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EABCT 2011: Clark sulla diffusione ed efficacia della terapia cognitiva

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 01 Set. 2011

Aggiornato il 17 Set. 2014 12:18

David ClarkL’Islanda si annuncia dal finestrino del taxi con distese pietrose a perdita d’occhio, erba stentata, montagne minacciose all’orizzonte, un lontanissimo geyser che zampilla tra i monti e nuvole, nuvole grigie e bassissime, così vicine da incombere sulla terra come la noia di una plenaria di Clark sulla diffusione della terapia cognitiva nel servizio pubblico inglese incombe sul mio cuore.

E invece la plenaria di Clark mi è piaciuta e non mi sono annoiato, forse aiutato anche dalla necessità di prendere appunti per questo articolo. Clark ha iniziato con un’ora di ritardo dopo un noiosissimo (quello sì) discorso del presidente della repubblica islandese. Il presidente ha detto che il congresso cognitivo è una delle risposte alla crisi di debito dell’Islanda. Contento lui, contento il Fondo Monetario Internazionale.

Torniamo a Clark. Parte male, fa un riassuntino della teoria cognitiva standard della fobia sociale. Dopo un quarto d’ora di lezioncina per un primo anno di specializzazione  in terapia cognitiva sospetto che Clark sia definitivamente impazzito, forse anche per l’influenza del presidente della repubblica islandese che paga i debiti a colpi di congressi cognitivi.

Poi Clark si riprende. Presenta qualche dato di ricerca in cui si ribadisce che la terapia cognitiva è la più indicata e migliore delle altre terapia, e fa il confronto con la terapia interpersonale. Però anche qui mi convince poco, perché la terapia interpersonale è ormai un vecchio ronzino, una versione semplificata della psicoanalisi inventata a tavolino e che non ha mai avuto una vera vita indipendente al di fuori delle università. Troppo facile. Ho l’impressione che molti pensino che i veri rivali siano altri (la terza ondata, la terza ondata, sempre lei!).

Infine inizia una parte davvero interessante. Non propriamente clinica, quanto piuttosto sull’impatto socio-economico della terapia dell’ansia e della depressione e sulle potenzialità di una sua maggiore diffusione. Ma comunque interessante.

Clark ci informa che ben il 15% della popolazione generale è affetto da ansia o depressione, ma che solo il 5% di costoro è in cura e ancor meno intraprendono un trattamento empiricamente efficace, con grossi costi sociali ed economici. Tutto questo significa che c’è lo spazio per addestrare un numero molto maggiore di terapeuti di quelli ora presenti sul territorio inglese. Ma il dato sarà applicabile anche all’Italia, paese dove il numero di laureati in psicologia è molto maggiore che in ogni altro paese europeo? A occhio forse si, e un po’ di ottimismo ci vuole.

Clark passa poi a esporre dati in un grande studio naturalistico sulle conseguenze positive dell’immissione nel territorio  di un massiccio numero di terapisti, per lo più cognitivi. Lo studio è stato fatto nelle contee di Newham e Doncaster. I risultato più importante è che in questo modo le remissioni da ansia e depressione raggiungono il valore del 52% (con punte del 67% nella popolazione di origine asiatica, curiosamente). Una maggiore presenza nel territorio di psicoterapeuti migliora il benessere psicologico della popolazione e diminuisce i costi.

Ma ci sono anche altre variabili che sono in relazione con un aumento dell’efficacia. Tra queste il numero delle sedute settimanali (ebbene si, pare proprio che più sedute a settimana incrementino l’efficacia; questo può essere un incoraggiamento a infrangere il tabù cognitivo della seduta settimanale unica?), il monitoraggio con brevi questionari effettuato dopo tutte le sedute e il grado di preparazione e aggiornamento formativo del terapeuta.

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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