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Workaholic: Dipendenti dal lavoro si nasce o si diventa?

La workaholism, o work addiction, è stata introdotta da Oates per indicare il bisogno di lavorare incessantemente, tanto da rientrare nelle New Addiction.

Di Redazione

Pubblicato il 18 Giu. 2015

Aggiornato il 11 Mag. 2016 10:28

Marianna Aurora Solomita

Vi siete mai domandati cosa spinge alcuni lavoratori a dedicare molto del proprio tempo libero al lavoro? Maniaci del lavoro si nasce o si diventa a causa delle eccessive richieste dell’ambiente nel quale lavoriamo?

Vi siete mai domandati cosa spinge alcuni lavoratori a dedicare molto del proprio tempo libero al lavoro? Si tratta della crisi economica che ci spinge ad essere più produttivi nel tentativo di evitare il licenziamento o di un nostro impulso incoercibile ad andare sempre oltre le richieste professionali nel tentativo di appagare uno scopo carrieristico? Maniaci del lavoro si nasce o si diventa a causa delle eccessive richieste dell’ambiente nel quale lavoriamo?

 

Dipendenza dal lavoro

La workaholism, detta anche work addiction (letteralmente dipendenza da lavoro), è stata introdotta nel 1971 da Oates, per indicare il bisogno incontrollabile di lavorare incessantemente, così da rientrare nel novero delle New Addiction, assieme alla Internet Addiction, Shopping Compulsivo ed altre. Essa, tuttavia, si differenzia dalle classiche dipendenze comportamentali, poiché non si riferisce, come per l’uso di sostanze,  al ricorso ad un agente esterno per l’ottenimento diretto di un appagamento istantaneo, bensì ad un’attività che richiede uno sforzo finalizzato alla produzione di un lavoro o di un sevizio, per il quale si prevede una remunerazione.

L’attività lavorativa, pertanto, diventerebbe una sorta di scappatoia impiegata dal soggetto per evitare emozioni negative, relazioni o responsabilità. Nonostante si tratti di un tema dibattuto da diversi anni, la workaholism, per la sua stessa correlazione con un’attività quotidiana, quella lavorativa, indispensabile e di interesse comune, sembrerebbe non essere riconosciuta dalla società, al momento, come un disagio patologico (Oates, 1971). 

Ad esempio, mentre in Italia risulta ancora sconosciuto, in altri paesi come il Giappone, tale fenomeno identificato con il nome di Karōshi (morte per eccesso di lavoro), è largamente diffuso ed è causa di decessi a seguito di infarti cardiaci e ischemici, dovuti alle eccessive ore di lavoro e alle condizioni lavorative stressanti. Si associa a questo fenomeno anche il karo-jisatsu, termine che indica il suicidio al quale ricorrono gli impiegati che soffrono di depressione correlata all’eccesso di lavoro.  (Araki & Iwasaki, 2005; Kanai, 2006).

I sintomi più ricorrenti nella workaholism sono:

  • Tempo eccessivo dedicato volontariamente e consapevolmente al lavoro (più di 12 ore al giorno, compresi weekend e vacanze) non dovuto a esigenze economiche o a richieste lavorative;
  • Pensieri ossessivi e preoccupazioni collegati al lavoro (scadenze, appuntamenti, timore di perdere il lavoro);
  • Poche ore dedicate al sonno notturno con conseguenti irritabilità, aumento di peso, disturbi psicofisici;
  • Impoverimento emotivo, sbalzi di umore e facile irritabilità;
  • Sintomi di astinenza in assenza di lavoro (ansia e panico);
  • Abuso di sostanze stimolanti come la caffeina. (Castiello d’Antonio, 2010).

Diversi ricercatori, nel corso degli anni,  si sono interessati alla work addiction. Spence e Robbins, nel 1992, coniarono la nozione di triade workaholic, caratterizzata da :

  • impegno nel lavoro
  • motivazione nel lavoro
  • piacere ricavato dal lavoro

Furono identificati, in seguito, tre profili di workaholics, ovvero di soggetti maniaci dal lavoro:

  • work addicts (i dipendenti da lavoro): coloro che mostravano elevato impegno e motivazione nel lavoro ma poco piacere nel lavorare;
  • enthusiastic addicts (i dipendenti entusiasti): chi mostrava elevato impegno e molto piacere ma poca motivazione;
  • work enthusiasts (gli entusiasti del lavoro): coloro che possedevano marcati tratti di tutte le tre caratteristiche.

Dei tre profili, i work addicts risultarono essere i più rigidi, ossessivi e perfezionisti, con ambizioni eccessive e obiettivi irrealistici, spesso soggetti ad elevate quote di stress ed ansia associati a sintomi fisici.

Successivamente, Scott assieme ai suoi collaboratori, in una rassegna molto estesa del 1997, ha proposto una definizione di workaholism attualmente valida e condivisa, concettualizzato l’esistenza di tre tipi di comportamento caratteristici della persona dipendente da lavoro:

  • Spendere la maggior parte del proprio tempo in attività correlate al lavoro, generando un malfunzionamento sociale, nelle relazioni interpersonali e familiari e sullo stato di salute;
  • Pensare e focalizzarsi sul lavoro per trovare soluzioni, anche quando non si sta lavorando;
  • Lavorare al di là delle richieste o necessità finanziarie e organizzative.

Per quanto riguarda gli stili di comportamento, i tre pattern identificati sono:

  • compulsivo-dipendente: correlato positivamente ad ansia, stress, problemi fisici e psicologici, e negativamente a performance lavorative e a livelli di soddisfazione lavorativa e/o personale;
  • perfezionista: correlato positivamente ad alti livelli di stress, problemi fisici e psicologici, relazioni interpersonali ostili, bassa soddisfazione lavorativa, scarsa performance e assenteismo dal lavoro;
  • orientato al successo: positivamente correlato a buona salute fisica e psicologica, soddisfazione lavorativa e personale e comportamenti socialmente desiderabili.

Nel 2008, anche Schaufeli e i suoi collaboratori definirono la workaholism come la combinazione di due dimensioni: lavorare eccessivamente e lavorare compulsivamente.

Secondo questa definizione il lavorare eccessivamente rappresenta la componente comportamentale del costrutto che indica che gli stacanovisti del lavoro dedicano una quantità eccezionale del loro tempo e della loro energia per lavorare andando al di là di quanto sarebbe necessario rispetto alle richieste organizzative o economiche. Lavorare compulsivamente rappresenta la dimensione cognitiva della workaholism ed implica che i  workaholic sono ossessionati dalla loro professione e pensano costantemente al lavoro, anche quando non stanno lavorando. Pertanto, i maniaci del lavoro tendono a lavorare di più di quanto sia necessario, proprio perché spinti da un impulso interno (Bakker & Schaufeli, 2008).

Come per le altre dipendenze, anche la workaholism ha un’origine multifattoriale, pertanto, sembrerebbe derivare dalla storia di apprendimento familiare, in cui i figli tenderanno ad assumere gli alti standard dei genitori, eccellendo nelle attività scolastiche ed extrascolastiche. Tali  ritmi, vissuti come naturali, avrebbero come scopo quello di ricevere attenzioni e riconoscimento da parte degli stessi genitori e, talvolta, legittimando un minor investimento nelle relazioni interpersonali ed un atteggiamento di chiusura emotiva.

Si somma all’influenza dell’ambiente familiare, l’innovazione tecnologica che, con l’avvento di internet, smartphones e tablet e indebolendo i confini naturali tra ambito professionale e privato, avrebbe permesso al lavoro di invadere quegli spazi umani precedentemente non intaccati dalla sfera professione. Banalmente, il fatto di essere sempre reperibili tramite cellulare, da un lato rassicura, dall’altro sembrerebbe operare una sorta di invasione e controllo sulle vite private dei lavoratori. L’eccessiva mole di lavoro e la spasmodica ricerca di alti standard professionali,  delineerebbe nel workaholic, ovvero in colui che tende a sviluppare la dipendenza dal lavoro,  una personalità incline al comportamento compulsivo finalizzato ad evitare, nascondere o silenziare stati emotivi sgradevoli come rabbia e tristezza, derivanti da credenze associate ad una bassa autostima, intolleranza all’incertezza o difficoltà nelle relazioni interpersonali.  Vissuti di vergogna o colpa legati al senso di inadeguatezza, saranno pertanto gestiti con comportamenti controllanti, perfezionistici e iperattività (Robinson, 1998).

Ng e colleghi nel 2007, hanno dimostrato come i tratti di personalità associati al bisogno di realizzazione individuale rappresentino una delle principali cause della workaholism.

La motivazione al successo, in particolare, può essere definita come la necessità di realizzare obiettivi complessi ed ambiziosi che richiedono il superamento di ostacoli, di pensare e agire rapidamente, accuratamente ed in maniera autonoma, oltre che competere e superare gli altri ottenendo un riconoscimento immediato e la ricompensa ai propri sforzi. Coerentemente con questi risultati, gli stessi autori hanno dimostrato che gli individui che riferiscono livelli più elevati di auto-efficacia nelle attività lavorative rispetto ad attività non lavorative hanno maggiori probabilità di diventare maniaci del lavoro. La credenza di essere più capaci di gestire compiti di lavoro piuttosto che attività extralavorative può portare i dipendenti a dedicare tutto il tempo a loro disposizione alle attività lavorative con lo scopo di evitare tutte quelle attività nelle quali ritengono di essere  meno abili .

Questi dati, assieme ad altri studi empirici, suggeriscono che svariate caratteristiche di personalità, quali: la motivazione al successo, il perfezionismo, la coscienziosità (Andreassen et al., 2010) e l’auto-efficacia predispongono significativamente alla dipendenza dal lavoro (Mazzetti et al., 2014). Tuttavia, recenti indagini confermano che il clima organizzativo gioca un ruolo importante nello sviluppo e nel mantenimento della workaholism. A tal proposito, sempre Ng e colleghi nel 2007, hanno proposto un modello teorico che spiega la workaholism come il risultato combinato di tratti disposizionali (ad esempio, bisogni, valori), esperienze socio-culturali (l’apprendimento sociale, culturale enfasi sulla competenza e la concorrenza) e rinforzi comportamentali (ricompense organizzative ed incentivi di sistema), suggerendo che i dipendenti maggiormente esposti alla workaholism sono coloro i quali vivono in un ambiente lavorativo che rinforza sistematicamente alcuni tratti di personalità.

Allo stesso modo, Liang e Chu, nel 2009, hanno sviluppato un modello che individua tre principali antecedenti della workaholism: tratti di personalità, incentivi personali e incentivi organizzativi. Tali approcci teorici assegnano un ruolo cruciale agli ambienti organizzativi che spronano o obbligano i dipendenti a lavorare sodo,  riconoscendo nella combinazione di tratti di personalità e ambiente, gli elementi prodromici nella determinazione della workaholism, nella quale l’organizzazione lavorativa fungerebbe da fattore di innesco (Mazzetti et al., 2014).  

In linea con quanto appena descritto,  la workaholism può svilupparsi quando i dipendenti percepiscono che il lavorare oltre l’orario di lavoro anche a casa, nei fine settimana o durante le vacanze, sia considerata una condizione indispensabile per il successo e l’avanzamento di carriera. La combinazione di questi valori percepiti da parte dei dipendenti  nel loro ambiente di lavoro è descritta, nello studio di Mazzetti, col termine overwork climate, ovvero la percezione di un clima organizzativo in cui è richiesto un maggior sforzo lavorativo per il raggiungimento del successo.

L’overwork climate sembrerebbe favorire la dipendenza da lavoro, soprattutto tra gli impiegati in possesso di caratteristiche individuali, quali: motivazione al successo, perfezionismo, elevate coscienziosità e autoefficacia. Poichè la letteratura internazionale descrive la workaholism come l’interazione di caratteristiche individuali e fattori ambientali e dal momento che, si sa poco circa l’impatto congiunto di questi due fattori, lo studio di  Mazzetti, Schaufeli e Guglielmi del 2014 ha indagato l’interazione esistente tra l’ overwork climate, l’organizzazione e le caratteristiche individuali  nello sviluppo della workaholism. Lo studio pioneristico, è partito dall’ipotesi secondo la quale, essendo le caratteristiche personali piuttosto stabili nel tempo, esse agirebbero come moderatori che amplificano l’impatto dell’ overwork climate sulla workaholism.

I dati sono stati raccolti su un campione olandese di 333 dipendenti, reclutati da un’agenzia olandese mediante l’invio elettronico di una newsletter. Il clima overwork è stato misurato utilizzando una scala composta da otto item che misurava la percezione degli impiegati rispetto al clima e alle richieste dell’ambiente lavorativo, creata appositamente per lo studio (Mazzetti et al, 2014).  La motivazione al successo è stata misurata utilizzando dieci item presi dalla versione breve della Ray Achievement Motivation Scale (Ray, 1979). Il Perfezionismo è stata valutato costruendo una scala che comprendeva otto item legati al lavoro (ad esempio: Mi sforzo di fare il mio lavoro perfettamente), ed è stato valutato con  5 punti Likert (1 fortemente in disaccordo; 5 fortemente d’accordo ). Questa scala si proponeva di valutare il perfezionismo positivo, così come definito da Frost e collaboratori (1993).

La Coscienziosità è stata valutata utilizzando la scala sulla coscienziosità presa dalla traduzione olandese del Big Five Inventory (Denissen et al., 2008). L’autoefficacia è stata misurata utilizzando una scala costruita sulla base del concetto ideato da Bandura (2012) composta da cinque item: (ad esempio: Al lavoro, io raggiungo il mio obiettivo, anche quando le situazioni sono imprevedibili) valutate su una scala Likert a 5 punti (1 fortemente in disaccordo, 5 molto d’accordo). Ed infine, la Workaholism è stata misurata utilizzando i 10 item della Work Addiction Scale olandese (DUWAS; Schaufeli et al., 2009), che includeva due sottoscale: lavorare compulsivamente (ad esempio, ho la sensazione che ci sia qualcosa dentro di me che mi spinge a lavorare sodo) e lavorare eccessivamente (Ad esempio, mi sembra di andare in fretta e di corsa contro il tempo). Entrambe le sottoscale consistevano di cinque item valutati su una scala a 4 punti di frequenza che va da 1([Quasi] mai) a 4 ([quasi] sempre).

I risultati derivanti dalle analisi statistiche hanno pienamente sostenuto le ipotesi degli autori dimostrando che l’interazione tra overwork climate e le caratteristiche individuali sono legate alla workaholism. Più in particolare, i risultati hanno rivelato un aumento significativo della workaholism quando i dipendenti che possedevano le caratteristiche individuali predisponenti la dipendenza da lavoro, percepivano un overwork climate nei loro luoghi di lavoro. Inoltre, la coscienziosità e l’autoefficacia risultavano correlate alla workaholism, ma solo in presenza dell’interazione con la percezione del overwork climate. Questi risultati contribuiscono alla concettualizzazione sulla workaholism dimostrando empiricamente che un ambiente professionale caratterizzato da un clima organizzativo con delle eccessive richieste può favorire la dipendenza da lavoro, soprattutto per coloro i quali mostrano un elevata motivazione alla realizzazione, al perfezionismo, alla coscienziosità e all’autoefficacia.

Gli autori, individuano una serie di limiti nel loro studio. Il primo tra tutti riguarda proprio le scale utilizzate per la misurazione dei costrutti individuali: molte di esse, infatti, andrebbero convalidate e standardizzate in nuovi studi. In secondo luogo, tutti i dati si sono basati su un disegno trasversale, pertanto sarebbe utile effettuare ulteriori ricerche utilizzando un disegno longitudinale per comprendere meglio le relazioni casuali esistenti tra l’ overwork climate, le caratteristiche individuali e la workaholism. In terzo luogo, i dati sono stati ottenuti interamente da questionari autosomministrabili pertanto, le ricerche future dovrebbero adottare una approccio multimetodo, basato sulla raccolta di questionari autosomministrati, interviste o pareri di colleghi così da ottenere dati più robusti ed eterogenei. Infine, il reclutamento telematico del campione può creare dei bias nella stratificazione del campione quindi, potrebbe essere utile utilizzare più canali per la selezione dei partecipanti, in ricerche future.    

Malgrado alcuni dei limiti individuati, gli autori sostengono l’utilità dei loro risultati per la progettazione di interventi finalizzati ad impedire la promozione e la riacutizzazione della workaholism. Potrebbe essere più utile per le organizzazioni, ad esempio, creare un ambiente che non premi il lavoro correlato ad un comportamento compulsivo, piuttosto sensibilizzare i manager e i dirigenti, quindi le categorie più vulnerabili alla workaholism, a promuovere una serie di modelli comportamentali che favoriscano un equilibrio tra lavoro e vita sana, stimolando un lavoro intelligente ed efficace ma sicuramente meno estenuante.

Potrebbe essere estremamente proficuo se l’organizzazione fornisse dei feedback positivi ai suoi dipendenti, non tanto rispetto al tempo speso per quel lavoro ma, su strategie di gestione del tempo che rendano il lavoro più produttivo (Holland, 2008). Ed infine, promuovere la creazione di un clima organizzativo nel quale i dipendenti possano lavorare serenamente raggiungendo gli obiettivi previsti, ma anche godere delle attività extra lavorative.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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