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Black Mirror: riflessioni sui mutamenti psicologici e relazionali nel futuro della tecnologia

Black Mirror è una serie TV che descrive i mutamenti psicologici e relazionali derivanti dall'utilizzo della tecnologia. 

Di Rachel Musolino

Pubblicato il 20 Ott. 2016

Aggiornato il 04 Ott. 2017 10:04

A volerne dare una lettura meno introspettiva, ma che richiami quello che sembra essere l’intento degli autori, Black Mirror si rivela il ritratto di una società in cui la tecnologia è molto più di uno strumento ideato per facilitare i nostri compiti quotidiani o per mettere a nostra disposizione mezzi di comunicazione istantanea che accorcino le distanze. Al contrario, quello che viene raccontato nel corso degli episodi è una distanza infinita tra esseri umani in un mondo dominato da sistemi che esercitano un potere spersonalizzante, antagonisti di un’autenticità delle relazioni.

 

Black Mirror: la serie TV

[blockquote style=”1″]The good news is that we move forward with giant steps toward the future. The bad news is that we may not be very prepared to deal with them.[/blockquote]
(Young, Abreu, 2011, p. 267)

Nata nel 2011 e rinnovata per una terza stagione in uscita il prossimo 21 Ottobre, Black Mirror è una serie tv inquieta, disarmante, a metà strada tra il genere sci-fi e la satira. Il titolo stesso introduce intuitivamente la tematica centrale in quanto rimanda allo schermo nero dei dispositivi tecnologici che noi tutti utilizziamo abitualmente. Nei vari episodi, ciascuno con diverse ambientazioni e personaggi, si susseguono scenari e storie governati da una brutale modernità fatta di incredibili invenzioni che rivoluzionano equilibri e sentimenti umani.

Psicologia e serie TV: i messaggi trasmessi da Black Mirror

Guardando nello schermo nero creato da Charlie Brooker, produttore britannico e autore della fortunata serie antologica, si scorgono dettagli che vanno al di là delle ovvie interpretazioni. Sebbene sia possibile, infatti, analizzarne la morale e i significati, non si può sottovalutare l’impatto emotivo e perturbante delle trame proposte.

A volerne dare una lettura meno introspettiva, ma che richiami quello che sembra essere l’intento degli autori, Black Mirror si rivela il ritratto di una società in cui la tecnologia è molto più di uno strumento ideato per facilitare i nostri compiti quotidiani o per mettere a nostra disposizione mezzi di comunicazione istantanea che accorcino le distanze. Al contrario, quello che viene raccontato nel corso degli episodi è una distanza infinita tra esseri umani in un mondo dominato da sistemi che esercitano un potere spersonalizzante, antagonisti di un’autenticità delle relazioni.
È possibile rintracciare in ciascun episodio una tematica che coinvolge (e sconvolge) l’idea tradizionale della natura umana.

Nel mondo creato da Brooker e colleghi, la capacità empatica sembra essere smarrita o, comunque, distorta. Nei racconti della serie i personaggi sono fondamentalmente assorbiti nel narcisismo tipico di chi guarda il mondo attraverso uno schermo, noncuranti dell’altro e del suo sentire. Sono tutti spettatori dell’altrui esistenza e traggono godimento da questa sorta di voyeurismo digitale.

In questo mondo non trova posto l’oblio della memoria che resta perennemente intatta e uguale a se stessa; uomini e donne, provvisti di personali microchip che ne conservano i ricordi, possono proiettare e riguardare gli eventi vissuti nei minimi dettagli. Una memoria privata dei suoi naturali mutamenti e distorsioni, impossibile da elaborare.

È una realtà in cui il progresso ha abolito il concetto di impossibile; persino di fronte all’irreparabilità della morte si può ricorrere a soluzioni “intelligenti”, a surrogati programmati per essere identici all’originale, forse addirittura migliorati. Una perfezione che spiazza perché altro non è che una vuota illusione.
E ancora, solitudine, azioni ripetitive e perdita del senso di identità e di individualità in una società paralizzata, bombardata da incessanti messaggi pubblicitari e in cui l’unica via di fuga è trasformarsi in maschere vuote che occupano tristi palcoscenici.

Questi alcuni dei temi di una serie che genera reazioni viscerali ed emotive prima ancora che animare dibattiti interiori e razionali sullo stato dell’evoluzione tecnologica e sul ruolo della persona all’interno di questo cambiamento. Black Mirror non è quindi solo un prodotto televisivo di intrattenimento, ma un moderno romanzo distopico; un’estremizzazione dell’attuale progresso tecnologico, disturbante al punto giusto da lasciare aperte considerazioni e interrogativi sui mutamenti che il consumo della tecnologia sta operando silenziosamente sulle nostre menti, sui nostri corpi e sui modi di entrare in contatto con l’altro.

La rivoluzione psico-tecnologica del nostro tempo è già iniziata, come testimonia il crescente interesse per le cosiddette nuove dipendenze e, in particolare, per le dipendenze tecnologiche. Alcuni autori, come Block (2008), sostengono l’esistenza di un vero e proprio disturbo (Internet Addiction), una condizione invalidante che implicherebbe importanti modificazioni comportamentali, ritiro sociale e sentimenti negativi di rabbia, depressione e un senso di tensione quando non si ha accesso ai dispositivi e alla rete.
L’intento degli studiosi che si approcciano a questo fenomeno non è, però, quello di demonizzare il progresso, ma di operare una riflessione consapevole sul rischio di un eccessivo ricorso alla tecnologia al fine di appagare i nostri bisogni emotivi, psicologici e sociali (Young, Abreu, 2011).

Con i suoi toni oscuri e profondi, Black Mirror narra questi mutamenti e scatena incertezze su un futuro che forse non è poi tanto lontano: una serie da vedere, o rivedere, in attesa dei nuovi episodi della terza stagione.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Block, J. J. (2008) Issues for DSM-V: Internet Addiction, The American Journal of Psychiatry, 165 (3), 306-307.
  • Young, K. S., Abreu, C. N. (2011) Closing Thoughts and Future Implications, In K.S. Young & C. N. Abreu (Eds.) Internet Addiction: A Handbook and Guide to Evaluation and Treatment, (pp. 267-273), John Wiley and Sons, Inc., Hoboken, New Jersey.
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