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Leonard Cohen: Guarire dalla Depressione Cronica: quando Leonard iniziò a ignorare Cohen

Leonard Cohen. Quando Leonard iniziò a ignorare Cohen. Dopo tanti tentativi nel 1999 la depressione di Leonard Cohen scomparve spontaneamente

Di Gaspare Palmieri

Pubblicato il 06 Feb. 2013

Aggiornato il 11 Nov. 2016 11:27

Quando Leonard iniziò a ignorare Cohen. Dopo tanti tentativi, nel 1999 la depressione di Leonard Cohen scomparve spontaneamente.

Like a bird on a wire,
like a drunk in midnight quier,
I have tried in my way to be free…

(Leonard Cohen, Bird on a wire, 1968)

 

Ci ha provato davvero in tanti modi a liberarsene, ma nel 1999, dopo circa cinquant’anni di sofferenze e tentativi di cure, la depressione di Leonard Cohen, settantanovenne poeta, scrittore, ma soprattutto cantautore canadese di origine ebrea, scomparve spontaneamente.

In un’intervista del 2001 ha raccontato:

“Mi ricordo che mi svegliavo al mattino e mi sedevo in un angolo della mia cucina, che ha una finestra sulla strada. Guardavo il sole che splendeva sui paraurti cromati delle auto e pensavo che era davvero bello. Pensavo che per la prima volta percepivo quello che anche gli altri percepivano. La vita divenne più semplice e lo sfondo di continua autoanalisi che mi aveva accompagnato per tanto tempo scomparve”.

Apparentemente la cura fu semplice: imparare ad ignorarsi.

“Quando smetti di pensere a te stesso tutto il tempo, sei invaso da una sorta di pace. A me è successo in modo impercettibilmente progressivo e davvero non riuscivo a crederci. Mi sembrava ci fosse qualcosa che non andasse! E’ come quando bevi un bicchiere di acqua fresca quando sei assetato: ogni molecola del tuo corpo ti ringrazia”.

Non è la prima volta che mi succede di sentire racconti di questo tipo, anche se non bisogna correre il rischio di incappare nel semplicismo. Capita infatti spesso di sentire i famigliari di una persona depressa incoraggiare il proprio congiunto, invitandolo a smettere di pensare solo a sé stesso e alla propria malattia, o magari di consigliargli di fare del volontariato, perché “C’è sempre qualcuno che sta peggio di te!”, che non ha da mangiare (soprattutto in Africa) o che ha malattie fisiche come tumori, amputazioni o altre menomazioni. Di solito questo tipo di consigli, nella persona veramente depressa non funzionano, anzi possono sortire l’effetto contrario in quanto il depresso si sente ulteriormente colpevolizzato.

In Leonard Cohen la situazione sembra diversa. Pare infatti che dopo decenni di cure (antidepressivi) e tentativi di autocure (arte, donne, alcol, droghe, zen), il sistema depressivo si sia inceppato, con una sorta di guarigione “per disperazione”.

Alcuni studi condotti negli Stati Uniti, dove i disturbi dell’umore sono endemici (almeno un americano su cinque ha sofferto almeno una volta di un episodio depressivo durante la vita), hanno mostrato come circa il 30%  dei casi di persone affette da depressione cronica vada incontro a una remissione dei sintomi in età avanzata. I ricercatori hanno invece individuato tra i fattori favorenti il perpetuarsi del disagio il fumo, l’obesità, l’inattività fisica, la scarsa rete sociale e le malattie fisiche (Byers et al., 2012).

La depressione di Leonard Cohen

Ogni giorno, ogni mattina me la trovo davanti e cerco di affrontarla” ha raccontato in un’altra intervista il cantautore riferendosi alla propria “tempesta nel cervello”, come la definiva lo scrittore americano William Styron (1996).

Nel 2008 in concerto a Ginevra, presentandosi al pubblico con la consueta ironia dark, ricordò di essere stato nella capitale elvetica quindici anni prima, quando, sessantenne, era solo “un ragazzino con un sogno folle” e di avere assunto nel frattempo un sacco di psicofarmaci (fluoxetina, paroxetina, bupropione, metilfenidato) e di avere studiato religioni e filosofie.

Pare che la depressione di Cohen sia esordita nell’ adolescenza, in seguito alla perdita prematura del padre. Anche la madre soffriva di un disturbo dell’umore. La figura materna è stata descritta nelle biografie come estremamente possessiva e con un’attitudine a tenere legato il figlio a sè con sensi di colpa indotti.

Questo potrebbe avere condizionato il rapporto di Leonard Cohen con le donne, caratterizzato da estrema difficoltà a mantenere una relazione stabile. Aveva sempre bisogno di una relazione, ma portava ogni relazione al punto di rottura, alle compagne chiedeva una presenza costante che spesso non era in grado di ricambiare, chiedeva attenzioni fisiche, ma voleva disporre della sua libertà. Era depresso, vulnerabile, ma usava il suo fascino come un coltello a serramanico (Nadel, 2011).

La depressione che ha descritto nelle interviste aveva caratteri clinici gravi: anedonia, problemi di funzionamento sociale, abuso di alcol e droghe. I medici consultati gli hanno prescritto diversi antidepressivi, compresi gli iMAO e gli stabilizzatori dell’umore, che solitamente vengono considerati nelle depressioni resistenti. Con la fluoxetina si sentiva migliorato perchè aveva perso l’interesse spasmodico per le donne, onde accorgersi che si trattava solo di un effetto collaterale sulla libido. Un giorno, apparentemente senza l’assenso dello psichiatra, decise di smetterle le medicine provando altre strade più legate alla spiritualità.

Nonostante abbia sempre dichiarato la propria appartenenza all’ebraismo, ha spesso lamentato la mancanza, nella religione dei suoi padri, di una dimensione meditativa, che ha poi cercato altrove.

Leonard Cohen e il Buddismo zen

Tiziano Terzani.
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Alla fine degli anni sessanta c’era stato infatti l’importantissimo incontro con  il missionario del buddismo zen giapponese Roshi, da cui scaturì una frequentazione più che trentennale del suo monastero sul monte Baldy, vicino a Los Angeles. Negli anni novanta il cantautore si trasferì per tre anni nel monastero e nel 1996 venne ordinato monaco con il nome di Jikan, il silenzioso. Il ritiro buddista, seppure scandito da alzatacce all’alba, lunghe meditazioni, passeggiate a piedi nudi sulla neve, non mancava di qualche privilegio in stile holliwoodiano per Leonard Cohen, per il quale le donne, il sakè e le sigarette erano ammesse, seppure solo in dosi moderate.

Di questi tempi” raccontò in un’intervista di quel periodo, con evidente attitudine meditativa, “la mia unica necessità è prendere nota di tutto. Non mi sento un musicista o uno scrittore. Sono solo una voce, un diario vivente”.

C’è uno schema che emerge nel percorso esistenziale di Cohen fin dalla giovane età: non appena la vita diventa troppo caotica e affollata, si mette alla ricerca di uno spazio vuoto dove ritrovarsi e ricominciare. Gli è successo con la vita spensierata di Montreal, con la pace mediterranea dell’isola greca di Idra e con il monte Baldy.

La lunga esperienza mistica di Leonard Cohen, oltre ai sicuri benefici sul piano psicologico, gli ha causato parecchie grane sul versante economico, in quanto la sua manager ha approfittato dell’assenza dal mondo materiale per sperperare il suo patrimonio, lasciandolo sull’orlo della bancarotta. Questo evento l’ha però riportato, in età avanzata, a ricalcare i palcoscenici di mezzo mondo, per la gioia dei fan.

Nel caso di Leonard Cohen in cui la depressione è durata per così tanti anni si può forse ipotizzare più un quadro di depressione ricorrente, di distimia o in termini cognitivisti di una organizzazione di significato personale di tipo depressivo (Guidano e Liotti, 1983), che del resto emerge sia nella sua poetica che nel suo modo di cantare che è sempre stato molto profondo, a tratti tetro, impostato su tonalità basse e che negli ultimi dischi acquista toni quasi cavernosi (“La mia voce è diventata più profonda dopo cinquemila sigarette” disse negli anni novanta). Una voce che sembra nascere dal cuore (se si può usare ancora questa parola), che ricorda quella dei mantra dei lama tibetani o dei canti dei cristiano ortodossi, sempre per restare dalle parti dell’oriente.

Per via della sua poetica malinconica è stato considerato il sacerdote artistico del pathos, citato anche da Kurt Cobain, che nella canzone Penny Royal Tea (1993) auspica di trovarsi “nell’aldilà di Leonard Cohen, per singhiozzare in eterno”. Quando alcuni lavori discografici ricevettero negli Stati Uniti diverse critiche rispetto all’essere eccessivamente lugubri, Leonard Cohen propose provocatoriamente alla propria etichetta musicale di vendere delle lamette da barba (a scopo autolesionistico) insieme ai dischi. L’ultimo disco di Leonard Cohen Old ideas (2012) contiene invece la canzone Going home, il cui refrein recita “Going home
 without my sorrow, going home 
sometime tomorrow, going home 
to where it’s better 
than before…”.

Sembra guarito davvero!

https://www.youtube.com/watch?v=BmPUu-rMpWA

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