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Interventi impliciti ed espliciti in psicoterapia cognitiva

Di Gabriele Caselli

Pubblicato il 15 Set. 2011

Aggiornato il 03 Ott. 2011 13:34

Bricks - Licenza d'uso: Creative Commons - Owner: http://www.flickr.com/photos/centralasian/La psicoterapia cognitiva è colma di diatribe: pensieri ed emozioni, contenuti cognitivi e processi cognitivi, contenuti cognitivi e metacognitivi, accettazione e ristrutturazione delle credenze, processi automatici e processi controllati e molti altri ancora. Tra questi dibattiti, uno in particolare sta emergendo come significativo per l’impatto che potrebbe avere nella definizione di un percorso terapeutico. Si tratta della distinzione tra tecniche di intervento implicite ed esplicite. Queste due forme cognitive di intervento partono da presupposti teorici differenti, anzi quasi opposti. Proviamo a fare un esempio applicato alla modificazione della tendenza all’attenzione selettiva verso stimoli minacciosi, processo che ha come risultato quello di renderli più salienti nella coscienza individuale e rendere la minaccia o il desiderio rispettivamente più reali e incontrollabili.

Le tecniche implicite partono dal presupposto che certi automatismi cognitivi (come l’attenzione selettiva) possano essere modificati da specifici esercizi senza passare attraverso la coscienza. L’unico uso della coscienza sta nella presentazione iniziale dell’esercizio e del suo razionale. Tutto il resto è pratica costante e prolungata nel tempo. Per esempio, può essere chiesto di svolgere esercizi attraverso software computerizzati in cui l’individuo si addestra quotidianamente a porre maggiore attenzione a stimoli positivi rispondendo con rapidità alla loro presentazione attraverso la pressione di un tasto. In altri esempi la tendenza al pensiero eccessivamente concreto viene trattata chiedendo al paziente a svolgere esercizi immaginativi seguendo istruzioni che orientano a una costruzione estremamente concreta e vivida di episodi mentali (Watkins & Moberly, 2009).Un primo limite di questi interventi è la richiesta di un elevato sforzo e una pratica pressoché quotidiana e protratta per un periodo di tempo piuttosto lungo. Un secondo limite risiede nella scarsa validità ecologica, cioè quanto di ciò che viene imparato in esercizi standardizzati e attuati in contesto asettico si generalizza a contesti di vita dinamica e quotidiana. Il vantaggio è che teoricamente agirebbero a prescindere dalle capacità di elaborazione delle informazioni e di ragionamento complesso del paziente. Non è richiesta un’opera di autoanalisi e di messa in discussione delle proprie idee ma il semplice esercizio sarebbe sufficiente a costruire nuove modalità di processamento, soprattutto per quelle funzioni (come l’attenzione) che possono agire con buona frequenza fuori dal controllo cosciente.

Le tecniche esplicite, in primis la ristrutturazione cognitiva, partono da un presupposto diverso. Nonostante ammettano che certe modalità di elaborazione delle informazioni possano essersi costituite in modo automatico, ritengono che il loro sostenersi nel tempo sia fondamentalmente mediato da convinzioni coscienti. La presenza di queste convinzioni ostacola qualsiasi tentativo esplicito di modificarle se non vengono direttamente colpite dall’intervento terapeutico. Il cambiamento avviene attraverso l’accertamento cognitivo (l’esplorazione di queste credenze nel dialogo con il terapeuta), la loro analisi critica e l’individuazione di pensieri alternativi da iniziare a considerare nelle situazioni emotivamente attivanti. Anche i processi cognitivi come l’attenzione si possono gradualmente ristrutturare attraverso un uso cosciente di nuove strategie mentali. Per esempio nel situational attentional refocusing (SAR, Wells, 2009) i pazienti sono invitati a riconoscere e monitorare quando l’attenzione si focalizza su stimoli o elementi negativi dell’esperienza e volontariamente spostarla su elementi del contesto esterno vicini o lontani (rumori dell’ambiente, colori, movimenti).

Certamente questa dicotomia è per molti versi interessante e si intreccia con altri dibattiti in corso nel mondo della scienza psicoterapeutica cognitiva. Tutti convergono sul ruolo di perno esercitato dalla coscienza, dapprima punto di riferimento dell’intervento cognitivo e oggigiorno messa in discussione dalla necessità di fronteggiare la barriere imposte dai processi automatici. Come per molte altre discussioni credo che non ne usciranno vinti o vincitori anche perché le due modalità di intervento sono tutt’altro che antitetiche. In realtà ritengo (ma forse saranno ricerche future a definirlo) che per i casi più cronici un percorso di co-terapia che alterni interventi tecnici e impliciti a un percorso personale esplicito possano incrementare l’esito, come già avviene comunemente nell’associazione di skill training e terapia individuale in protocolli di trattamento del disturbo borderline di personalità.

Bibliografia:

  • Watkins, E. R. & Moberly, N.J. (2009). Concreteness training reduces dysphoria: A pilot proof-of-principle study. Behaviour Research and Therapy 47, 48-53.
  • Wells, A. (2009). Metacognitive Therapy for Anxiety and Depression. New York, USA: Guilford Press.
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Gabriele Caselli
Gabriele Caselli

Direttore scientifico Gruppo Studi Cognitivi, Professore di Psicologia Clinica presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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