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Il Perfezionismo e la Vergogna nella Società Post-Moderna

PERFEZIONISMO: In questa temporalità può crescere un uomo iperefficiente e centrato sull’apparire invece che sull’essere e sentire emotivamente.

Di Alessia Zoppi

Pubblicato il 08 Mag. 2013

Aggiornato il 11 Mar. 2015 09:33

 

Il Perfezionismo e la Vergogna nella Società Post-Moderna. - Immagine:© olly - Fotolia.comIn questa dimensione della temporalità può crescere un uomo iperefficiente, autoreferenziale, forte, indipendente, pratico, centrato sul presente, sul fare tutto subito e sull’apparire invece che sull’essere e sentire emotivamente.

Questo uomo rischia di perdere la capacità di attendere, di godere del cambiamento e dell’inaspettato, di procrastinare il desiderio.

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Identità individuale e ambiente sono in relazione diretta, essendo il soggetto un sistema aperto auto ed etero-organizzato. Dove cercare i legami di questa diretta relazione? Nelle storie soggettive ma oggi, più che in passato, anche nelle pagine di giornali, nei programmi televisivi, nei talk-show, nei social network. Questi sono spazi e contenitori dell’Io in cui si accresce l’identità e si disegnano scenari relazionali complessi.

I nuovi contenitori dell’Io della post-modernità sono plastici e malleabili, sempre pronti a metamorfosi e inconsistenti definizioni di sé e dell’altro. Sono specchi di se stessi, da cui tanto più ci cerchiamo di allontanare, tanto più veniamo catturati, come immobilizzati dall’allettante conferma di un nuovi possibili Sé.

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In questi spazi è concesso di citare emozioni solo apparentemente esperite o vissute senza una reale elaborazione delle stesse:  colpa, rabbia, vergogna,  paura,  gioia vengono annebbiate, talvolta esibite, estremizzate fino a diventare desiderabili, mitizzate, o vissute in solitudine più che in una relazione reale con l’altro.

La narrativa e l’emotività vengono sostituite da slogan e immagini, che tendono a immobilizzare il soggetto nell’apparenza offerta, talvolta volutamente manipolata per mostrare di sé qualcosa che l’altro possa cogliere, spesso nell’ottica di un’immagine ideale e perfetta.

In questi comportamenti appaiono potenti meccanismi di stallo e rigidità: se da una parte c’è il desiderio di raccontarsi, d’altro canto risulta difficile, nel tempo, abbandonare i comportamenti che invece di favorire l’espressione reale di sé,  allontanano il soggetto dalle relazioni vissute sulla pelle e con emotività e sensazioni. Questi spazi sono potenti contenitori di proiezione e idealizzazione, in cui l’Io si declina e cerca di muoversi in un eterno presente.

Sembra che la perfezione possa oggi essere cercata attraverso meccanismi e spazi in cui risulta potente il peso del giudizio (meglio se esterno che interno), della vergogna più che la colpa, del timore dell’umiliazione più che del danno.

Proprio la vergogna avrebbe lo scopo di proteggere il soggetto dallo sviluppo di un’identità grandiosa oltre che avere una funzione di auto-miglioramento e di protezione del sé (vergogna-pudore).

Ma dove è finito tutto questo? Sembra infatti che nel post-moderno neanche la vergogna abbia più lo stesso potere funzionale e che l’individuo tenda a ricercare una fuga dall’espressione di questa stessa. Che cosa accade in una società in cui neanche la vergogna ha più la stessa funzione e in cui spesso essa viene celata o negata? Viviamo forse in una società “s-vergognata”?

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Nancy McWilliams affronta il problema dell’educazione dell’Io nella società moderna e le ricadute sullo sviluppo dei disturbi della personalità e delle psicopatologie caratterizzati da quadri di perfezionismo: “nelle famiglie vecchio stampo che generavano figli ossessivo-compulsivi il controllo si esprimeva in termini moralistici e colpevolizzanti…veniva così offerto attivamente un modello di moralizzazione. (…) l’autocontrollo e il differimento della gratificazione venivano idealizzati mentre (…) molte famiglie che oggi sono organizzate sul controllo favoriscono i modelli ossessivi attraverso il sentimento di vergogna e non inducendo sensi di colpa” (p. 312-313).

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Secondo McWilliams sono queste le emozioni e le dinamiche che sovente si celano sotto patologie come DCA, tossicodipendenze, nuove sindromi di dipendenza, in cui l’emozione schiacciante è la vergogna coperta da identità grandiose di tipo perfezionistico e narcisista.

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Queste sono anche dette “sindromi da vergogna”  (Kaufman, 1989). Kimura Bin (1992) le definisce “patologie dell’immediatezza”. Stanghellini (2009, p.311-314) parla di “personalità liquida” rispetto ad alcune patologie, tra cui i DCA. Questi sono disturbi della coscienza di sé che rispondono ad una condizione esistenziale post-moderna in cui l’Io è “privo di organizzazione narrativa”; i vissuti “galleggiano nel mare della coscienza” senza organizzarsi attorno ad un Io-narrativo coerente.

Cosa ci dicono queste patologie rispetto alla cultura post-moderna e allo sviluppo dell’identità?

Società post-moderna e Crisi dell’identità

Bauman, con il concetto di “mondo liquido” e “identità liquida” espressi in varie opere tra cui Vita Liquida (2006), spiega come la Vita Liquida” sia una vita che corre più del tempo, in cui sono persi i valori costituzionali che salvaguardano la relazionalità, l’identità, l’esperire emotivamente. È una vita che si spreme in una società del consumo e dell’incertezza, appunto “liquida” (Bauman, 2003).

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Vita liquida non solo per lo strutturarsi e muoversi attraverso logiche di instabilità e scambio anche nelle relazioni umane (“cosa mi dai tu in cambio di ciò che ti do io?”), ma anche per il veloce bruciarsi degli equilibri, degli obiettivi, della coerenza personale che dovrebbero rafforzarsi nelle esperienze quotidiane. Una società che è contenitore liquido ospita un Io altrettanto liquido, privo di salde colonne interne e flessibile alla malleabilità degli eventi.

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E come rispondere a questo incalzare in cui il soggetto passa velocemente da attivo a passivo, da controllante a controllato, da agente a spettatore? In molti modi, in primo luogo con un controllo perfezionistico, con un continuo mettersi avanti agli eventi stessi, anticipando in modo competitivo e maniacale l’agito dell’altro, cercando di eludere l’instabilità che ci circonda, ovvero rafforzandosi in senso grandioso, fino, talvolta, a strutturarsi in senso patologico. Stanghellini (2011) parla di nuovi modelli di costituzione dell’identità: “Questa nuova forma di identità segna il passaggio dall’ identità sostanziale (io sono x) e progettuale (io sarò x), all’identità flessibile (io faccio x).”.

La soluzione del soggetto in questa società può anche essere quella di scegliere contenitori che possano dare sollievo al senso di smarrimento, in cui lo sguardo dell’altro, anche di sfuggita, possa compensare il bisogno di riconoscimento, di conferma, di rimando. Ne sono esempio i social network. Queste modalità comportamentali potrebbero consentire di esorcizzare il timore di essere s-vergognati da chi ci circonda, o di cedere a paura e sensazioni di inadeguatezza.

Il consumo, in ultimo, caratteristica anch’essa di questa post-modernità, diviene consumo di oggetto sintetico e meccanico, lenitivo contro la sensazione di “non poter godere appieno e immediatamente”.

Mai come ora l’oggetto è simbolo concreto di qualcosa che si è rotto all’interno del soggetto, nelle faglie di un’identità fragile e perennemente a rischio di frammentazione. E l’oggetto, non solo tossico e patologico ma anche consumistico (telefonini, pc, televisori, etc.), risponde oltre che alla logica della velocità a quella dell’ “instantaneità” che caratterizza la società contemporanea (Muscelli, Stanghellini, 2012), consumandosi in un “eterno presente.

Anche sul piano relazionale la dipendenza dall’altro può essere così sostituita dalla dipendenza da un oggetto che possa favorire un veloce adattamento alle richieste della società.

In questa dimensione della temporalità può crescere un uomo iperefficiente, autoreferenziale, forte, indipendente, pratico, centrato sul presente, sul fare tutto subito e sull’apparire invece che sull’essere e sentire emotivamente. Questo uomo rischia di perdere la capacità di attendere, di godere del cambiamento e dell’inaspettato, di procrastinare il desiderio.

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E tutti coloro che non riescono ad adeguarsi alla società e ai suoi meccanismi? Che non riescono a lenire la frustrazione e la vergogna con gli strumenti del mondo liquido e da questo stesso si sentono schiacciati? Questi rischiano di sentirsi outsiders perennemente in bilico, a contatto con sentimenti di profonda inadeguatezza e perdita di speranza, come raccontato dalla cronaca nera degli ultimi mesi e dalla crescente tendenza al suicidio in risposta a frustrazioni di vita.

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Kaës parla della nostra cultura come “cultura del pericolo, ma anche della prodezza” in cui “Superarsi, darsi un gran da fare (nel lavoro, nell’aver successo o nella droga, ma anche nelle formazioni del narcisismo di morte) sono un valore negativo la cui base comune è l’eroicizzazione della morte” (Kaës, 2005).

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Stanghellini (2011) ci dice “In questa forma depressiva, dunque, si manifesta una diversa identificazione traumatica: l’identificazione può essere con la vittima: l’Altro è il colpevole. L’ago della colpa punta verso l’esterno. Non c’è assunzione di colpa. Piuttosto, prevalgono emozioni quali la rabbia e la vergogna, che sfociano, appunto, in un vissuto persecutorio. In alternativa, ci si sente come qualcuno che assiste impotente agli eventi, alla loro ineluttabile insensatezza. Ci si identifica con il ruolo dello spettatore il quale, disperatamente o cinicamente, osserva il caos del mondo. (…) Non c’è spazio per la speranza, o per la redenzione, o per il pentimento – che potrebbero orientare l’esistenza verso il futuro.”.

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In questo processo di  “eroicizzazione della morte” e di perdita “dell’esistenza verso il futuro” è possibile pensare si celi da una parte una potente difficoltà dell’uomo moderno a gestire la frustrazione e la vergogna, dall’altra la tensione verso un perfezionismo irraggiungibile e per questo doloroso a priori.

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SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA –  PERFEZIONISMO – CONTROLLO

 

 

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