbe essere assegnato un team, con un coach e degli educatori, in un’ ottica di approccio individualizzata.

Da uno studio di follow up a due anni, su 67 pazienti al primo episodio, il 73% non andava incontro a recidive. I miglioramenti riguardavano tutte le aree di funzionamento e vi era una diminuzione del livello di deterioramento, mantenuta al follow up. La speranza attuale è che questo protocollo entri nelle linee guida, in modo da essere rimborsabile. La speranza per il futuro sarà quella di individuare i pazienti in fase premorbosa, come accaduto per le malattie cardiovascolari, dove si interviene prima della sintomatologia.

La ricerca si sta muovendo verso l’identificazione dei biomarkers ippocampali della schizofrenia, le variazioni dell’attività in quest’area e nelle regioni limitrofe correlano con l’intensità dei sintomi, in mancanza di trattamento. Si stanno identificando le basi sinaptiche del glutammato, che porta ad un ipofunzionamento del recettore MDA, che produce eccessi enzimatici e porta alla diminuzione delle cellule piramidali nell’interneurone. Trattare l’ipermetabolismo del glutammato cellulare, conclude il dr. Lieberman potrebbe anche impedire la patologia.

 

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