Tre impressioni conclusive dal congresso EABCT 2011 e uno sguardo di saluto a Reykjavik, città di piccole case. Rimane in mente il primo quarto d’ora di Clark, surreale lezione sul modello cognitivo della fobia sociale talmente risaputa da rasentare la provocazione e tradire l’affanno di chi teme di aver già detto in passato quel che aveva da dire e di essersi ritrovato per caso o per errore ancora sul palco a contemplare come si possa sopravvivere alla propria vitalità. Rimane in mente l’assenza della metacognizione di Wells e della ACT di Hayes, saperi clinici che paiono avviarsi verso quelle una di scissioni che speravamo non affliggessero il cognitivismo clinico. E rimane in mente invece la pervasiva presenza della mindfulness, unico sostegno innovativo allo scheletro del cognitivismo standard. Strano destino, il razionalismo cognitivo forte, attivo e consapevole che si sposa a una pratica contemplativa che sembra invece rinnegare ogni aspirazione alla padronanza mentale attiva. È questo il futuro? Metacognizione e ACT salpano per l’altrove, mentre la mindfulness è l’improbabile sposa orientale del cognitivismo standard. All’EABCT 2011 parrebbe di si.
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Reykjavik si è dimostrata ospitale. Piccola capitale del nord, la sua estate corrisponde a un terso inizio di aprile italiano con qualche crudeltà metereologica. Case basse dipinte di bianco e tutte con giardino come si usa al nord. Una lunga strada costeggiata di pub ospita una vita notturna brilla ma apparentemente priva delle esagerazioni alcoliche di altri paesi freddi. Molti pub avevano una saletta per ballare al piano di sopra salendo le scale, ma con finestre sulla strada che impedivano la claustrofobia di altre discoteche d’occidente. Nel 2012 a Ginevra.