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Il carcere: breve excursus storico e la sua evoluzione in Italia

Nonostante i cambiamenti, il carcere rimane un’istituzione sovraffollata e spesso violenta, che non sembra così assolvere i fini rieducativi prefissati

Di Alessandra Mosca

Pubblicato il 09 Giu. 2020

La situazione delle carceri italiane sembra ancora stare in un limbo: da un lato si stanno iniziando a prendere provvedimenti per attuare migliorie, ma, dall’altro, sembrano ancora esserci molti problemi che purtroppo non trovano una facile soluzione.

 

 Il carcere nasce nel momento in cui si sente la necessità di allontanare dalla comunità individui che violavano l’ordine della società. In realtà anticamente aveva principalmente la funzione di custodire il reo in attesa della pena prevista per il suo stesso crimine. Il sistema punitivo romano era caratterizzato principalmente da pene private, di tipo pecuniario, o da pene pubbliche, come la fustigazione. In entrambi i casi il carcere fungeva da contenimento per il reo e non come misura coercitiva. Nella società feudale la situazione non muta: la prigione, infatti, rimane un passaggio temporaneo del colpevole in attesa dell’applicazione della “pena del Signore”, unico vero tribunale di quel periodo (Neppi Madona, 1976). In seguito si andranno sviluppando in Inghilterra le prime “workhouse” o “house of correction”, luoghi in cui i reietti della società, venivano rieducati invece che essere sottoposti alle comuni sanzioni dell’epoca.

In realtà bisognerà aspettare il XIX secolo per considerare la reclusione come strumento sanzionatorio principale (Neppi Madona, 1976). Il processo di industrializzazione, a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, porta con sé una trasformazione non solo economica, ma anche politica e sociale. In questo periodo la crescente richiesta di manodopera unita alla nuova sensibilità pubblica inducono un superamento di forme obsolete di punizione che non utilizzano la forza lavoro del condannato. Inoltre questo periodo è caratterizzato da quattro grandi cambiamenti, come riportato da Cohen nel 1985 (citato in Vianello, 2012): il maggiore coinvolgimento dello Stato nel controllo della devianza; lo sviluppo di conoscenze scientifiche legate alla criminalità, che permette la differenziazione dei devianti in diverse categorie; lo sviluppo di istituzioni volte alla segregazione; la percezione di una pena non più volta al corpo ma anche alla mente, che cerca di modificare la personalità del criminale. In questo clima di riforme e di progresso umano e sociale, si inserisce l’evoluzione del penitenziario. Il cambiamento viene favorito anche da pensatori illuministi, tra cui l’italiano Cesare Beccaria, con il suo Dei delitti e delle pene, che permettono il passaggio da un’idea di pena, ormai barbara e antiquata, ad una più umana e moderna, organizzata e centralizzata. Questo passaggio, però, non risulta così lineare ed uniforme; infatti per molto tempo, per mancanza di risorse, e non solo, il carcere rimane un luogo di trascuratezza e squallore (Neppi Madona, 1976). Bisognerà aspettare la seconda metà del XIX secolo per vedere emergere una forma moderna di penitenziario.

Per comprendere questo cambiamento così sostanziale troviamo tre modelli di spiegazione storica individuati da Cohen nel 1985 (citato in Vianello, 2012):

  1. Il modello idealista interpreta la storia come una serie ininterrotta di riforme che, partendo da un mutamento di idee, permettono un progresso. In quest’ottica lo sviluppo di una forma di penitenziario moderna è da ascrivere al cambiamento di sensibilità di quel periodo e alle nuove conoscenze criminologiche sviluppatesi durante l’illuminismo. Iniziano, dunque, ad esserci maggiori conoscenze riguardo la devianza e il comportamento criminale e una nuova visione della giustizia penale, caratterizzata da maggiore razionalità, uniformità e certezza.
  2. Il modello strutturalista vede il mutamento storico legato all’economia politica. In quest’ottica il penitenziario moderno nasce in relazione alla rivoluzione industriale, che comporta una diminuzione di manodopera; questo causa un aumento della disoccupazione e induce grandi masse ridotte in povertà verso il crimine, visto ormai come unica forma di sussistenza. In più lo sviluppo del penitenziario moderno viene anche letto alla luce degli interessi delle classi dominanti che ricercano una soluzione efficace al disordine dilagante. Questa necessità si unisce magistralmente con le idee dei riformatori di quel periodo che ricercano un nuovo modo di “punire”. Il modello strutturalista, dunque, ascrive la nascita del penitenziario moderno alla trasformazione dell’ordine sociale e alle nuove necessità di controllo da parte delle classi dirigenti.
  3. Il modello disciplinare vede la nascita del penitenziario moderno come una risposta al disordine sociale crescente. La prigione diviene una risorsa per mantenere un assetto sociale funzionante. Il carcere, attraverso l’isolamento, permette la correzione del deviante che riesce a re-inserirsi nel contesto sociale e ad essere, dunque, di nuovo accettato da parte della società. Questo mutamento avviene anche grazie alle crescenti conoscenze concernenti la criminalità e la devianza. Nonostante la visione di questo modello, la realtà dei fatti è ben diversa; il carcere, infatti, rimane per lungo tempo una macchina mal funzionante che non riesce nell’intento prefissatosi.

Nonostante i cambiamenti di questo periodo, a cui seguono innovativi obiettivi legati alla funzione della pena, il carcere rimane un’istituzione inefficiente, sovraffollata e spesso violenta, che non riesce ad assolvere i fini rieducativi prefissati (Neppi Madona, 1976). Il mutamento sostanziale, seppur parziale, avverrà nel corso del XX secolo in cui, grazie all’introduzione del welfare state e di programmi riabilitativi, l’istituto penitenziario diviene più flessibile e umano (Vianello, 2012). In linea con questo cambiamento ritroviamo le “regole minime”, indicate dalla Risoluzione ONU nel 1955, che attuano l’articolo 10 del Patto delle Nazioni Unite, il quale sostiene che ogni

individuo privato della propria libertà deve essere trattato con umanità e col rispetto della dignità inerente alla persona umana (Vianello, 2012).

Il naturale sviluppo di queste regole si ritrova nelle Regole Penitenziari Europee del 1987, che sottolineano ulteriormente il fatto che la privazione della libertà non deve implicare la privazione della dignità umana. Tutte le persone detenute devono essere trattate con rispetto per i diritti dell’uomo; le condizioni detentive devono avvicinarsi alle condizioni di vita nella società libera; bisogna promuovere il reinserimento dei detenuti nella società e favorire la cooperazione con i servizi sociali esterni (Vianello, 2012). Questi sono solo alcuni dei principi, che hanno come fine ultimo quello di rendere la detenzione una vera e propria riabilitazione e non una mera coercizione di corpi.

Questo breve excursus storico si applica anche al nostro Paese che, dopo l’Unità del 1861, inizia un lungo percorso di umanizzazione della pena. Un grande impedimento alla modernizzazione del carcere è rappresentato dal periodo fascista e dal Codice Rocco del 1930 (Neppi Madona, 1976). Il regolamento Rocco è caratterizzato da una netta separazione tra il mondo carcerario e il mondo esterno ed i detenuti vengono isolati e identificati con il numero di matricola. Il carcere si ripropone ancora una volta come un’istituzione chiusa all’esterno, isolata dal resto del mondo, in cui non si punta alla ri-educazione, ma unicamente alla segregazione. Questa situazione inizia lentamente a cambiare dopo la seconda guerra mondiale, anche grazie alle regole minime imposte dall’ONU nel 1955 finché non si giungerà alla riforma penitenziaria del 1975 (Vianello, 2012). La legge del 26 luglio 1975 n. 354, composta da novantuno articoli, è suddivisa in due parti, una relativa al trattamento penitenziario e una riguardante l’organizzazione carceraria. Nel settembre del 2000 è entrata in vigore la legge 230/2000 come disciplina esecutiva del regolamento del 1975 (Vianello, 2012). Questo nuovo regolamento presta grande attenzione ai diritti dei detenuti, soprattutto quelli di tipo affettivo, ma anche alle condizioni igienico-sanitarie e all’attività lavorativa con il coinvolgimento di strutture esterne. Nonostante il regolamento penitenziario italiano sia estremamente positivo, questa legge rimane, purtroppo, una legge manifesto: nella realtà difficilmente queste regole vengono applicate. Si nota spesso una grande incongruenza all’interno delle carceri italiane in quanto, nonostante il regolamento cerchi di umanizzare le strutture penitenziarie, ci ritroviamo di fronte a istituti detentivi che puntano ad attuare una rieducazione del reo o all’utilizzo di percorsi alternativi alla detenzione in maniera solo parziale (Vianello, 2012).

Il regolamento penitenziario italiano, approvato nel settembre del 2000, si apre con l’articolo 1, che al comma 1, afferma che

il trattamento degli imputati sottoposti a misure privative della libertà consiste nell’offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali,

e continua, nel comma 2 affermando che

il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale (Legge 230, 2000).

Nonostante l’ottima impostazione della legge, almeno dal punto di vista degli ideali, la situazione in Italia risulta estremamente problematica e questo viene bene evidenziato dal XV rapporto dell’Associazione Antigone (Associazione Antigone, 2019). L’associazione sottolinea come uno dei problemi principali delle carceri italiane rimanga il sovraffollamento, tanto che, nel 2019, i detenuti erano ben 60.439, per un tasso di sovraffollamento pari al 120%, uno dei più alti in Europa, nonostante vi sia stato un calo dei reati.

Un’altra problematica dell’Italia è legata ai detenuti in custodia cautelare che continuano a crescere negli anni, fino ad un totale di 9.565 al 31 dicembre 2018, ovvero il 32,8% dei detenuti risulta in attesa di una sentenza definitiva. È importante sottolineare come nel 2017 nel 60,4% dei casi di suicidio il soggetto era privo di una condanna (Associazione Antigone, 2019). Un dato sicuramente eclatante è quello legato ai suicidi, il 2018, infatti, si è chiuso con 67 suicidi; era dal 2009 che non si registrava un dato simile. In concomitanza con questo dato bisogna considerare come altri eventi critici, quali il malessere, atti di autolesionismo, atti di contenimento, tentati suicidi, manifestazioni di protesta individuale e collettive, sono in aumento dal 2015. Sono in aumento, inoltre, anche gli atti di aggressione tra detenuti e contro il personale di polizia penitenziaria, le infrazioni disciplinari e l’isolamento disciplinare. In date 31 dicembre 2017, i detenuti tossicodipendenti erano 14.706 su una popolazione di 57.608, ovvero un 25,53%.

Infine, risulta opportuno sottolineare le richieste d’aiuto fatte dai detenuti al Difensore Civico di Antigone. Le segnalazioni sono relative alla mancanza di vari diritti, tra cui alla salute, alla territorialità, al lavoro, alla formazione, alla studio e così via. Altre problematiche sono ovviamente legate al sovraffollamento degli spazi detentivi ma anche alle violenze da parte della polizia penitenziaria (Associazione Antigone, 2019). La situazione italiana sembra ancora stare in un limbo: da un lato si stanno iniziando a prendere provvedimenti per attuare migliorie ma, dall’altro, sembrano ancora esserci molti problemi che purtroppo non trovano una facile soluzione.

 

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