Qualche settimana fa ho letto una notizia. Un ragazzo di 16 anni si butta da un ponte sulla Dora, un volo di 50 metri e muore. La sua ragazza lo aveva lasciato. La giornalista ci spiega che non ce l’ha fatta a superare il dolore, che era triste, che non sorrideva più. Storia dolorosa, che ci colpisce tutti. Che ci fa riflettere, a noi psicoterapisti. Ci vengono in mente due cose. La prima, dura, sulla depressione. Forse il ragazzino era vulnerabile geneticamente alla tristezza e alla depressione e al primo grande stress, non ce l’ha fatta. Non si poteva fare nulla, un esordio depressivo, difficile da riconoscere in anticipo. Ma questa riflessione ci lascia freddi, è troppo fatalista e troppo descrittiva. Non ci dice nulla.
Ci vengono in mente altri pensieri. In fondo la parte sostanziale del nostro lavoro quotidiano sta proprio nella tristezza e nell’ansia e nell’insegnare ai nostri pazienti che non dobbiamo fuggire dalle emozioni troppo dolorose ma fidarci che esse sono adatte a noi e che da sempre siamo fatti per caderci dentro per poi uscirne.
Mi viene in mente un articolo che ho letto ieri sulla New York Review of Books. Amy Chua:Battle Hymn of the Tiger Mother. Un libro scritto da una madre cinese dura e perfezionista sul metodo educativo che ha usato per le sue figlie. La Chua trova che l’educazione occidentale moderna indebolisca i figli con una esagerata attenzione alla loro felicità, mentre sostiene che in Cina i figli vengono educati alla durezza della vita e alla preparazione ad ottenere il massimo delle loro potenzialità. Non tenendo in alcun conto le loro emozioni di pigrizia, stanchezza e desiderio di fare altro.
Questo mi ha fatto pensare al nostro atteggiamento in Europa con i figli. Li proteggiamo troppo dal dolore? Li sogniamo felici e soddisfatti? Ci dimentichiamo di insegnargli per troppa protezione e amore, che l’accettazione del dolore è il punto cruciale che ci rende atti alla vita? Le emozioni di dolore non sono mai troppe, non dobbiamo mai pensare che siano troppo per noi, sono ineluttabili e sta a noi scegliere di attraversarle.
Chiudo con George Steiner, e con il suo libro sulla morte della tragedia. Steiner sostiene che la nostra società ha inventato il lieto fine e che poche società nel passato sono state capaci di fronteggiare in modo duro e netto il tema della tragedia dell’essere vivi. Impariamo noi stessi e insegniamo ai nostri pazienti a fronteggiare le tragedia sapendo che sono costruite per noi. E che noi siamo fatti per caderci dentro, sopravvivere, e guardare avanti.