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Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica (2003) di J.D. Safran e J.C. Muran – Recensione del libro

In "Teoria e pratica dell'alleanza terapeutica" vengono operazionalizzati degli elementi della terapia che a volte sono difficili da individuare e spiegare

Di Virginia Valentino

Pubblicato il 16 Mar. 2020

Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica fornisce l’aiuto necessario per essere dei terapeuti più attenti e consapevoli di quella che è la prassi teorica, la prassi pratica, la prassi relazionale nell’insieme, senza considerarli aspetti scollegati o alternativi.

 

Ho atteso la ristampa di questo testo del 2003 con lo stesso entusiasmo con cui mia nipote mangia gli ovetti Kinder e l’ho letto con la consapevolezza che mi avrebbe arricchito rispetto al modo in cui bisognerebbe stare con i pazienti. Quindi ho fatto spazio sulla scrivania per dargli il giusto posto.

Le prime pagine mi hanno riportata ad alcuni casi, a tutte quelle volte in cui non c’era accordo sugli obiettivi o sulle modalità della terapia, producendo rotture dell’alleanza non sempre chiare e di conseguenza a volte mai riparate. In questo libro, gli autori insegnano passo dopo passo a riconoscere e sanare ogni sorta di rottura dell’alleanza terapeutica. Sebbene, infatti, alcuni aspetti siano automatici, inconsapevoli ed impliciti nel rapporto con un altro essere umano, molti altri sono in realtà operativi. Credo che sia proprio questa la specialità del testo: Safran e Muran hanno operazionalizzato degli elementi della terapia che a volte sono difficili da individuare e spiegare. Sono elementi che spesso chiamo “cose inspiegabili”. Non soltanto le hanno identificate, ma hanno chiarito il modo in cui queste “cose inspiegabili”, che sembrano così evanescenti, possano essere costruite, viste, modificate fin dalle prime sedute.  Esistono delle modalità specifiche per riorganizzarsi sulla terapia ogni qualvolta si verifica un allontanamento da essa coinvolgendo in modo attivo il paziente sulla negoziazione degli obiettivi e sui compiti della terapia, soprattutto quando egli non ha chiaro in che cosa essa consista e dove può condurre. A volte, infatti, i pazienti hanno in mente solo una generale richiesta di aiuto, ma non riescono ad accedere al significato intrinseco: sarà proprio la relazione la base sicura sulla quale si svilupperanno questi significati e le azioni che ne derivano. Soltanto così paziente e terapeuta possono sulla stessa lunghezza d’onda.

Alla base del lavoro di costruzione della relazione ci dovrebbe essere un atteggiamento del terapeuta particolare, sinceramente aperto e validante, per negoziare e mediare tra quello che spetta al paziente e quello che spetta a lui. Questo avrà una ripercussione in termini di identificazione dei propri bisogni e soddisfacimento di essi e contribuirà a creare un clima di sicurezza. Ovviamente un altro aspetto fondamentale è che il terapeuta, proprio misurando l’andamento della danza relazionale con il paziente, può comprenderne il funzionamento interpersonale, da condividere ed esplorare. L’aspetto di sincerità e apertura del terapeuta lo si vede per esempio quando egli si rende conto, condivide e chiarisce con il paziente il proprio contributo alla rottura terapeutica. Può capitare infatti di essere un po’ critici o giudicanti senza volerlo, senza notarlo. Sarà grazie all’osservazione dei markers della rottura terapeutica e alla discussione con il paziente che il terapeuta può esaminare e può comunicare (meglio ancora meta-comunicare) al fine di recuperare l’alleanza. Per fare questo egli dovrebbe essere disponibile ad un lavoro genuino, aperto e curioso, senza incappare in cicli interpersonali basati, per esempio, sul rango e sulla performance. Tali esperienze, per alcuni tipi di pazienti, sono fondamentali perché rappresentano primissimi momenti di ristrutturazione di schemi interpersonali maladattivi (Dimaggio et al., 2013). L’alleanza è la precondizione della riuscita terapeutica anche con i pazienti altamente sintomatici, che arrivano in terapia attivati, con delle richieste di aiuto particolarmente incalzanti. Capita spesso, infatti, che pazienti con alcuni disturbi di personalità tendano ad essere problematici, richiedenti, impegnativi: il terapeuta può decidere se passare all’azione o passare all’esplorazione (questo dipende dalle capacità metacognitive del paziente e dal timing della terapia: un paziente che ancora non ha chiaro il suo funzionamento potrebbe teorizzare insieme al terapeuta senza comprendere il vero significato di quello che si sta verificando). Molto interessante l’approfondimento teorico sulla contrapposizione tra agentività e relazionalità, tra la tensione insita tra queste due componenti che può essere superata attraverso la costruzione di un maggior senso di consapevolezza dei bisogni, dei desideri, allontanandosi dalla paralisi della volontà che è alla base della patologia.

Paziente e terapeuta non dovrebbero lavorare su un nascosto squilibrio di potere della relazione, perché in realtà sono tutti e due ignari di un processo psicologico, devono identificarlo e costruirlo insieme e, all’interno di questa conoscenza, sono entrambe parte attiva. È ovvio che noi terapeuti abbiamo una cassetta degli attrezzi ed un sapere del funzionamento della mente, ma essa si abbatte di fronte alla individualità di ogni persona che, per giunta, cambia ed evolve continuamente. Questo spiega perché uno stesso atteggiamento del terapeuta, per esempio speranzoso, potrebbe essere accettato da un paziente sfiduciato e demoralizzato, mentre da un altro potrebbe essere interpretato come dominanza. Sono, evidentemente, funzionamenti diversi. C’è una intrinseca e sottile asimmetria tra il ruolo del paziente e quello del terapeuta che poi è sì fondamentale per svolgere la nostra professione d’aiuto, ma non dovrebbe rendere la nostra posizione inautentica, nonostante l’immagine associata al ruolo. Hoffmann (1998), infatti, sottolinea come bisognerebbe raggiungere un equilibrio tra l’agire secondo le prescrizioni del ruolo e comportarsi in modo autentico è spontaneo come una qualsiasi relazione che si svolge al di fuori di uno studio di psicoterapia.

Accattivante, chiaro e diretto il paragrafo nel quale gli autori parlano di “mente del principiante”. A tal proposito si fa riferimento all’importanza di avere una mente curiosa, pronta a tutto, nella quale “il terapeuta si accosta ad ogni seduta senza memoria e senza desiderio” in una modalità allocentrica per avere un’apertura ed una ricettività che consentono la tolleranza dell’ambiguità, dell’incertezza e anche del dolore. Gli autori sottolineano come questo possa essere difficile sia per i terapeuti giovani che per quelli più esperti: nell’entrare in contatto con alcuni temi relazionali, in un caso c’è la difficoltà da accettare e tollerare, mentre nell’altro c’è la tendenza a vedere le cose sempre in un certo modo senza considerare l’individualità della persona e come essa evolva. Non dimentichiamo, infatti, che i pazienti evolvono di seduta in seduta e nei vari tempi e, al loro evolversi, corrispondono temi e configurazioni relazionali diversi. L’importanza di una visione a due persone piuttosto che una fa sì che non sia il paziente in quanto oggetto ma la relazione tra paziente e terapeuta il focus della terapia, in cui quest’ultimo è compartecipe e non osservatore. Proprio per questo ogni formulazione è il risultato di una continua esplorazione a due, nel qui e ora, in cui tutti e due i partecipanti riconoscono il proprio contributo. Per questo motivo la relazione terapeutica non si differenzia da altri tipi di relazioni interpersonali in cui due individui si influenzano costantemente l’un l’altro, sia a livello conscio che a livello inconscio.

Credo che ciò che rende davvero speciale questo testo non sia soltanto la prescrizione di cosa fare (la seconda parte del testo, infatti si concentra sulle rotture dell’alleanza e sulle riparazioni di esse) unitamente al focus agli aspetti di fiducia, apertura e validazione. Quello che rende particolare Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica è l’attenzione agli aspetti relazionali del nostro lavoro senza dimenticarsi dell’importanza della teoria e della tecnica, appunto. Safran e Muran ci aiutano ad essere dei terapeuti più attenti e consapevoli di quella che è la prassi teorica, la prassi pratica, la prassi relazionale nell’insieme senza considerarli aspetti scollegati o alternativi.

Un mio collega ha definito alcune parti di questo libro “rilassanti”. Io ho subito pensato che le ho trovate “rassicuranti”. L’immagine del terapeuta limpido, chiaro, accessibile, sincero sembra così lontano dalla realtà nell’immaginario collettivo. Invece, nonostante le intrinseche difficoltà e complessità umane, è possibile, auspicabile e realizzabile.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Dimaggio, G., Montano, A., Popolo, R., Salvatore, G. (2013). Terapia metacognitiva interpersonale. Raffaello Cortina Editore
  • Hoffman, I.Z. (1998). Ritual and spontaniety in the psychoanalytic process: a dialectical-constructivist view. Analytic Press, Hillsdale, NJ.
  • Safran, J. D. & Muran, J. C. (2019). Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica. Editori Laterza.
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