Alcune osservazioni in aggiunta a quelle della mia amica Brunella Coratti, già uscite su State of Mind.
Si il libro è bello, e due sono i motivi che me lo fanno amare, innanzitutto il viaggio nel disturbo bipolare, di uno dei tre protagonisti (Leonard). Per un terapista entrare nella sua mente è veramente molto interessante, sia quando non è consapevole della sua malattia e agisce rabbia o distanza dagli altri, sia quando entra nell’illusione onnipotente di controllare il farmaco e l’umore.
Si, non credere a pensieri ed emozioni che ci abitano nella mente è veramente difficile, distanziarsi da cose che viviamo come nostre è la grande scommessa della psicoterapia con i pazienti difficili. Siamo abituati a credere a ciò che pensiamo e proviamo come l’espressione autentica di noi stessi e occorre una grande disciplina interiore per fidarsi di chi ci dice che queste emozioni, questi pensieri sono il sintomo di un malessere e non l’unico modo privilegiato di leggere il mondo. Ma anche quando abbiamo capito, riuscire a criticare questi stati, a distanziarsi o vivere come se fossero non nostri, è una grande e difficile battaglia.
Il disturbo bipolare disgrega l’esistenza di Leonard, e il rapporto con Madeleine. Jeffrey Eugenides è benevolo però e ci promette che con il tempo e dopo molte distruzioni Leonard troverà un suo modo di convivere con la malattia.
Ma un’altra parte del libro è importante secondo me. Mitchell l’altro protagonista maschio del libro, intelligente, ostinatamente innamorato di Madeleine con il sapore perenne della sconfitta in bocca, attraversa una crisi spirituale che gli fa desiderare di divenire religioso, di avvicinarsi alla religione. Finisce in India nell’ospedale di Madre Teresa di Calcutta e ci rimane per qualche tempo tentando di fare i conti con il dolore dei malati e dei morenti. Con grande fatica e molto molto disgusto.
La domanda di religione e di spiritualità di Mitchell è tipicamente postmoderna, non nasce da un desiderio di spiegazione del mondo, del destino dell’uomo. Non nasce in un mondo oscuro e incomprensibile da un desiderio di ordine e organizzazione. Non ha lo scopo di spiegarsi l’aldilà, il dopovita, il senso stesso dell’esistenza. La sparizione degli affetti e la morte delle persone care.
No, la sua domanda di religione è molto simile a una domanda di psicoterapia, intima, solitaria, ansiolitica, antidepressiva.
E’ una domanda di Dio senza veramente bisogno di Dio.
Nasce da un’ infelicità esistenziale, emotiva, dall’amore infelice verso una donna, e non sembra spirituale ma psicologico. Ecco mi ha colpito questo Dio moderno che non spiega più il mondo ma serve a spiegare soprattutto la sofferenza psicologica umana. Un Dio intimista e psicoterapeuta più che un Dio di giustizia o di provvidenza.
Di Madeleine, la protagonista sana, sappiamo già tutto al’inizio, la sua sofferenza è sofferenza del crescere, e, al contrario della figlia giainista dello Svedese di Philip Roth, sappiamo che alla fine, dopo tanta confusione e sofferenza, si salverà. E qui Eugenides è meno grande che nella descrizione dei maschi del libro. Le donne le comprende di meno, e forse gli interessano di meno dei protagonisti maschi. E si vede.
BIBLIOGRAFIA:
- Roth Philip. (2005). Pastorale americana, Ed. Einaudi
- Jeffrey Eugenides. (2011). La trama del matrimonio. Ed. Mondadori