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Genetica & Psiche

La vecchia dicotomia tra ereditarietà e ambiente non è più molto utile. Molte attività e funzioni dei geni sono aperte a influenze di tipo ambientale: i geni stessi possono essere attivati o spenti da segnali che provengono dall’esterno.

Aggiornato il 29 ago. 2023

Lo studio della genetica del comportamento umano

Le influenze genetiche

Quelli che Mendel definiva genericamente elementi sono oggi noti come geni. Essi costituiscono l’unità base dell’ereditarietà e si presentano in più forme alternative dette alleli. La combinazione di tutti gli alleli di un individuo costituisce il suo genotipo, mentre l’insieme dei caratteri osservabili si definisce fenotipo.

Un carattere si dice monofattoriale quando è influenzato da un singolo gene che agisce in maniera dominante o recessiva (eredità mendeliana). Un allele si definisce dominante se produce un particolare fenotipo quando è presente allo stato eterozigote (presenza di differenti alleli per un determinato locus sui due membri di una coppia di cromosomi) e recessivo se produce un particolare fenotipo solo quando è presente allo stato omozigote (presenza dello stesso allele in un dato locus su entrambi i membri di una coppia di cromosomi).

Se un carattere è controllato da più geni lo si definisce, invece, poligenico. In generale, ciascuno dei geni che lo condizionano è ereditato in accordo con le leggi di Mendel. Tuttavia, non tutti gli alleli si comportano in modo completamente dominante o recessivo: molti alleli sono addittivi, nel senso che ciascuno di essi contribuisce in parte al fenotipo.

La maggior parte delle caratteristiche fenotipiche e comportamentali mostrano un’eziologia poligenica: esse sono determinate dall’azione congiunta di diversi geni, ciascuno portatore di un piccolo contributo. Il meccanismo della loro eredità è quindi più complesso e non è facile individuare quali e quanti geni cooperano nella specificazione di una data caratteristica (Boncinelli, 1998).

Le influenze ambientali

Nessun carattere è determinato esclusivamente dal patrimonio genetico, nemmeno quelli la cui trasmissione è legata ad un singolo allele dominante. Nel campo della genetica quantitativa, la parola ambiente include tutte le influenze che non siano dovute a fattori genetici. Questa accezione è più ampia di quella comunemente usata in psicologia, infatti oltre a quello che è comunemente inteso, come l’influenza dei genitori, l’ambiente comprende gli eventi prenatali, gli eventi biologici non genetici che si verificano dopo la nascita (malattie, alimentazione) e le modificazioni del DNA non ereditate.

Per i tratti complessi l’influenza ambientale è generalmente importante quanto quella genetica. In generale, il modello eziologico più̀ accreditato per tratti di natura complessa come quelli psicologici e comportamentali è quello in cui geni diversi, ciascuno con un piccolo effetto, interagiscono tra loro e con fattori ambientali nel determinare una condizione di maggior rischio di sviluppare un certo comportamento. Tale modello è detto multifattoriale.

Genetica quantitativa

La genetica del comportamento ha applicazioni nell’ambito sia della psicologia che della psicopatologia; essa si occupa dello studio delle differenze tra individui (siano esse in tratti comportamentali – come l’intelligenza o la personalità – o in condizioni di patologia) cioè di identificare i fattori (genetici e ambientali) che rendono le persone diverse le une dalle altre.

Visto che la genetica del comportamento si occupa di differenze tra individui, la sua statistica di riferimento è la varianza, che dà informazioni in merito alla dispersione attorno ad un valore medio.

Una volta misurata la varianza per un particolare tratto di interesse, l’analisi genetica quantitativa ha lo scopo di scinderla, cioè dividere la varianza totale in parti attribuibili a componenti genetiche e componenti ambientali.

Fonti di varianza: contributo genetico

La prima fonte di variazione tra individui è data dagli effetti di tipo genetico. Il contributo genetico totale ad un fenotipo è dato dalla somma di effetti genetici additivi e non additivi. La genetica quantitativa considera primariamente gli effetti genetici di tipo additivo (A). L’ereditabilità di un carattere (considerata in senso stretto) si riferisce alla porzione della varianza fenotipica spiegata dagli effetti genetici additivi.

L’ereditabiltà in senso stretto fornisce un’indicazione di quanto un carattere sia trasmissibile, ovvero il grado di similarità che ci si aspetta di osservare fra genitori e figli. L’ereditabilità in senso ampio include invece anche effetti genetici non additivi: la dominanza e l’epistasi. In entrambi i casi gli effetti degli alleli non si sommano in maniera indipendente, ma interagiscono fra loro intraloco (dominanza) interloco (epistasi). In presenza di dominanza, l’effetto a livello fenotipico di un allele è condizionato dall’interazione con l’allele presente nello stesso locus. L’epistasi è invece un’interazione non additiva tra geni in loci differenti.

Fonti di variazione: contributo ambientale

L’altra fonte di variazione tra individui è data da fattori di tipo ambientale. Come già detto, la parola ambiente assume un significato molto ampio, tale da essa includere tutti i tipi di influenza eccetto l’ereditarietà. Sono considerate influenze ambientali anche eventi antecedenti alla nascita, eventi biologici come la nutrizione, le malattie e le modificazioni del DNA non ereditate.

Paradossalmente è proprio la ricerca genetica che ha fornito le maggiori prove riguardo l’importanza dell’ambiente nell’influenzare il comportamento umano: i fattori genetici sono così importanti che talvolta contribuiscono a spiegare fino al 50% della varianza, ma tutto quello che rimane è di appannaggio o dell’ambiente, che raramente scende sotto il 50%.

Possiamo distinguere due tipologie di fattori ambientali: quelli comuni (C ) e quelli unici (E). I fattori ambientali comuni includono quei fattori che sono condivisi all’interno della famiglia, come la classe sociale, il divorzio dei genitori, la morte di un familiare, le componenti omogenee del trattamento parentale (Battaglia, 2002), e contribuiscono (insieme ai geni) alle somiglianze tra soggetti imparentati. L’ambiente familiare condiviso sembra giocare, in molti casi, un ruolo trascurabile nello sviluppo della personalità e per alcuni aspetti psicopatologici (Plomin et al., 2001).

I fattori ambientali unici, al contrario, fanno riferimento alle esperienze non condivise all’interno dei soggetti della stessa famiglia e sono responsabili (oltre ai geni) delle differenze tra individui imparentati. Esempi di eventi ambientali unici sono le amicizie, il contesto lavorativo, le componenti non omogenee del trattamento parentale e gli eventi di vita che colpiscono, individualmente, ciascun familiare.

Dalla psiche alla genetica: l’epigenetica

L’ epigenetica è difficile da definire: si riferisce alle modificazioni che intervengono non direttamente sulla sequenza del DNA (cioè sulla successione di basi che compone un gene) ma sulla sua struttura (Laruffa 2017). È la modalità attraverso cui l’ambiente interagisce con il genoma a livello molecolare.

È una disciplina trasversale che probabilmente ha molto da dire anche nel campo dello studio della psiche: può essere considerata il “ponte” (assieme alle neuroscienze) capace di collegare la biologia con la psicoterapia, perché dimostra che l’ambiente non interagisce con il DNA esclusivamente attraverso l’evoluzione, ma può farlo direttamente attraverso l’interazione con l’individuo tramite l’azione di meccanismi che modulano l’espressione genica.

L’interesse per l’ epigenetica in psichiatria è iniziato con le ricerche sui meccanismi epigenetici che influenzano i normali pattern del neurosviluppo delle funzioni cerebrali e, conseguentemente, dei meccanismi che intervengono nello sviluppo inadeguato implicato in alcuni disturbi psichiatrici (Iannitelli e Biondi, 2014).

Successivamente si è considerato che le modificazioni epigenetiche avvenute durante la vita uterina rimangono stabili per tutta la vita, tuttavia “rimodellamenti” epigenetici possono avvenire durante la vita adulta sotto l’influenza di fattori ambientali, quali farmaci, sostanze chimiche, ma anche fattori psicosociali.

Nel frattempo lo sviluppo delle conoscenze relative alla plasticità cerebrale sta sempre più orientando gli studi verso una prospettiva della psicoterapia più neurobiologica, che riflette la natura dinamica dell’interazione tra geni e ambiente (Siracusano et al., 2008). La plasticità neurale è la capacità del cervello di essere modificato, sia durante lo sviluppo che da adulto, dall’esperienza e dall’ambiente (Lazzerini et al., 2015): questa evidenza, dagli studi degli anni novanta di Kandel (1999) in poi, orienta da tempo gli sviluppi delle neuroscienze che danno conferma circa l’efficacia dei trattamenti.

In questa cornice epistemologica, che nasce dall’integrazione dei contributi della psichiatria genetica e delle neuroscienze, la psicoterapia, oltre essere capace di determinare dei veri e propri cambiamenti nella morfologia del cervello, merita davvero la definizione di “droga epigenetica” fornita da Stahl (2012) perché può essere capace di determinare un cambiamento biologico che si riflette nel pensiero, nel comportamento, nell’interazione umana.

L’ epigenetica può nel tempo fornire istruzioni ed incoraggiamenti per la promozione della salute mentale attraverso un approccio capace di andare “oltre” traiettorie ben definite. Per intenderci: abbracciando il noto modello di Cloninger (1994) le probabilità che un giovane novelty seeking svilupperà un ADHD o un disturbo di personalità del cluster B del DSM non dipendono dalla passività genetica predisposta dal temperamento ma dipendono da fattori ambientali capaci di modifiche epigenetiche. La prevenzione dovrebbe dunque mirare alla creazione di adeguati e personalizzati ambienti psicosociali, capaci di dare spazio ad interventi psicoterapici che possano coinvolgere a più livelli i sistemi (familiari, scolastici e professionali) in cui le persone interagiscono e vivono.

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