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EABCT 2011: Sulla ruminazione e oltre

Di Gabriele Caselli

Pubblicato il 08 Set. 2011

Aggiornato il 22 Mag. 2012 17:38

ruminazione

Al congresso EABCT non potevo certo mancare a un simposio sulla ruminazione depressiva. Tra quelli a disposizione scelgo le presentazioni curate da Nick Moberly e colleghi, affiliati all’Università di Exeter e vicini ai lavori teorici e clinici di Ed Watkins e della Rumination-Focused Cognitive Behavioral Therapy. Nutrivo la convinzione di poter trovare quel raro connubio tra ricerca scientifica e pratica clinica. Non mi sono sbagliato. La domanda del simposio era: cosa spinge i pazienti depressi a ruminare in modo così costante e prolungato?  Perché è così difficile smettere? Le risposte certamente stimolanti.

Ricordo a mo’ di premessa che altri studiosi di ruminazione depressiva (Adrian Wells e Costas Papageorgiou) hanno suggerito come il motore del pensiero analitico, ricorrente e negativo abbia sede in alcune regole o convinzioni, più o meno esplicite, ormai radicate nella mente delle persone. Alcune di queste convinzioni sottolineano l’ipotetica utilità del ragionamento astratto: analizzare il mio malessere mi aiuta a capirne le cause, solo se mi analizzo posso uscire da questa condizione, se comprendo il perché le cose succedono posso essere una persona migliore. Altre convinzioni invece sono di tipo negativo: non riesco a smettere di pensarci e di analizzarmi, tutto questo pensare prima o poi appesantirà gli altri e li allontanerà. Regole e credenze malsane sulla ruminazione sarebbero quindi il bersaglio principale delle frecce tecniche del terapeuta.

Dall’altra sponda del fiume cognitivo, Martin e Tesser (1996) pensano che la ruminazione depressiva si attiverebbe qualora scopi e obiettivi personali siano frustrati. Seguendo questa linea teorica, Moberly e collaboratori, descrivono la ruminazione come diretta conseguenza (naturalmente controproducente) di un eccessivo attaccamento ai propri scopi, sia legati al momento presente, che di tipo esistenziale. Sappiamo che la tristezza serve all’uomo per riorganizzare i propri scopi e le proprie scelte a fronte di una perdita o di un fallimento. Ma cosa succede se la persona non è disposta a cambiare i propri scopi? Resta attaccata a ciò che ha perso (es: una persona cara, ma anche un lavoro) o all’ideale che vorrebbe raggiungere (es: diventare una rockstar ricca e famosa).

La tristezza e la depressione sono così il limite della perseveranza, cioè il confine oltre il quale ‘perseverare’ assume una valenza negativa e deleteria per il benessere emotivo. Invece alcune persone non riconoscono il valore e il ruolo della tristezza e non accettano di lasciare andare qualcosa a cui s’erano profondamente legati, fosse anche un desiderio. A loro non resterebbe che perdersi nei meandri della ruminazione.  In fondo l’ambizione che paga diventa nota agli occhi dei più, ma quanto è estesa per esempio l’ambizione che non paga? La ruminazione è un rifugio d’emergenza, ci illude di fare qualcosa mentre stiamo solo pensando. Ci fa sentire ancora attaccati a uno scopo che in realtà non è raggiunto. Ci porta sollievo dal dolore che comporta rinunciarvi completamente.  In sintesi, quando la tristezza è intensa e lo scopo irrecuperabile o lo abbandoni o ti ci attacchi con il pensiero, poiché non esistono altre azioni concrete da svolgere.

La linea terapeutica diventa quindi quella di salire oltre il gradino dei processi immediati, il qui e ora, il nucleare. Occorre salire e toccare tasti esistenziali, connessi al progetto di vita, tasti che possono ostacolare l’abbandono della ruminazione. Occorre toccare  gli obiettivi che il paziente non vuole abbandonare, mostrargli ciò che sta evitando. Mi allargo ancora. Occorre toccare il significato dell’abbandono di questi obiettivi. Poiché l’attaccamento a essi, attraverso la ruminazione, impedisce in qualche modo di accettare il dolore di una perdita o di un fallimento, su scala anche esistenziale. In fondo ritornano due temi centrali delle recenti riflessioni di Sandra Sassaroli e Giovanni M. Ruggiero, che spero di interpretare correttamente. La prima: io posso ruminare su temi astratti ora per non toccare il concreto fallimento (o abbandono) di scopi esistenziali e di componenti importanti del mio progetto di vita. La seconda:se imparo a regolare la ruminazione e a ridurla, allora passo attraverso un contatto di maggiore sofferenza emotiva, la cura cioè passa anche attraverso fasi di peggioramento dello stato d’umore.

Forse anche nel mondo della ricerca si sta iniziando a costruire un ponte empirico tra il funzionamento specifico del momento presente e la traiettoria cognitiva esistenziale.

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Gabriele Caselli
Gabriele Caselli

Direttore scientifico Gruppo Studi Cognitivi, Professore di Psicologia Clinica presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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