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Psicologo Penitenziario: Aspetti Etici e Conflitti Deontologici

Psicologo penitenziario: è sorta la necessità di una riflessione circa i principi etici e deontologici che guidano il lavoro dello psicologo

Di Redazione

Pubblicato il 04 Giu. 2013

 

di Monica Salvi, Psicologa

 

Psicologo Penitenziario- Aspetti Etici e Conflitti Deontologici. - Immagine: © jtanki - Fotolia.comLa riforma dell’Ordinamento Penitenziario, risalente al 1975, ha avviato lo sviluppo della Psicologia in ambito penitenziario e, parallelamente, è sorta la necessità di una riflessione circa i principi etici e deontologici, enunciati nel Codice Deontologico, che guidano il lavoro dello psicologo in ambito penitenziario.

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Le questioni etiche che interessano il lavoro dello psicologo penitenziario presentano alcuni elementi di criticità, che possono talvolta indurre in pratiche cliniche non sempre adeguate o in situazioni contraddittorie di difficile risoluzione.

Il carcere, il contesto nel quale lo psicologo penitenziario è chiamato a operare, presenta la particolarità di essere un’istituzione totale che di per sé genera situazioni di disagio e di disadattamento, può slatentizzare problematiche psicologiche e indurre vere e proprie “sindromi da prisonizzazione” (Clemmer, 1941).
La perdita delle relazioni affettive e l’isolamento dalla società, il possesso di un numero limitato di beni e l’esclusione della possibilità di usufruire di certi servizi, il sentimento diffuso di precarietà e insicurezza personale, la perdita dell’autonomia individuale e la deresponsabilizzazione, condizionano in modo significativo il detenuto, dal punto di vista psicologico e comportamentale e rendono l’intervento di sostegno più complesso da realizzare.

L’Intervento dello Psicologo Penitenziario. - Immagine: © fergregory - Fotolia.com
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Inoltre la fatiscenza degli spazi, le condizioni acustiche del contesto e la necessità di garantire la funzione di controllo da parte del personale di custodia sono elementi che spesso intralciano la creazione di un setting “esterno” ed “interno” che permetta l’intervento psicologico, mettendo lo psicologo penitenziario nella posizione paradossale di dover svolgere il suo mandato ma di non essere messo nelle condizioni di svolgerlo dall’istituzione stessa.

Per quanto riguarda il già delicato rapporto tra committente e fruitore dell’intervento, nel caso dello psicologo che opera in ambito penitenziario, tale non corrispondenza è pressoché una costante e costituisce il problema del “doppio mandato”.
Il committente in questo caso è l’Istituzione, che primariamente segue un mandato che riguarda l’ordine e la sicurezza e la cui richiesta sembra essere finalizzata prevalentemente al contenimento delle situazioni critiche, in primis l’elevato rischio suicidario, più che orientata ad un progetto riabilitativo del detenuto.

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Il fruitore dell’intervento spesso non avanza una richiesta di sostegno e di aiuto ma si rappresenta l’intervento e la relazione con lo psicologo come un tramite per poter, ad esempio, ottenere l’idoneità a fruire di benefici previsti dalla legge (misure alternative, permessi premio, ecc).
L’impossibilità inoltre di scegliere il professionista a cui rivolgersi incide sfavorevolmente sulla motivazione e sulla creazione dell’alleanza: il detenuto può manifestare rilevanti meccanismi di difesa che rendono difficile una relazione autentica, può tendere a simulare aspetti patologici, può mettere in atto strategie di manipolazione e strumentalizzazione per ottenere vantaggi.

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Tale “conflitto di interessi” costituisce un aspetto caratterizzante il contesto in cui opera lo psicologo penitenziario e necessita di una riflessione continua circa la propria prassi clinica, al fine di non generare ulteriore sofferenza in soggetti già sofferenti per la condizione di restrizione in cui si trovano.

 Per ciò che riguarda la riservatezza e il segreto professionale lo psicologo penitenziario è chiamato a valutare le diverse situazioni e a comunicare al detenuto come i confini della riservatezza possono variare. Lo psicologo penitenziario è tenuto al segreto professionale, soprattutto se le informazioni raccolte possono causare  un danno al detenuto se non adeguatamente protette, ma è altrettanto tenuto a chiarire al detenuto le limitazioni del segreto professionale, soprattutto in situazioni specifiche (ideazioni e/o agiti autolesionisti, ideazione anticonservativa, rischio di agiti violenti eterodiretti, ecc.).

Lo psicologo penitenziario sempre più spesso è chiamato a intervenire con detenuti di provenienza geografica e linguistica straniera e appartenenti a culture molto diverse. Per comprendere queste persone è necessario acquisire conoscenze specifiche relative ai differenti sistemi culturali, ai loro valori e alle loro modalità di attribuzione di significato agli eventi, nonché individuare i possibili pregiudizi all’interno della cultura locale del carcere.

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Infine lo psicologo penitenziario si confronta con una diversità di reati che possono scatenare reazioni emotive negative, giudizio e disapprovazione morale che, se non riconosciuti ed adeguatamente elaborati, possono avere un impatto negativo nell’intervento e nella relazione con il detenuto.

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Felice Tagliente (2002) propone alcune linee guida deontologiche che possono risultare utili per operare con maggiore serenità: comunicare nella fase iniziale del rapporto con il detenuto le finalità, le modalità delle prestazioni che si può offrirgli e i limiti della riservatezza, essere imparziale con i detenuti italiani e stranieri, astenersi dall’imporre al detenuto il proprio sistema di valori, dire la verità al detenuto e non illuderlo, comunicare notizie gravi con gradualità e con aderenza alla realtà per tutelare psicologicamente il detenuto, riconoscere i limiti della propria competenza, salvaguardare l’autonomia professionale, comunicare alle varie figure professionali solo le informazioni pertinenti al raggiungimento degli obiettivi trattamentali concordati.

Da queste brevi riflessioni emerge la complessità e spesso le contraddizioni del lavoro dello psicologo in ambito penitenziario, ambito in cui le diverse e delicate situazioni vanno opportunamente  indagate “caso per caso” mediante il confronto continuo con le varie figure professionali (medico, psichiatra, educatore, volontario, polizia penitenziaria, ecc) pur mantenendo la propria autonomia scientifica e professionale.

Operare in questo ambito, con un alto livello di responsabilità e con i vissuti tipici del contesto, richiede una formazione di base specifica, un aggiornamento continuo e la possibilità di usufruire di una supervisione costante per garantire nel tempo interventi adeguatamente efficaci.

 

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BIBLIOGRAFIA

  • Clemmer D. (1941) La comunità carceraria, in Santoro E., 2004, Carcere e società liberale, Torino, Giappichelli
  • Tagliente F. Alcuni criteri deontologici dello psicologo penitenziario in Calvi E. (2004) Lo psicologo al lavoro, Milano, Franco Angeli
  • Gruppo di Lavoro Consiglio Nazionale Ordine Psicologi e SIPP (Società Italiana Psicologia Penitenziaria),  (2005) Elementi Etici e Deontologici per lo Psicologo Penitenziario, Roma
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