Tra i vari workshop precongressuali della giornata odierna, ho scelto di partecipare a quello presentato da Paul Gilbert sulla sua Compassion Focused Therapy. Ci sono diverse ragioni per cui la mia scelta è caduta su questa opportunità formativa. Prima di tutto non avevo mai assistito a un suo workshop, solo a diverse lezioni magistrali (keynotes) che mi avevano incuriosito ma che non avevano certo completato in modo esaustivo la descrizione dei presupposti teorici e tecnici di questo approccio. Secondariamente, l’intervento si occupa principalmente di depressione, argomento a me caro, e di autocriticismo, uno dei temi ai quali il gruppo ricerca cui appartengo sta recentemente dedicando attenzione. Infine avevo la necessità di comprendere quanto ci fosse di realmente nuovo in una forma di terapia che pare concentrarsi su un unico tema peraltro affrontato secondo una prospettiva molto mindfulness based, cioè basata su un uso massiccio di tecniche meditative.
Ho iniziato il workshop con molte curiosità e qualche dubbio. Devo dire che al termine mi ritrovo con qualche strumento utile per la mia valigia da professionista della salute mentale, ma con parecchi dubbi. Da un punto di vista puramente teorico le riflessioni portate avanti da Gilbert sono certamente complete e interessanti. Mostra una riscoperta del ruolo dei bisogni e delle motivazioni biologicamente determinate con forte connessioni con la neuroanatomia e il processo evolutivo cerebrale. Il terreno teorico è quello della biologia e delle teorie dell’attaccamento, la prospettiva è evoluzionistica, in realtà un punto di vista per molti aspetti già sviluppato da teorici italiani negli ultimi trent’anni, Gianni Liotti su tutti. Gli aspetti più interessanti nascono da riflessioni specifiche più che generali, cioè dall’esplorazione originale, questo è il contributo principale di Gilbert e dei suoi collaboratori, sul ruolo dell’autocriticismo e sulle credenze ad esso associate. Ad esempio gli individui sembrano faticare ad abbandonare una prospettiva autocritica e autopunitiva perché temono di non poter apprendere a correggersi, migliorarsi ed essere accettate dagli altri. La compassione è presentata come una prospettiva con cui accogliere gli eventi della vita, ma soprattutto quelli del mondo interno come pensieri, fantasie, impulsi in modo non autocritico ma benevolente. Il nucleo da raggiungere è il riconoscimento che ciò che passa nella nostra mente e nel nostro corpo non è figlio della nostra volontà, né un nostro errore ma qualcosa che ci capita sulla base del nostro corredo genetico e della nostra storia. Qualcosa di cui non abbiamo responsabilità ma con cui dobbiamo avere a che fare, come fosse una qualsiasi allergia, malformazione o debolezza fisica. L’obiettivo è deresponsabilizzare l’individuo da come si esprime la sua mente o il suo corpo, il suo pensiero associativo così come le sensibilità e l’intensità delle reazioni emotive. Tutto mira, sin dai suoi principi teorici a demolire la tendenza ad attaccare, biasimare, criticare o considerare vergognosi sé stessi.
Dal mio punti di vista le questioni delicate sono due. Innanzitutto questo tipo di riflessione clinica è funzionale e adatta laddove l’autocriticismo è il problema nucleare e ritengo possa dare buoni frutti terapeutici. Attenzione però a non ridurre l’ampio e complesso mondo della psicopatologia a un’equazione che può essere risolta nel semplice volersi bene. Secondariamente la parte tecnica effettivamente è tutta focalizzata su esercizi di mindfulness, non che siano inadeguati per lo scopo proposto ma vien da chiedersi se non bastava delineare una linea guida per trattare l’eccessiva autocritica piuttosto che costituire una forma di terapia generalizzata.
Certo, al di là di questi dubbi, le linee guida e il pacchetto di tecniche offerto dalla CFT rappresentano un modulo facilmente integrabile in qualsiasi percorso terapeutico e all’avanguardia per quanto riguarda la comprensione e il trattamento dell’eccessiva tendenza all’autocritica e degli stati di malessere emotivo ad essa connessi.