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Neuroscienze e Psicologia: Intervista a Cristiano Castelfranchi

Intervista al Professor Castelfranchi, direttore dell'Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione -CNR, a Roma e docente universitario

Di Ursula Catenazzi, Sara Della Morte, Giuseppina Di Carlo

Pubblicato il 26 Apr. 2012

 

Neuroscienze e Psicologia: Intervista a Cristiano Castelfranchi.
Cristiano Castelfranchi, docente di Scienze Cognitive all'Università di Siena, e direttore dell'Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione

Abbiamo incontrato il Professor Cristiano Castelfranchi, docente di Scienze Cognitive all’Università di Siena, e direttore dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione -CNR, a Roma. L’attività di ricerca del Prof. Castelfranchi abbraccia diversi campi della psicologia e spazia dai Sistemi Multi-agente, alle Simulazioni Sociali e alle Scienze Cognitive.

 

D.: La Psicologia ha dei modelli ancora primitivi, per usare le sue parole. Secondo lei quale direzione dovrebbe prendere la ricerca per creare modelli migliori del funzionamento della mente?

Il problema dei modelli della psicologia è che non c’è sufficiente attenzione all’analisi sistematica dei concetti e una approfondita discriminazione tra essi e la ricerca di modelli operazionali. Operazionali vuol dire che i processi implicati e i costituenti postulati sono definiti in modo disambiguo, in maniera computazionale, implementati ingegneristicamente, sui computer, simulati, resi espliciti. Facendo attenzione al rischio di un eccessivo “senso comune” dei concetti. Ad esempio per modellare la “Fiducia” devi fare prima un lavoro analitico e sistematico su cosa centralmente significa, i vari tipi, i sottotipi, lo stesso per il “Senso di Colpa”: cosa esattamente significa, qual è quello veramente tipico, qual è un abuso del termine e via dicendo. In psicologia non c’è molta pazienza per questo tipo di lavoro analitico. Lo si prende per un lavoro da filosofi, invece il lavoro sulla teoria è fondamentale, in caso contrario si avranno sempre modelli “abborracciati” o puramente induttivi, cioè desunti a posteriori dalle correlazioni tra i dati empirici. E’ chiaro che il dato empirico è fondamentale per validare e sviluppare il modello, ma non puoi desumerlo e costruire la teoria dalle correlazioni tra dati empirici.

Un’altra direzione inevitabile è rapportarsi alle neuroscienze. I modelli di psicologia per essere validi dovranno trovare corrispondenza nei processi cerebrali e in generale corporei. Tuttavia le neuroscienze ad oggi procedono in modo ancora più grezzo e pretendono di trovare dei correlati immediati di fenomeni comportamentali o psicologici, facendo un lavoro di localizzazione, che dice quasi nulla. Fa una specie di mappatura geografica del cervello: qui sta la fiducia, qui sta la paura, qui sta la previsione, qui sta la pianificazione. Non si chiede: in che consiste il processo di pianificazione? Perchè si attivano queste aree e non queste altre? Questo si può fare solo con modelli molto articolati, che la psicologia dovrebbe fornire e con un riscontro in chiave cerebrale di questi modelli articolati, di sottofunzioni e sottomeccanismi che vengono identificati.

Queste due direzioni, lavoro teorico più serio, modelli computazionali e simulati e loro corrispettivo neurale sono quelle verso cui la psicologia si dovrebbe sviluppare.

 

D.: Lo sviluppo di queste due direzioni che vantaggi potrebbe avere dal punto di vista clinico?

L’analiticità in clinica dovrebbe dare l’anatomia su cui si lavora. Se non conosco le componenti di un determinato fenomeno, quali sono le strutture retrostanti implicate, i micro meccanismi nascosti, non so esattamente su che cosa opero. E magari vedo, per tradizione, una o due manovre possibili, quando invece ne potrei fare dieci diverse andando a incidere sulle specifiche sottoparti e i sotto meccanismi di quel processo o rappresentazione mentale.

 

D.: Un intervento più mirato, più efficace…

Forse più efficace, ma con maggiore consapevolezza dei meccanismi in ballo e di cosa vado a toccare e vado a cambiare. Ovviamente non con una visione atomistica sommatoria, con la consapevolezza che se un fenomeno implica 5 componenti, queste hanno dei rapporti tra loro, in una dialettica interna, non sono una somma, separate. Sono una molecola, una struttura organica. Quindi hanno delle proprietà collettive e interferiscono l’una con l’altra.

 

D.: Cambiando un po’ argomento… lei ha detto che la società sembra proceda verso una fobia della sofferenza e che richieda all’individuo di essere sempre attivo, un ideale dell’uomo “cocainomane”

Una delle ragioni è il sistema economico attuale. In cui c’è un’enfasi fortissima alla produttività e alla produzione ed ogni aspetto della vita umana è sottoposto e reso strumentale allo sviluppo e all’andamento economico. Una volta eravamo prima di tutto produttori, adesso siamo prima di tutto consumatori. L’imperativo tassativo è “consumare, consumare, consumare” e “produrre, produrre, produrre”. Il tuo valore dipende da questo. Il tuo esito sociale dipendo da questo. L’andamento della società dipende da questo. C’è una coazione disperata a rendere ogni aspetto della vita produttivo, incoraggiare gli atteggiamenti, le competenze, i vissuti e le emozioni in chiave produttiva. Un cambiamento culturale spettacolare negli anni: nell’Ottocento esisteva la forza lavoro, il capitale era le macchine, il denaro, le proprietà e il capitale umano: la forza lavoro. Poi il capitale è diventato la conoscenza, un capitale cognitivo.

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Il patrimonio cognitivo e il capitale cognitivo dell’azienda come parte qualificante, quello che contava era la conoscenza. Quindi il problema del manager era la gestione della conoscenza, come tirarla fuori, farla circolare, come renderla patrimonio collettivo. Adesso non basta più, la conoscenza e il saper fare, i cosiddetti patrimoni untangibles, adesso conta anche la motivazione, l’umore. Diventa un problema dello stesso mondo capitalistico “la tua felicità”, diventa un indice importante non solo la misura del benessere, ma anche quella della felicità, il volere motivare in questa direzione. Tutto questo ha due facce, una positiva che fa una visione più completa ed equilibrata del benessere, una, preoccupante, che individua fattori diretti di produzione economica fattori del tutto personali e privati, come gli stati dell’umore, le conoscenze, le motivazioni. C’è un’ingerenza potentissima nel nostro sviluppo personale, subordinato agli interessi generali e allo sviluppo della ricchezza nel senso di denaro, di mercato. Questa è la ragione di questa strana “pompatura” in certe direzioni produttive della vita. Poi ci sono gli aspetti culturali, che non dipendono da quelli economici. E’ certamente impressionante che ci sia questa rimozione degli aspetti dolorosi della vita, il lutto, che la comunità non voglia comunicare spazio e attenzione alla morte, al supporto del lutto, alla memoria, che non voglia supportare le persone che stanno male, che bisogna sbrigarsi rapidamente ad uscirne.

Dovremmo interrogarci su questo, gli psicologi soprattutto; stiamo adottando un ideale di vita deformato, strano, anomalo, in cui “lo star bene veramente” si traduce con uno stato dell’umore non solo piacevole, ma anche attivo e motivato. Una volta non era così, il sentimento più positivo era la serenità, la letizia della vita contemplativa, non attiva, “gasata”. Dovremmo preoccuparci di questi cambiamenti culturali, tanto più se nell’immaginario si diffonde inconsciamente che soffrire, avere dolore, star male, stare in pena è una cosa da sgombrare, da mandare via, è patologico, qualcosa da curare. No! E’ un equivoco, non è che star bene di mente è stare lieti e motivati. Uno può essere molto contento, molto lieto, molto gasato ed essere da ricovero coatto. La letizia è giustificata dagli eventi, dai fatti? O è uno stato dell’umore improprio e delirante? Non è la qualità dell’umore che lo rende sano o non sano, ma la sua appropriatezza e pertinenza. Anche lo psicologo deve stare attento alla richiesta che gli viene fatta e a questi stereotipi culturali e deve domandarsi se lo stato dell’umore sia cattivo in sé perché la persona sta male o perché sia effettivamente fuori luogo. Se lo prova su pensieri infondati, in circostanze, con modalità, con intensità inappropriate o se non è in grado di provare certi stati dell’umore auspicabili.

 

D.: Lo psicologo-psicoterapeuta dovrebbe allontanarsi da questo tipo di valori della società?

Dovrebbe avere la capacità di porsi a un metalivello, di osservare se stesso e la propria professione e la domanda che la società gli pone da fuori, chiedendosi se è giusto il ruolo che gli si attribuisce o se passa da una deformazione culturale e commerciale. Osservare se stesso e la propria professione in maniera critica. Non è facile. Ma in tutte le professioni dovrebbe essere così, anche un insegnante dovrebbe osservarsi da fuori.

 

D.: Un’ultima domanda, se dovesse dare un consiglio allo psicologo-psicoterapeuta moderno, quale sarebbe?

Rivendicare nel modo giusto il proprio ruolo e la propria professionalità. Non confondere il proprio valore, il proprio riconoscimento, il riconoscimento di un setting, che è una pura ritualità, il riconoscimento di certe modalità “devo fare il colloquio chiuso nella stanza, sennò non sto facendo il mio mestiere”, queste sono scempiaggini! E creano grossi problemi nei Servizi. La capacità e la professionalità dello psicologo consiste nella sua modalità di leggere i fenomeni, nel leggere i comportamenti individuali, relazionali e sistemici con chiavi di lettura che gli altri non hanno e sulla base di questo il significato di certi interventi, verbali, affettivi, relazionali o anche pratici. E’ l’unico che ha le chiavi di lettura per un progetto di intervento unitario, che sa mettere insieme l’aspetto sociale e l’aspetto economico, di colloquio. Lì deve rivendicare la sua professionalità, non in cose simboliche e rituali, ma che gli venga riconosciuto che ha gli strumenti interpretativi e di lettura degli interventi e di cosa si può cambiare che gli altri non hanno. Questo gli deve essere riconosciuto esplicitamente, senza delegare ad altre figure competenze sue, non avere come ideale il setting privato e come rivendicazione il colloquio settimanale. Si può essere un grande psicologo e fare un eccezionale lavoro clinico anche andando a casa, accompagnando la persona al bar, vedendo i familiari. Il problema è solo come lo fa.

 

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