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La Sindrome degli Hikikomori: Il signor Cravatta di Milena Michiko Flasar – Recensione

Un libro che racconta degli hikikomori giapponesi attraverso l’incomunicabilità di queste persone: un romanzo malinconico con una luce di speranza

Di Redazione

Pubblicato il 04 Dic. 2014

Aggiornato il 31 Mag. 2017 10:32

Caterina Laria

Un romanzo malinconico, che si conclude con una luce di speranza. Ci ricorda che dietro una diagnosi esiste una persona, con le sue peculiarità che la rendono unica.

In questo suo primo romanzo Milena Michiko Flasar affronta il fenomeno degli hikikomori giapponesi: adolescenti che, pressati dalle elevate richieste del mondo esterno (scuola, genitori, società), si ritirano in un isolamento pressoché completo nella loro camera.

Due solitudini si incontrano al parco. Due malinconie si osservano con reciproca diffidenza, sino a diventare insostituibili l’una per l’altra. È la storia narrata da Taguchi Hiro, giovane hikikomori giapponese che dopo due anni di reclusione nella sua camera per la prima volta esce di casa e cammina per la strada. Inquietato dal quel mondo che aveva lasciato fuori dalla porta, trova sollievo sulla panchina di un parco. Qui incontra il salaryman Ohara Tetsu, un tipico impiegato in giacca e cravatta intento a consumare il pranzo nel caratteristico bentō. Il tempo passa e il “Signor Cravatta” rimane sulla panchina, anziché rientrare nell’ufficio dove si suppone debba tornare.

Il ragazzo inizia a osservarlo con cauta curiosità, comprendendo che le loro presenze sono entrambi fuori posto: cosa ci fa un impiegato al parco, durante quello che dovrebbe essere il suo orario di lavoro? E poi, cosa ci fa nel “mondo esterno” lui stesso, che in quanto hikikomori dovrebbe starsene rintanato in camera sua?

«Nel parco lui era l’unico salaryman. Nel parco io ero l’unico hikikomori. C’era qualcosa che non quadrava in noi due. Lui avrebbe dovuto essere nel suo grattacielo, io avrei dovuto starmene nella mia stanza, fra quattro mura.»

Ad avvicinare i due protagonisti è il filo di fumo di una sigaretta. Iniziano a scoprirsi a vicenda e a diventare l’uno il confidente dell’altro. Così diversi fuori, così simili nel loro vivere su uno sfondo di incomunicabilità: Taguchi racconta cosa lo ha portato all’isolamento e raccoglierà la confessione di Ohara che non ha il coraggio di dire alla moglie di essere stato licenziato. La panchina è ormai solo un pretesto, nei giorni di pioggia si daranno appuntamento in una caffetteria con sottofondo di musica jazz, arrivando carichi di aspettative e voglia di raccontarsi.

Taguchi ci rivela di essere un hikikomori un po’ diverso dagli altri: «Non leggo manga, non passo la giornata davanti al televisore o la notte al computer. Non costruisco modellini di aeroplani. I videogiochi mi fanno stare male. Niente deve distogliermi dal tentativo di proteggermi da me stesso.» E se fosse un hikikomori anche il Signor Cravatta, che ha rifuggito la vita isolandosi nel suo lavoro?

Il libro inizia in maniera molto lenta e accidentata; verrebbe quasi voglia di lasciar perdere. Ma oltrepassata questa fase, ci si rende conto che è la stessa difficoltà che hanno i protagonisti. L’incomunicabilità, la paura di tradire i nostri cari mettendoli al corrente di un fallimento, la vergogna di vergognarsi, la sofferenza.

Le vicende dei protagonisti si snodano poco a poco, come matassine troppo delicate per poter essere srotolate i colpo. Durante la lettura si vive quella sensazione dolceamara di essere testimoni di un’interazione osservata da lontano, come se si fosse seduti su un’altra panchina del parco. C’è un senso di lieve malinconia, voglia di sapere come andrà a finire desiderando allo stesso tempo che la storia non finisca così in fretta.

Un romanzo malinconico, che si conclude con una luce di speranza. Ci ricorda che dietro una diagnosi esiste una persona, con le sue peculiarità che la rendono unica.

 

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