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Alessitimia – Definizione Psicopedia

Letteralmente significa non avere parole per le emozioni e indica un insieme di caratteristiche di personalità riscontrabili nei pazienti psicosomatici

Di Redazione

Pubblicato il 23 Dic. 2014

Elisabetta Virginia Marinucci

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

Il termine Alessitimia è stato introdotto  agli inizi degli anni settanta da John Nemian e Peter Sifneos (1976) per definire un insieme di caratteristiche di personalità riscontrabili nei pazienti psicosomatici. Deriva dal greco “Alexis thymos” e letteralmente  significa non avere parole per le emozioni.

Nello specifico Peter Sifneos coniò questo termine per indicare un disturbo delle funzioni affettive e simboliche che spesso rende sterile e incolore lo stile comunicativo dei pazienti psicosomatici.

L’alessitimia si manifesta attraverso una serie di difficoltà rispetto a:

identificare, descrivere e interpretare i propri e gli altrui sentimenti;

distinguere gli stati emotivi dalle percezioni fisiologiche;

individuare quali siano le cause che determinano le proprie emozioni;

utilizzare il linguaggio come strumento per esprimere i sentimenti, con conseguente tendenza a sostituire la parola con l’azione fisica.

Taylor, Bagby e Parker (2000) a tal proposito, hanno considerato l’alessitimia un disturbo dell’elaborazione degli affetti che interferisce con i processi di auto-regolazione e riorganizzazione delle emozioni. Questo potrebbe spiegare la tendenza dei soggetti alessitimici ad assumere alcuni comportamenti compulsivi quali: l’abbuffarsi di cibo, l’abuso di sostanze o il vivere in modo perverso la sessualità per liberarsi dalle tensioni causate da stati emotivi non elaborati.

Solo apparentemente ben inseriti nella società, i soggetti alessitimici assumono una postura rigida, presentano processi immaginativi coartati e tendono ad avere esplosioni di collera o di pianto incontrollato e, se interrogati sui motivi di queste manifestazioni, sono incapaci di dare spiegazioni. Questo perché i  soggetti alessitimici, pur mostrando una normale attivazione fisiologica in presenza di emozioni, hanno ridotte capacità di riorganizzare gli elementi che caratterizzano la loro esperienza corporea in una rappresentazione mentale intrapsichica (Parker J.D.A., Taylor G.J., Bagby R.M. 1993; Kristal H. 2007).

Per molto tempo i tratti alessitimici, poiché altamente riscontrati nei pazienti psicosomatici, sono stati considerati fattori predittivi per lo sviluppo delle malattie psicosomatiche in senso stretto.  Attualmente, invece, studi e ricerche dimostrano che  l’alessitimia è uno dei fattori di rischio per diversi disturbi sia fisici quali coronaropatie, ipertensione, disturbi gastrointestinali (Porcelli P., Bagby R.M., Taylor G.J., De Carne M., Leandro G., Todarello O. 2003) che psicologici: anoressia e bulimia nervosa, depressione, disturbi d’ansia. Caratteristiche alessitimiche sono state individuate anche in pazienti con: dipendenza da sostanze, disturbo post-traumatico da stress, depressione (Honkalampi K, Hintikka J, Laukkanen E, Lehtonen J, Viinamaki H. 2001). Infine l’alessitimia è stata evidenziata nei pazienti cha hanno subito un trapianto, che sono in dialisi o  in terapia intensiva (Porcelli P. 2009).

Diverse teorie neurofisiologiche (Nemiah J.C., Freyberger H., Sifneos P.E. 1976; ·    MacLean PD (1952) Some psychiatric implications of physiological studies onMacLean Paul D. 1952) sono state proposte negli anni per spiegare l’eziologia dell’alessitimia. Gli studi hanno ampiamente dimostrato che  l’emisfero destro è coinvolto maggiormente nell’elaborazione del comportamento emotivo, mentre l’emisfero sinistro è implicato nell’articolazione del linguaggio. Questo fa ipotizzare che l’interruzione della comunicazione interemisferica tramite corpo calloso e un cattivo funzionamento dell’emisfero cerebrale destro possano essere due  possibili cause dello sviluppo dell’alessitimia.

Alcuni studi neurologici (Dizionario di Medicina Treccani, 2010) inoltre, confermano la distinzione tra: Alessitimia di tipo I caratterizzata dall’assenza stessa di esperienza emotiva, e Alessitimia di tipo II che, invece, conserva l’integrità dell’esperienza emotiva da un lato, ma evidenzia un deficit specifico rispetto all’espressione e alla valutazione cognitiva delle emozioni  (Parker JDA, Taylor GJ, Bagby RM. 1993). Questo deficit può essere conseguenza di eventi traumatici o di uno sviluppo inadeguato delle funzioni di mentalizzazione (Kristal H. 2007).

Tutto ciò porta i soggetti alessitimici ad assumere un pensiero operatorio e ad avere una ridotta o inesistente capacità onirica (Marty P., De M’uzan M., David C. 1971).

Paul Mac Lean (1967, 1984) sostiene che quando le emozioni vengono vissute  per via somatica, si incanalano direttamente negli organi attraverso le vie neuroendocrine e autonome. Questo fa sì che i soggetti con tratti di personalità elessitimici abbiano un deficit nel  verbalizzare e interpretare gli stati emotivi che vengono confusi con le sensazioni corporee.

Tra le varie definizioni possibili,  l’alessitimia può essere considerata  un deficit della funzione riflessiva del Sé per la mancanza di consapevolezza emotiva che la caratterizza (Kout H. 1982, 2003). I soggetti che ne soffrono tendono al conformismo sociale e generalmente stabiliscono relazioni di forte dipendenza o, viceversa, preferiscono l’isolamento (Harris J.C. 2003,  Lambert KG, Gerlai R (2003) The neurobiological relevance of social behavior:Lambert K.G., Gerlai R .2003). Questo riconduce a ciò che Winnicott (Winnicott D.V. 1974) definisce stile di attaccamento insicuro- evitante con una immagine materna non interiorizzata.

Da quanto finora detto emerge che l’alessitimia delinea un fenomeno molto articolato, risultato della compresenza di fattori genetici, neurofisiologici , intrapsichici, nonché di modelli di comunicazione  familiare e fattori socioculturali.

Possiamo rintracciare una importante chiave di lettura dell’alessitimia anche  dagli studi condotti da Titchener negli anni venti (Legrenzi P. 1997). Questi infatti non solo osserva che  sin dai primi giorni di vita i neonati  sono turbati dal pianto di un altro bambino, ma rileva che già ad un anno di età i bambini sono capaci di mimetismo motorio per imitare, e verosimilmente comprendere,  la sofferenza degli altri. Tali evidenze porteranno Titchener a considerare il mimetismo motorio il precursore dell’empatia. Questo porta a ritenere che le capacità empatiche si  strutturino nell’individuo già a partire dall’infanzia.

Winnicott, d’altro canto, pone l’accento sulla madre empaticamente sintonizzata come base da cui il bambino può costruire il suo sviluppo emotivo. Al contrario, quando un genitore non riesce sistematicamente a sintonizzarsi con alcune specifiche emozioni del bambino, questi  evita di esprimerle con un costo notevole in termini emozionali (Winnicott D.W. 2000).

Sappiamo infatti che quanto più una persona è consapevole delle proprie emozioni, tanto più riuscirà ad essere empatico. Il retaggio culturale che spinge ad insegnare più favorevolmente  agli uomini capacità pratiche piuttosto che affettive, sembra spiegare il loro maggior numero tra i soggetti alessitimici rispetto alle donne (Pasini A. Delle Chiaie R. Seripa S. Ciani N. 1992; Mattila A. K. , Keefer  K.V. , Taylor J.G.e al, 2010) 2010 | 49 | 3 | 216-221.

Goleman (Goleman D. 1997) sostiene quanto detto individuando proprio nell’empatia e nell’autocontrollo le due fondamentali competenze sociali che consentono di costruire una vita relazionale ricca ed emotivamente soddisfacente alla base del benessere psico-fisico della persona.

Ad oggi il test più diffuso per la diagnosi di alessitima è la TAS-20 (Toronto Alexithymia Scale) del 1985. Questa scala psicometrica di autovalutazione, si compone di 20 items che servono a rintracciare le presenza delle tre caratteristiche principali del distrurbo:

la difficoltà nell’identificare i sentimenti;

la difficoltà nel descrivere i sentimenti altrui;

il pensiero orientato quasi solo all’esterno, e raramente verso i propri processi endopsichisi.

Il Tematic Apperception Test (TAT) di Murray nel 1935 e gli studi di Reusch tra il 1948 e il 1957  evidenziano che i pazienti alessitimici hanno fantasie primitive e stereotipate e confermando la difficoltà dei paziente ad accedere al proprio mondo pulsionale inconscio.

Il  SAT9 (Objective Scored Archetypale Test) è un’altra tecnica proiettiva di disegno che valuta la caratteristica centrale dell’alessitimia: la funzione simbolica e la capacità del soggetto di creare fantasie.

Come già detto l’alessitimia è significativamente correlata a diverse condizioni patologiche di natura psicosomatica e psicologica ma, per una corretta diagnosi differenziale, và distinta dai sintomi negativi della schizofrenia (ottundimento affettivo, alogia, depressione, anedonia..), e considerata un tratto stabile di personalità.

Studi e osservazioni hanno dimostrato infatti che dopo un anno di trattamento psicofarmacologico appropriato, i pazienti schizofrenici vedono migliorate le sindromi schizofreniche e depressive così come il funzionamento psicosociale, mentre le caratteristiche principali dell’alessitimia restano stabili (Blanchard J.J., Mueser K.T, Bellack A.S. 1998). Questo dimostra che l’alessitimia non è in relazione  ai disturbi dell’Asse I ma è legata alle caratteristiche dell’Asse II ed è quindi una dimensione della personalità indipendente dalle categorie psichiatriche.

Una ipotesi è che la schizofrenia e l’alessitimia possano avere gli stessi meccanismi neurobiologici (Stanghellini G, Ricca V. 1995). Studi recenti ostengono la possibilità che una disfunzione della corteccia cingolata anteriore possa essere il meccanismo neurobiologico comune ai deficit cognitivi responsabili sia di alcuni sintomi della schizofrenia che della manifestazione comportamentale dell’alessitimia (Sanders G.S., Gallup G.G., Heinsen H., Hof P.R., Schmitz C. 2002).

Da un punto di vista terapeutico, si evidenzia la necessità di ristrutturare la sfera cognitivo-affettiva della personalità. Le esperienze cliniche finora raccolte sottolineano l’importanza di un trattamento che integri l’approccio farmacologico con quello psicoterapeutico con l’intento di intervenire sinergicamente sia sulla struttura neurobiologica che sui fattori di matrice psicosociale (Bateson G. 1972, Marty P., De M’uzan M., David C. 1971; Caretti V., La Barbera D. 2005).

 

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BIBLIOGRAFIA:

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