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Attaccamento e Trauma: II giornata – Report dal congresso

La seconda giornata del congresso entra nel merito di come intervenire sulle dinamiche intrapersonali ed interpersonali della persona traumatizzata.

Di Annalisa Bertuzzi, Cristiana Chiej

Pubblicato il 25 Set. 2014

 
Report dal Congresso

Attaccamento e Trauma

Roma, 19-21 Settembre 2014

II Giornata – A. Shore, D. Siegel, G. Liotti, Tavola rotonda (Onofri, Siegel, Shore, Liotti, Ogden)

 

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Dopo una prima giornata finalizzata a circoscrivere gli oggetti di studio in esame, l’attaccamento ed il trauma, il secondo giorno di lavori comincia ad entrare nel merito di come andare ad intervenire sulle dinamiche intrapersonali ed interpersonali della persona traumatizzata.

L’intervento di apertura è affidato ad Allan Shore, il quale, avvalendosi di un’ampia gamma di studi al riguardo, si focalizza sul concetto di enactment (messa in atto); la ragione di tale scelta risiede nel fatto che, dato che il trauma, come messo in luce dalle relazioni del giorno precedente, ha una radice relazionale anche il processo terapeutico deve sfruttare, per essere efficace, le dinamiche relazionali ed interpersonali.

In questo quadro l’ enactment rappresenta un meccanismo relazionale molto potente: esso costituisce una forte esplosione affettiva, che si verifica a livello inconscio nell’ambito della relazione terapeutica, attraverso la quale è possibile accedere alle aree traumatizzate ed inconsapevoli della mente.

Stiamo quindi parlando di traumi molto precoci che si collocano ad uno stadio preverbale dello sviluppo dell’individuo; ciò determina un accesso estremamente difficoltoso alla verbalizzazione e conseguente consapevolizzazione di tali traumi.  Gli enactment che avvengono nella relazione terapeutica rappresentano un modo per prendere coscienza di tali vissuti dolorosi inconsci, che sono stati fatti oggetto di un processo di dissociazione da parte dell’individuo. In una prospettiva neurobiologica interpersonale gli enactment ricreano la disregolazione dell’emisfero destro legata ai traumi relazionali dell’attaccamento precoce, processo che coinvolge in modo rispecchiante, come sottolineato più volte da Shore, non solo l’emisfero destro del cliente ma anche quello del terapeuta (da qui la caratteristica di reciprocità del fenomeno di enactment).

Alla luce di questa premessa Shore afferma, citando Russel, che

la principale forma di resistenza nel processo di trattamento è la resistenza del terapeuta a quello che il paziente sente

non è affatto semplice entrare in risonanza empatica, a livello sia verbale che non verbale, con tali vissuti.

Nonostante l’enactment reciproco sia una delle dimensioni intersoggettive più stressanti del trattamento terapeutico è enorme il suo valore, perché esso rappresenta un’esperienza emozionale correttiva, con ricadute direttamente a livello di funzionamento cerebrale: promuove l’integrazione top-down e bottom-up del sistema corticale e sottocorticale dell’emisfero destro del cliente, permettendo l’espansione del cervello emotivo lateralizzato a destra (il substrato biologico dell’inconscio umano).

Il successivo intervento di Siegel torna anch’esso sul tema dell’integrazione contestualizzandola nell’ambito del trattamento psicoterapeutico dei vissuti traumatici; si parte dalla premessa che il trauma determini la compromissione dell’integrazione necessaria per una regolazione efficace.

L’impossibilità, da parte del soggetto di operare un’adeguata integrazione conduce all’estremizzazione degli opposti e alla conseguente creazione di profili di caos o rigidità (ad esempio, uno stato maniacale rappresenta un profilo di caos, uno stato depressivo un profilo di rigidità) lungo una varietà di domini interni e interpersonali.  L’assessment clinico deve, quindi, includere una valutazione di tali estremi e la conseguente pianificazione terapeutica si concentra sui domini di integrazione compromessi in seguito a un trauma, che sono i seguenti: l’integrazione della coscienza, bilaterale, verticale, della memoria, narrativa, di stato, interpersonale e temporale; in questo quadro gli interventi terapeutici sono finalizzati a stimolare attivazione e crescita neurale (SNAG, stimulate neuronal activation and growth) verso l’integrazione.

La relazione pomeridiana è affidata a Liotti il quale, per quanto sacrifichi la sua verve oratoria in favore dell’ospitalità, decidendo di fare il suo intervento in inglese, ben sintetizza il suo decennale lavoro nel campo dell’attaccamento e del trauma mostrando come l’attaccamento disorganizzato sembri avere un ruolo di fondamentale importanza nella genesi dei disturbi dissociativi.

Partendo dai dati di ricerca solidi, infatti, Liotti evidenzia come l’attaccamento disorganizzato nel primo anno di vita sia un potente predittore della dissociazione, più di quanto lo siano traumi successivi, avanzando l’ipotesi che l’interazione fra ricordi traumatici e attaccamento disorganizzato possa essere il necessario antecedente della dissociazione patologica.

Il possibile meccanismo alla base di ciò sembrerebbe risiedere nella particolare interazione tra due sistemi motivazionali innati frutto dell’evoluzione: il sistema di difesa e il sistema di attaccamento. Mentre in condizioni ottimali questi due sistemi funzionano in perfetta armonia (il bambino scappa dal pericolo rifugiandosi dalla mamma, ed essendone confortato disinnesca il sistema di difesa), nell’attaccamento disorganizzato la figura di attaccamento è nello stesso tempo fonte di pericolo e di conforto, generando nel bambino un terrore senza sbocco.

La teoria polivagale di Porges aiuta a spiegare come la mancata inibizione del sistema di difesa da parte del sistema di attaccamento una volta che l’evento traumatico sia terminato favorisca la dissociazione: dato che attacco/fuga sono impossibili è probabile che l’unica difesa possibile sia la finta morte, con l’attivazione del nucleo dorsale del vago che ostacola le funzioni integrative superiori della coscienza.

Ma come mai non sono così evidenti e frequenti i sintomi dissociativi in bambini con attaccamento disorganizzato? L’ipotesi è che la maggior parte di loro sviluppi delle strategie per controllare i genitori senza attivare l’attaccamento, utilizzando altri sistemi motivazionali, come per esempio il sistema di rango o quello di accudimento. Queste strategie controllanti funzionano bene finché una sollecitazione troppo intensa del sistema di attaccamento non le faccia collassare, facendo emergere il MOI disorganizzato. 

Questa teorizzazione, il cui sostegno da parte della ricerca sembra incoraggiante, ha una ricaduta di primaria importanza nella relazione terapeutica con pazienti traumatizzati: un terapeuta troppo accudente potrebbe far emergere i modelli operativi interni disorganizzati, con la fobia dell’attaccamento e la fobia della perdita di attaccamento, favorendo processi dissociativi. Un migliore assetto relazionale è invece garantito da una posizione collaborativa, paritetica, fra terapeuta e paziente. La costruzione e la riparazione dell’alleanza terapeutica ancora una volta, sembra essere uno dei principali strumenti del trattamento, soprattutto per pazienti pesantemente traumatizzati.

La giornata si conclude con una tavola rotonda in cui Antonio Onofri coinvolge i relatori della giornata e Pat Ogden in una preziosa riflessione proprio sul ruolo della relazione terapeutica.

Ciascuno, sottolineando quanto il lavoro degli altri abbia influenzato il proprio, riconosce come la relazione terapeutica sia lo strumento di guarigione, la base da cui partire per affrontare il lavoro con i pazienti. A fianco al dialogo esplicito è di fondamentale rilevanza il dialogo implicito, fra le parti inconsce del terapeuta e del paziente, in un viaggio in cui rotture e riparazioni dell’alleanza sono straordinarie occasioni di cambiamento. Ciò è possibile se si rinuncia a portare il paziente dove vogliamo noi e siamo disposti a chiedergli i suoi obiettivi, se si è pronti a essere curiosi, a essere insieme, a combattere insieme, anche a perdere insieme al paziente. La chiave non è cosa fare, ma stare col paziente, al suo fianco: diversi e collegati, per una piena integrazione.

Queste riflessioni diventano occasione per mostrare anche il merito principale di questo congresso e di questi grandi clinici e scienziati: la reciprocità, l’intersoggettività e l’integrazione non sono solo parole in questi giorni. E’ l’aria che si respira.  Tutti i relatori riconoscono quanto i contributi degli altri presenti siano stati negli anni apporti fondamentali al loro lavoro. Ognuno dalla propria prospettiva, ognuno a partire dalla propria disciplina, ha aggiunto un pezzo al grande e ambizioso puzzle: comprendere la mente umana e creare un modello di terapia integrato. E’ proprio questo secondo Siegel l’integrazione: differenza e collegamento.

Nell’ambito del trauma forse si riuscirà a fare quanto finora è stato possibile fare: andare oltre le singole fazioni, rinunciare alla competizione in favore di una più ampia collaborazione e creare un modello integrato, supportato dalla neurobiologia e dalla clinica, che possa davvero essere di aiuto a questi pazienti.

Dobbiamo imparare a usare il nostro cervello, il cervello sociale, come ricorda Liotti: il lavoro di ciascuno è influenzato dal lavoro di tanti colleghi, i nostri cervelli devono diventare molteplici, estendere i loro limiti, ricordando che tutti facciamo parte di qualcosa di più grande.

 

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Annalisa Bertuzzi
Annalisa Bertuzzi

PSICOLOGA PSICOTERAPEUTA AD INDIRIZZO UMANISTICO - INTEGRATO

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