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De gustibus non est disputandum…fino al prossimo ripensamento! Perché i nostri gusti cambiano?

Il gusto è influenzato dal gruppo: ciò che esclude tende a non piacerci più. Ma se ci piace dobbiamo trovare un gruppo che condivida quella preferenza.

Di Giancarlo Dimaggio

Pubblicato il 04 Apr. 2016

Perché imporsi di cambiare gusto, atto che, alla lettera, appare contro natura? E se volessimo farlo, è possibile? Di fatto desiderare ciò che disprezzavamo è un atto che compiamo continuamente. E allo stesso tempo siamo tremendamente coerenti in alcune preferenze.

Un articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera, Sabato 19 Marzo 2016

 

A me i carciofi hanno sempre fatto schifo. Da piccolo arrivavano a tavola ripieni. Il ripieno era buono – mia madre in cucina ci sapeva fare – e cercavo di mangiare meno carciofo possibile, limitandomi al cuore morbido. La battaglia era difficile, ho mandato giù parecchie foglie.

Quando uscì Edward mani di forbice non lo vidi. Dal trailer sembrava decadente, melenso. L’ho guardato pochi mesi fa, con i miei figli e la mia fidanzata, promotrice dell’evento. Mi è sembrato bellissimo. Gli orinatoi di Duchamp li vedrei bene al loro posto naturale, nei musei occupano spazio senza merito: l’ho pensato la prima volta che ne ho sentito parlare, non ho cambiato idea. Invece ho sempre adorato le forme linguistiche del Dadaismo – Duchamp era membro della corrente – e quando in una puntata della seconda stagione di Fargo uno dei killer inizia a parlare in ‘surrealese’ ho esultato. Rifiutavo le birre amare, ero tutto per le ambrate belghe, senza confronti. Oggi le trovo troppo dolci e la mia scelta del ristorante è in buona parte condizionata dalla presenza nel menu di una India Pale Ale.

Emanuele Arielli nel suo ‘Farsi piacere. La costruzione del gusto‘ confessa di non amare la musica dodecafonica (sono con lui!) alla quale il suo amico C.R. (sospetto non sia CR7) cerca di iniziarlo. Arielli ci prova, si impegna, ne degusta i bocconi meno indigesti, ne studia la filosofia. In cambio insiste perché C.R. assapori cibi giapponesi che quest’ultimo trova disgustosi (sono col suo amico!). C.R. riesce a ingolosirsi del nattō, fagioli di soia fermentati, decido quindi che se nella vita incontrerò Arielli non andrò al ristorante giapponese con lui, abbiamo altre passioni da condividere. Arielli non arriva ad apprezzare l’atonale, anche se ne riconosce le influenze su Frank Zappa, che gli piace.

Perché imporsi di cambiare gusto, atto che, alla lettera, appare contro natura? E se volessimo farlo, è possibile? Le domande di Arielli sono queste. Se siete di quelli che vanno alla Maldive e si lamentano perché al ristorante non hanno gli spaghetti alla carbonara, smettete di leggere questo articolo e non acquistate il libro. Però, se pensate che il problema del cambiar gusto non vi tocchi, chiedetevi perché non mangiate ancora gli omogeneizzati.

Di fatto, amare cose che ci lasciavano indifferenti, desiderare ciò che disprezzavamo, rigettare quello che prima ci attraeva sono atti che compiamo continuamente. E allo stesso tempo siamo tremendamente coerenti in alcune preferenze. L’ambiente ci influenza: una ragazza conosciuta su un ponte sospeso sull’abisso la troviamo più interessante di una incontrata in un luogo tranquillo: sotto adrenalina, il brivido si lega alla sua immagine. La familiarizzazione e la ripetizione dell’atto ci influenzano: una pubblicità ripetuta ci induce a desiderare una macchina. Esercitarsi duramente alla chitarra può portarci ad amare il pezzo che suoniamo, o almeno a trovarlo interessante, quel brano diventa una seconda natura.

Ancora la domanda: perché decidere di cambiare gusto? Tra i motivi: stabilire o mantenere il contatto con gli altri. Confesso, non senza vergogna, che ai tempi dell’università mettevo i calzini bianchi. Una ragazza che mi piaceva mi disse gentilmente: perché lo fai? Da allora non li ho più indossati e quando Anna Wintour, intervistata da David Letterman, gli fece notare la stessa cosa protestai a voce alta: David, non puoi fare un errore così!

Quindi cambiamo gusto per opportunismo? Basta meno. Aprite l’armadio, guardate la gonna comprata da H&M l’anno scorso. Ricordate come vi sembrava indispensabile? Oggi la osservate con una smorfia impercettibile di disprezzo. Ve la immaginate addosso e vi sentite in imbarazzo. Perché intorno a voi indossano altri colori, altri tagli. I capelli cotonati negli anni ’80 erano belli, ora fanno sorridere.

Il nostro gusto è influenzato dal bisogno di appartenere al gruppo. Quello che ci esclude tende a non piacerci più. E se ci piace in modo inflessibile dobbiamo trovare un gruppo che condivida quella preferenza, il gusto si esercita in una comunità che lo condivide.

Ripeto la domanda: perché volere cambiare gusto? La risposta di Arielli, il cuore di un libro che ho letto in un giorno perché quella scrittura tra cultura pop, ragionamento logico solido e filosofia la trovo appetitosa: perché farsi piacere qualcosa è una pratica di libertà. La forza di svincolarsi da se stessi, oltrepassare i confini del noto, diventare altro per capire chi siamo. E a quel punto lasciare che si staglino i pilastri dell’identità: l’immutabile che ci fa dire ‘io’ quando ci guardiamo allo specchio nei momenti di dubbio. Tentiamo di essere infedeli a noi stessi, ci scopriamo più capaci di riconoscerci.

Aggiungo: alcuni gusti non li possiamo alterare, quelle preferenze che ci definiscono umani: sentirsi amati, ricevere un plauso, incontrare un partner sessuale, appartenere a un gruppo, divertirsi giocando, l’eccitazione dell’esplorare un territorio nuovo. E poi i gusti geneticamente determinati o quelli che si sono stampati nel nostro cervello.

Nessuna pratica ascetica mi porterà mai a gioire al sapore di carciofi e anice, credo che ci siano precise istruzioni in proposito nel mio DNA. Capire come la vita ci scriva addosso dei gusti in modo indelebile è più difficile. So solo che ho provato a portare nel mondo di Trono di Spade la mia amica Patrizia. Fallendo: ‘No, no, draghi, magia, saghe nordiche, sicuramente parlano una lingua piena di Ø e le Ø mi irritano‘.

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Giancarlo Dimaggio
Giancarlo Dimaggio

Psichiatra e Psicoterapeuta - Socio Fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva-Interpersonale

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