expand_lessAPRI WIDGET

Meglio il dolore o la solitudine?

E' difficile per le persone rimanere sole con i propri pensieri perchè siamo evoluzionisticamente portati a porre attenzione all'esterno anzichè all'interno

Di Chiara Manfredi

Pubblicato il 27 Gen. 2015

Mentre per alcuni può essere rilassante pensare ad altro, lasciare andare la mente, ricordare situazioni piacevoli, altre persone possono sentirsi sopraffatte dai loro stessi pensieri e dalle loro stesse emozioni.

Da un punto di vista relazionale, il dilemma si coniuga nella scelta tra essere single o essere in relazioni poco sane, relazioni dolorose o maltrattanti. È quello che spesso capita a persone con tratti dipendenti, che possono preferire relazioni faticose e negative alla sensazione disarmante di essere soli in un mondo pericoloso che non si sa affrontare e decifrare senza nessuno a fianco.

Se invece la intendiamo in un senso percettivo, allora possiamo chiederci cosa succede nel nostro cervello nel momento in cui chiudiamo la porta a tutti gli input che ci arrivano continuamente dall’ambiente in cui viviamo, e restiamo, appunto, soli.

In inglese esistono due parole per descrivere questa condizione, una che fa riferimento alla situazione oggettiva di solitudine (aloneness, essere da soli) e una che fa riferimento a una sensazione di abbandono/solitudine (loneliness, essere soli).

Mentre alcune persone possono trovare sollievo dalla possibilità di chiudere tutti i collegamenti con l’esterno, altri possono avere difficoltà a rimanere davvero soli, e da questa difficoltà ha probabilmente preso linfa il successo dei social network che in qualche modo ci permettono di non essere mai davvero soli (se non lo vogliamo) e di poter interagire con altre persone rimanendo in presentia anche se lontani e in pantofole.

Mentre, quindi, per alcuni può essere rilassante pensare ad altro, lasciare andare la mente, ricordare situazioni piacevoli, altre persone possono sentirsi sopraffatte dai loro stessi pensieri e dalle loro stesse emozioni.

Questo è il punto da cui è partito un gruppo di psicologi dell’Università della Virginia, che hanno collezionato 11 studi (ora pubblicati su Science), in cui veniva richiesto ai soggetti di passare da 6 a 15 minuti in compagnia dei propri pensieri.

Nei primi 6 studi, il 58% dei partecipanti ha valutato questo compito sopra il punteggio medio di difficoltà (abbastanza difficile). Inoltre, da segnalare che due dei partecipanti sono stati esclusi perché nel momento in cui lo sperimentatore lasciava da solo il soggetto, in un caso uno ha utilizzato una penna per stendere una lista di cose da fare al termine dell’esperimento, e nell’altro un soggetto ha usato un foglio dimenticato dallo sperimentatore per fabbricare origami.

Sembra proprio che fermi si faccia fatica a stare. Durante il settimo studio è stato richiesto ai partecipanti di portare a termine lo stesso compito (rimanere soli con i propri pensieri) a casa, e il 32% ha dichiarato di fare ricorso a fattori distraenti (come lo smartphone o la musica).

Nello studio più arduo, ai partecipanti è stata data la possibilità di auto-somministrarsi brevi scosse elettriche durante il periodo in cui erano lasciati soli con i propri pensieri, dopo aver sperimentato la sensazione della scossa all’inizio dell’esperimento. Nonostante alcuni avessero dichiarato di essere disposti a pagare per non ricevere più alcuna scossa, un quarto delle donne e due terzi degli uomini hanno deciso di procurarsi scosse una volta lasciati soli. Si segnala in particolare un soggetto che si è dato 190 scosse in 15 minuti.

Timothy Wilson, il primo autore di questa serie di studi, ha ipotizzato diversi fattori che possono ostacolare la possibilità di rimanere semplicemente soli con i propri pensieri.

Forse i partecipanti non sapevano su cosa lasciare scorrere la loro attenzione? Probabilmente no, visto che non si riscontravano differenze se veniva o non veniva richiesto loro di concentrarsi su un particolare tema/argomento.
Forse la tecnologia ci sta spegnendo la fantasia? No, visto che i risultati raccolti non erano in nessun modo correlati all’età o all’uso di smartphone e social network. Giustamente, Wilson ipotizza che questo uso massiccio della tecnologia sia più una conseguenza che non una causa della nostra incapacità a stare soli.

Così, Wilson ha appoggiato l’ipotesi secondo cui, essendo abituati da secoli per la nostra stessa sopravvivenza a scansionare continuamente l’ambiente esterno in cerca di potenziali pericoli, può essere atipico focalizzare la nostra attenzione solo sull’interno, e può risultarci difficile perché non ne siamo abituati.

Uno degli sviluppi futuri della ricerca riguarda proprio l’abitudine, cercando di capire quanto sia possibile imparare a stare da soli e a concentrare la nostra attenzione sull’interno anziché sugli stimoli che arrivano da fuori.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La solitudine: cartina tornasole della nostra identità

 

BIBLIOGRAFIA:

Si parla di:
Categorie
SCRITTO DA
Chiara Manfredi
Chiara Manfredi

Teaching Instructor presso Sigmund Freud University Milano, Ricercatrice per Studi Cognitivi.

Tutti gli articoli
ARTICOLI CORRELATI
WordPress Ads
cancel