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Recupero afasico e speech therapy: la correlazione con la plasticità strutturale della via ventrale

Alcuni ricercatori hanno indagato cosa accade a livello cerebrale, nell'area ventrale, quando l’elaborazione linguistica di pazienti afasici migliora

Di Irene Camilla Sicari

Pubblicato il 26 Lug. 2017

Aggiornato il 03 Lug. 2019 12:29

La speech therapy è ormai da anni considerata il golden standard nella cura di un disturbo afasico post ictus. Tuttavia quello che sembra complicato capire è quanto venga recuperato a livello neurologico a seguito di tale terapia, dal momento che mentre alcuni pazienti rispondono molto bene, altri presentano uno scarso recupero.

 

I disturbi del linguaggio di tipo afasico sono comuni in condizioni post ictus e possono manifestarsi come difficoltà ad identificare la parola corretta da usare in relazione al contesto (problemi semantici) e/o difficoltà a pronunciare parole (problemi fonemici). La speech therapy è ormai da anni considerata il golden standard nella cura di un disturbo afasico post ictus. Tuttavia quello che sembra complicato capire è quanto venga recuperato a livello neurologico a seguito di tale terapia, dal momento che mentre alcuni pazienti rispondono molto bene, altri presentano uno scarso recupero.

Linguaggio e network cerebrali

La capacità del network deputato al linguaggio di ricostruire se stesso a partire dalle competenze residue, viene definita come plasticità strutturale, ed è direttamente correlata a quanto un paziente possa beneficiare della terapia del linguaggio, come dimostrato in uno studio dei ricercatori della Medical University of South Carolina (MUSC).

Il loro studio supporta il modello del linguaggio a due vie che afferma che le reti cerebrali ventrali sono associate a capacità semantiche e le reti dorsali con abilità fonemiche.

La produzione del discorso prevede la presenza di due fasi: una prima selezione della parola corretta grazie all’associazione semantica, e in un secondo momento la sua pronuncia corretta foneticamente – spiega l’autrice principale dell’articolo Emilie T. McKinnon, candidato al dottorato al Dipartimento di Neurologia della MUSC – La teoria attuale ritiene che differenti parti del cervello sostengano questi due differenti processi. Se così fosse, tali aree deputate al processamento delle diverse informazioni linguistiche dovrebbero essere strettamente connesse, perciò la domanda successiva è: quando una di queste regioni viene selettivamente danneggiata come può la connessione inter- cerebrale essere ripristinata?

I ricercatori hanno osservato nel dettaglio la microstruttura di una di queste connessioni per cercare di comprendere cosa accade quando l’elaborazione linguistica migliora.

Afasia: aspetti semantici e modificazioni strutturali post terapia

Il team ha testato otto pazienti afasici, con un solo episodio di ictus nell’ultimo anno che ha interessato il Fascicolo inferiore longitudinale (ILF). I partecipanti sono stati testati in compiti di denominazione per confronto una settimana prima e una settimana dopo aver ricevuto per tre settimane una terapia del linguaggio intensiva. Inoltre, i partecipanti sono stati sottoposti a quattro sessioni di Risonanza Magnetica (MRI)- due prima della terapia del linguaggio e due dopo.

Soprattutto, i ricercatori hanno potuto usufruire di tecniche di imaging avanzato sensibili ai cambiamenti microstrutturali della materia bianca, rivelando differenze precedentemente non visibili.

La McKinnon spiega:

Abbiamo utilizzato la DKI- Diffusion Kurtosis Imaging- una innovativa tecnica basata su una distribuzione non gaussiana dell’acqua nei sistemi biologici. Dove l’acqua si espande senza ostacoli la curtosi è vicina allo zero, più barriere si incontrano, maggiore sarà il livello di curtosi. Questo dimostra quanto sia complesso l’ambiente, e l’utilizzo di questa tecnica è stato necessario per raccogliere informazioni utili, ad un costo minimo; ha infatti richiesto un aggiustamento di alcune impostazioni della MRI e circa cinque minuti in più sul tempo totale della scansione.

Il team si è focalizzato in particolare sull’ILF, ritrovando come, un segmento definito “collo di bottiglia”, centro di integrazione dell’elaborazione delle informazioni, sia quello maggiormente danneggiato.

I ricercatori hanno trovato una correlazione significativa tra il pre e post terapia e il miglioramento sugli aspetti semantici.

I punteggi dei partecipanti sui test di nomi degli oggetti sono notevolmente migliorati rispetto al baseline (p = 0.002), con pochi errori semantici (p = 0.01) e meno risposte “no” (p = 0.03).

I ricercatori hanno inoltre rilevato che, sebbene il numero di errori semantici prima della terapia fosse correlato all’onere della lesione ILF (r = -0,65, p = 0,07), il recupero semantico non era associato all’entità della lesione (r = 0,19, p = 0,65).

Inoltre, quando il team di ricerca applicava strategie di misurazione più convenzionali, i risultati non erano statisticamente significativi, suggerendo che i metodi tradizionali potrebbero essere meno sensibili ai cambiamenti microstrutturali associati al recupero.

La scoperta sostanziale della ricerca suggerisce che miglioramenti nella curtosi sono legati ai miglioramenti strutturali. Questo è molto importante per comprendere l’andamento delle recidive nei soggetti afasici.

Abbiamo visto che le persone miglioravano perché la loro rete cerebrale diventava strutturalmente più forte, le connessioni residue diventavano quindi più forti in un’area in cui la conoscenza semantica è integrata. Questi cambiamenti non correlavano invece con gli aspetti fonemici – dice Bonilha.

La McKinnon spera che i risultati ottenuti contribuiscano ad orientare le scelte terapeutiche in relazione ai danni cerebrali visibili, ad esempio se si riscontra un forte indebolimento dell’area ventrale, potranno essere raccomandate terapie orientate sull’aspetto semantico.

Inoltre, questa strategia può essere utile in altre condizioni. Ad esempio, altre funzioni del cervello come il controllo motorio sono danneggiate a  seguito di un ictus.

Sarebbe necessario accedere agli stessi cambiamenti microstrutturali per recuperare l’uso della mano – dice McKinnon – Quindi, potremmo ottenere gli stessi risultati con la riabilitazione del controllo motorio deficitario  post-ictuse e, forse, oltre l’ictus, considerare i casi di neurodegenerazione o di danno cerebrale, come la lesione cerebrale traumatica. Se possiamo trovare una relazione tra la struttura e la funzione della rete, allora potremmo utilizzare questa tecnica per valutare il potenziale di recupero e il progresso dei pazienti.

 

 

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