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Jackson Pollock, il genio del dripping: tra eccessi e psicoanalisi

Le opere di Pollock sono lo specchio della sua vita tormentata, lo stesso affermò che pittura è una scoperta del sé e ogni buon artista dipinge ciò che è

Di Ursula Valmori

Pubblicato il 09 Set. 2016

Jackson Pollock, che è stato uno dei maggiori esponenti della cosiddetta action painting (pittura d’azione), era solito lanciare i colori sulle tele, dipingeva, cioè, facendo colare dall’alto vernici e colori su superfici pittoriche di grandi dimensioni attraverso la tecnica del dripping. Artista geniale ed irrequieto.

 

In ambito artistico, con il termine dripping (che deriva dal verbo inglese to drip, cioè colare, sgocciolare) si indica una tecnica pittorica che consiste nel versare o gocciolare i colori direttamente dal tubo o dal barattolo su una tela disposta per terra.  Il primo ad aver sperimentato il dripping fu l’artista belga Max Ernst (1891-1976) anche se fu l’americano Jackson Pollock (1912-1956) a mettere a punto questa tecnica.

Jackson Pollock, che è stato uno dei maggiori esponenti della cosiddetta action painting (pittura d’azione), era solito lanciare i colori sulle tele, dipingeva, cioè, facendo colare dall’alto vernici e colori su superfici pittoriche di grandi dimensioni attraverso la tecnica del dripping. Artista geniale ed irrequieto, Pollock non riusciva a stare fermo davanti al cavalletto e con la tavolozza in mano:

Sul pavimento sono a mio agio – affermò l’artista americano mentre lavorava a ‘One: Number 21’ – così mi sento più vicino al dipinto, lo posso attraversare, mi ci posso avvicinare da tutti i lati ed entrarci dentro, letteralmente.

Pollock eseguiva la colatura del colore con gesti coreografici, a tratti violenti che gli valsero l’appellativo di Jack the Dripper, con chiaro riferimento al ben più violento Jack the Ripper (lo squartatore). I lavori di Pollock sono tracce istantanee delle azioni e dei movimenti che l’artista compiva mentre creava, della sua interiorità, della sua personalità tormentata.

La sua vita fu breve e segnata da eventi drammatici: partiamo dalla fine: era l’11 agosto 1956 quando Jackson Pollock moriva in un incidente stradale, ubriaco al volante della sua auto, in compagnia di due donne. Basta partire dalla fine per capire che l’artista americano aveva vissuto all’insegna di eccessi e sregolatezza, tra problemi psichici ed alcolismo. Aveva un carattere difficile, eredità di un’infanzia complessa: suo padre non aveva un impiego fisso e si spostava continuamente, così Jackson ed i suoi quattro fratelli crebbero sotto la guida della madre, una donna oppressiva ed estremamente protettiva nei confronti dei figli, in particolar modo nei confronti di Jackson, che era il più piccolo. Trascorse un’adolescenza difficile, caratterizzata da violenti attacchi di collera, a causa dei quali venne espulso varie volte da scuola.

Nel 1929 si trasferì a New York con il fratello Charles, dove entrambi diventarono allievi del pittore Thomas Hart Benton (1889-1975). Benton beveva molto e Pollock lo imitò: di lì a poco, per gravi problemi di alcolismo, l’artista si sottopose a diverse sedute psicoanalitiche, venendo così a conoscenza delle dimensioni dell’inconscio che determineranno la sua svolta decisiva verso l’arte informale. La terapia psicoanalitica non riuscì a curarlo dall’alcolismo, ma lo convinse ad esprimere le sue angosce e le sue paure inconsce con una lunga serie di disegni surrealisti. La psicoanalisi avvicinò Pollock alle teorie junghiane e durante il processo terapeutico l’artista arrivò all’elaborazione di un simbolismo inconscio mediato attraverso l’influenza stilistica di Picasso (1881-1973) e di Mirò (1893-1983).

Nel 1943 Pollock conobbe Peggy Guggenheim, erede di una delle famiglie più facoltose degli Stati Uniti e nota collezionista d’arte, che l’anno successivo finanziò la sua prima personale (a cui buona parte della critica reagì positivamente) e gli aprì le porte della celebrità.

Nel 1945 Jackson sposò la pittrice Lee Krasner (1908-1984) e con lei si trasferì a vivere in una fattoria nella campagna di Long Island: il sodalizio tra i due giocherà un ruolo importantissimo nel percorso artistico ed umano di Pollock; quelli passati accanto alla moglie, infatti, furono anni di grande creatività del pittore americano. Fu la Krasner a guidare Pollock sulla strada del successo e fu lei ad aiutarlo ad uscire, almeno per un periodo, dall’abisso dell’alcolismo e della depressione. Purtroppo la sua dedizione all’alcool, seppure con periodi di salutare astensione, non venne mai meno, così come non venne mai meno lo stato d’animo della depressione che lo perseguitò per tutta la vita.

Le sue opere sono lo specchio della sua vita tormentata ed infatti emanano un’energia selvaggia ed una carica drammatica ed angosciosa, in questo senso risultano essere interessanti anche da un punto di vista dell’indagine psichica. E a proposito dell’indagine psichica che i suoi quadri rappresentano, Pollock affermò:

Tutti noi siamo influenzati da Freud, mi pare. Io sono stato a lungo junghiano…La pittura è uno stato dell’essere…La pittura è una scoperta del sé. Ogni buon artista dipinge ciò che è.

In vita, la sua sofferenza psicologica non gli regalò né serenità, né appagamento: come è capitato anche ad altri artisti, gli omaggi a Jackson Pollock sono arrivati dopo la sua morte, in particolare durante quell’asta del 2006, quando il pittore statunitense strappò il primato (che oggi spetta a Paul Gauguin) di quadro più caro del mondo a Gustav Klimt. Fu un Pollock da record: il ‘N.5, 1948’ fu venduto da Sotheby’s New York per 140 milioni di dollari (109 milioni di euro), all’epoca la cifra più alta mai pagata per un dipinto.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Pontiggia E., a cura di (1991). Lettere, riflessioni, testimonianze di Jackson Pollock. La Feltrinelli, edizioni SE. Milano.
  • Cuddè A.L. (2013). Paul Jackson Pollock. Un desiderio che si chiama tela. La Feltrinelli. Milano.
  • Harrison H. (2014). Jackson Pollock. Phaidon Press. Londra.
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