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Il ruolo del linguaggio nello sviluppo della teoria della mente nel bambino

Secondo diverse teorie, lo sviluppo della teoria della mente potrebbe dipendere anche da un processo complesso linguistico e socioculturale

Di Roberta Carugati, Federica Ferrari

Pubblicato il 18 Ott. 2019

Per comprendere credenze proprie e altrui è richiesta la consapevolezza del fatto che ogni persona possiede una visione del mondo soggettiva. Negli ultimi anni numerosi studi hanno sottolineato l’importanza del linguaggio nella comprensione delle credenze e alcuni ricercatori hanno cercato di fornire delle prove dell’associazione tra linguaggio e teoria della mente.

Roberta Carugati e Federica Ferrari – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Teoria della mente e linguaggio

Diversi studi hanno identificato una forte correlazione tra linguaggio e lo sviluppo della teoria della mente. Gli esseri umani prima di acquisire il linguaggio possiedono già alcune competenze che riguardano il mondo circostante e anche abilità riguardanti la cognizione sociale, per esempio sono in grado di condividere l’attenzione con altre persone, ed indirizzarla su eventi esterni mediante il gesto di indicazione (Carpenter, Nagell, Tomasello, 1998) e discriminare azioni intenzionali da quelle non intenzionali. Tuttavia l’abilità dei bambini di comprendere stati mentali più astratti e profondi è una questione più complicata (Lohmann, Tomasello, 2003).

Negli ultimi anni numerosi studi hanno sottolineato l’importanza del linguaggio nella comprensione di compiti di credenza. Per comprendere le credenze proprie e di altri è richiesta la consapevolezza del fatto che ogni persona possiede una visione del mondo che è soggettiva, poiché dipende dalla propria esperienza personale, che può essere o non essere condivisa da altre persone. I principali filoni di ricerca che hanno cercato di fornire delle prove dell’associazione tra linguaggio e teoria della mente sono due, quello correlazionale e quello con i training.

Tra gli studi correlazionali ce ne sono numerosi che hanno dimostrato la relazione tra sviluppo linguistico e comprensione degli stati mentali, anche quando la misura del linguaggio veniva rilevata molti mesi prima rispetto ai compiti di falsa credenza (questi compiti indagano la presenza nel bambino della capacità di pensare a un’altra persona come soggetto che possiede una credenza che è falsa rispetto alla realtà; Dunn et al., 1991; Astington, Jenkins, 1999; Gale, de Villiers, de Villiers, Pyers, 1996; Farrar, Maag, 2002; de Villiers, de Villiers, 2000; Watson, Painter, Bornstein, 2002). Gli studi che utilizzano il training invece, hanno il vantaggio di dimostrare specifiche relazioni causali tra il training a cui sono sottoposti i bambini e le misure di abilità che emergono in seguito. Appleton e Reddy (1996), ma anche altri ricercatori (Slaughter, 1998; McGregor, Whiten, Blackburn, 1998), si sono occupati di misurare dapprima le iniziali competenze di alcuni bambini in compiti di falsa credenza, successivamente di sottoporli ad un training in cui era implicato l’uso del linguaggio e, infine, rimisurare le loro competenze in una fase di post test per verificare gli eventuali miglioramenti. Il tipo di training era ovviamente diverso all’interno di ogni ricerca tuttavia mancava un gruppo di controllo necessario a dimostrare che i miglioramenti che si verificano in una condizione sperimentale dipendono solo ed esclusivamente dal training sul linguaggio e non da altri fattori che concorrono (Lohmann, Tomasello, 2003).

Sebbene sia noto che il linguaggio giochi un ruolo importante nella successiva comprensione della falsa credenza, poche ricerche hanno cercato di indagare più nel profondo la specificità di questo ruolo. Da tutti gli studi sono emerse 4 ipotesi.

1. La prima ipotesi deriva dall’approccio theory-theory e sostiene che il linguaggio non ha un preciso ruolo nella comprensione della falsa credenza, poiché i bambini formano costantemente teorie sulle altre persone e le loro menti, per cui i dati linguistici vengono utilizzati di certo, ma non in modo così rilevante (Gopnik e Wellman, 1992).

2. La seconda ipotesi sostiene che imparare termini come credere, sapere, pensare, il cosiddetto lessico psicologico, sia fondamentale per riuscire a risolvere questi compiti di credenza, poiché vengono usati per riferirsi a stati interni (Olson, 1988). Numerose ricerche hanno mostrato evidenze della relazione tra la comparsa di  questo particolare lessico e lo sviluppo di una teoria della mente (Baumgartner, Devescovi, D’Amico, 2000; Ruffman, Slade, Crowe, 2002; Ornaghi, Grazzani Gavazzi, 2009, Lecce, Pagnin, 2007a, 2007b). Nello specifico, questo particolare lessico, che viene chiamato anche mentalistico, è costituito da parole che si riferiscono a stati psicologici interiori e contiene termini percettivi, emotivi e volitivi e anche morali che è possibile osservare in contesti naturalistici di interazione quotidiana (Dunn, Brophy, 2005; Nelson, 1996). Il lessico psicologico fa la sua comparsa nel vocabolario del bambino a circa due anni e cresce per complessità, poiché i primi a comparire sono i termini psicologici che si riferiscono a se stessi come “non mi piace”, poi vengono usati per riferirsi agli altri “lui pensa”; anche i termini che si riferiscono a volontà e desideri, i cosiddetti volitivi e quelli di tipo percettivo, possono trovarsi nei dialoghi di bambini di due anni (Ornaghi, Grazzani Gavazzi, Zanetti, 2010) che li usano anche per trovare spiegazioni al comportamento degli altri. Abbastanza precocemente si possono ritrovare anche termini ti tipo emotivo, che si riferiscono sia a stati positivi, come essere felice, contento, sia con valenza negativa, come essere arrabbiati o tristi; si ritrovano anche termini che fanno riferimento prima alle emozioni di base (Ornaghi, Grazzani Gavazzi, Zanetti, 2010), in seguito a emozioni più complesse quali odio, amore, sorpresa (Grazzani Gavazzi, 2011). Per quanto riguarda i termini di tipo cognitivo, ovvero parole che si riferiscono a pensieri, immaginazioni e credenze, essi compaiono a partire dai tre anni di età (Ornaghi, Grazzani Gavazzi, Zanetti, 2010). Quindi è solo con l’aumentare dell’età e con il conseguente sviluppo che i bambini arricchiscono il loro vocabolario divenendo capaci di discriminare le varie emozioni e di utilizzarle in modo appropriato nelle interazioni.

Autori come Lecce e Pagnin (2007) hanno sostenuto l’idea che non sempre la comprensione del lessico emotivo coincide con l’utilizzo che il bambino fa di questi termini, poiché quest’ultimo potrebbe semplicemente dipendere dalla situazione e non sottendere quindi ad una reale comprensione, mancando anche della dimensione soggettiva, che è caratteristica fondamentale di quella emotiva. Per quanto riguarda il lessico mentalistico è necessario sottolineare che esiste, anche in questo caso, un utilizzo differente, che varia da bambino a bambino, e ciò dipende da alcuni fattori che ne influenzano sia la comprensione che la produzione. I fattori familiari sembrano essere molto importanti, poiché è stato dimostrato che l’utilizzo del lessico psicologico da parte della madre correla con lo sviluppo della teoria della mente (Theory of Mind – ToM) nel bambino, infatti quanto più fa ricorso a questi termini nel dialogare con il figlio quanto più le prestazioni di quest’ultimo saranno migliori in compiti di falsa credenza (Dunn, Brown, Beardsall, 1991; Ruffman, Slade, Crowe, 2002; Ornaghi, Grazzani Gavazzi, Zanetti, 2010; Symons, Fossum, Collins, 2006). L’importanza dell’ambiente anche nel contesto del lessico psicologico è stata approfondita da Lecce e Pagnin (2007) riferendosi al pensiero di Vygotskij (1978) il quale sosteneva che il fattore principale dello sviluppo personale fosse l’interazione con l’altro e la conseguente condivisione di esperienze, dal momento che, interagendo con partner più abili e competenti, il bambino poteva anch’esso fare esperienza e trovare nella relazione gli strumenti necessari per consolidare quelle conoscenze che altrimenti non sarebbe in grado di fare da solo. Per autori come Harris (1996) questo è ciò che accade per l’apprendimento del lessico mentalistico. Ovviamente, come per molte competenze, la cultura di appartenenza è responsabile di alcune differenze. Oltre al fatto di stabilire le modalità comportamentali di una determinata emozione, il suo oggetto e il suo valore, è anche responsabile del lessico con cui gli individui ne parlano (Battacchi, 2004).

Tornando alla letteratura esistente sul ruolo del lessico psicologico nello sviluppo della comprensione degli stati mentali, una ricerca di Ornaghi, Grazzani Gavazzi, Zanetti (2010) si è occupata di indagare la presenza di correlazioni tra la comprensione e la frequenza d’utilizzo di questo lessico e le loro prestazioni in compiti di ToM, ampiamente documentata in bambini prescolari (Lecce, Caputi, Pagnin, 2009; Longobardi, Pistorio, Renna, 2009) e in bambini di età scolare, per verificare se questa relazione rimaneva stabile anche in bambini più grandi. I risultati di questa ricerca hanno indicato una stabilità di correlazione tra produzione e comprensione di lessico mentalistico e abilità in prove di teoria della mente.

3. La terza ipotesi è stata avanzata dagli autori de Villiers e de Villiers (2000), che hanno proposto l’idea che la sintassi usata dagli adulti per riferirsi alle credenze e agli stati mentali serva al bambino per crearsi formati rappresentazionali necessari per affrontare i compiti di falsa credenza. In particolare, ciò che è importante è la comprensione di frasi in cui nella principale è situato il verbo che fa riferimento allo stato mentale, come per esempio “la mamma pensa”, e nella subordinata è presente il complemento che contiene il contenuto specifico dello stato mentale (“che non ho fatto i compiti”). In questa tipologia di frasi grammaticali la frase principale può esistere anche da sola e può essere vera, mentre non lo è necessariamente quella subordinata ( ad esempio la mamma pensa che non ho fatto i compiti ma in realtà li ho fatti). Per gli autori la comprensione da parte del bambino di questo concetto permette in seguito di comprendere gli stati epistemici nelle altre persone.

Numerosi studi hanno confermato la correlazione tra la competenza in questa tipologia di frasi e le prestazioni in compiti di teoria della mente in bambini di età prescolare (de Villiers, Pyers, 1997; Tager-Flusberg, 1997, 2000; Hale, Tager-Flusberg, 2003). In un una ricerca di Hale e Tager-Flusberg (2003) che ricorreva all’utilizzo di un training, le autrici hanno indagato se queste specifiche strutture grammaticali, piuttosto che aspetti del linguaggio più in generale, avessero un ruolo importante nello sviluppo della ToM in bambini di età compresa tra i 36 e i 58 mesi. I risultati di questa ricerca hanno mostrato che il gruppo di bambini a cui era stato sottoposto ad un training specifico riguardante le subordinate oggettive otteneva miglioramenti nelle prestazioni a compiti di teoria della mente, mentre questo effetto non si verificava nei bambini il cui training era centrato sulle frasi relative. Tuttavia, non si verificava neanche la situazione contraria, poiché il training sui compiti di falsa credenza non portava a miglioramenti in compiti di proposizioni oggettive anche se questi bambini andavano incontro a miglioramenti in compiti di ToM molto simili al primo gruppo. Questi dati sostengono l’ipotesi che l’acquisizione di queste strutture grammaticali non sia necessariamente un prerequisito per lo sviluppo di una comprensione della mente rappresentazionale (de Villers, 1995, 2000; Hale, Tager-Flusberg, 2003). Concludendo è possibile affermare che la conoscenza di particolari strutture grammaticali è ugualmente importante nel facilitare lo sviluppo della teoria della mente. Per le autrici il linguaggio non riflette o comunica semplicemente emozioni, pensieri o credenze, ma piuttosto esprime una conoscenza linguistica strutturale specifica che favorisce l’abilità di attribuire esplicitamente a se stessi e agli altri questi stati mentali (Hale, Tager-Flusberg, 2003).

4. L’ultima ipotesi avanzata da Harris (1996, 1999) riguarda il fatto che non è la struttura grammaticale ad influenzare la comprensione di compiti di falsa credenza, quanto piuttosto lo scambio linguistico che il bambino sperimenta in interazione con gli altri. Secondo l’autore il concetto di credenza come stato mentale, acquista significato solo all’interno di situazioni in cui essa può essere vera o falsa. E’ all’interno di un discorso, che il bambino capisce che una persona può avere conoscenze che lui non possiede e che su uno stesso argomento possono esistere differenti punti di vista (Harris, 1996, 1999; Lohmann e Tomasello, 2003).

Date queste quattro ipotesi, e spiegate le prove a sostegno di ciascuna, alcuni autori hanno indagato più a fondo, tentando di dare risposte definitive, su ciò che riguarda il ruolo del linguaggio nel favorire le competenze mentalistiche.

Lohmann e Tomasello nel 2003 hanno condotto una ricerca che ha coinvolto più di centotrenta bambini di tre anni di età circa in alcune condizioni sperimentali. Il training di base ha preso spunto da quello di Slaughter e Gopnik (1996): i bambini appartenenti al gruppo sottoposto al training visionavano un numero di oggetti, alcuni dei quali avevano un aspetto estetico che non corrispondeva alla sua funzione (ad esempio un fiore che ad una successiva analisi si rivelava essere una penna). Gli oggetti venivano mostrati uno per uno e a questo seguiva una discussione in cui lo sperimentatore forniva suggerimenti o correzioni ai commenti che il bambino faceva. Il gruppo di controllo visionava solamente gli oggetti ma non partecipava ad alcuna discussione. I risultati hanno dimostrato che il linguaggio è una condizione necessaria per i bambini piccoli affinché si verifichi un miglioramento nella comprensione della falsa credenza, infatti la semplice vista di oggetti ingannevoli non è sufficiente; piuttosto, i bambini necessitano che questa esperienza venga strutturata attraverso il linguaggio. I gruppi sperimentali sono stati sottoposti anche ad un training sulle proposizioni oggetto e questo ha portato ad una significativa facilitazione nella comprensione di compiti di falsa credenza, anche se l’effetto maggiore è stato registrato in quei bambini il cui training combinava entrambi gli aspetti. Il linguaggio quindi sembra essere un forte facilitatore, se non addirittura un aspetto indispensabile nello sviluppo della falsa credenza.

Ulteriori evidenze di quest’ultimo aspetto provengono dalle ricerche su popolazioni atipiche. Bambini sordi, nati da famiglie udenti, che non hanno avuto a disposizione alcun mezzo per poter conversare con i familiari su stati mentali nei loro primi anni di vita, sperimentavano presumibilmente le stesse situazioni dei loro coetanei udenti, in cui osservavano le reazioni degli altri o avevano loro stessi credenze erronee, ma non riuscivano a risolvere compiti connessi a queste abilità nonostante fossero coetanei (de Villers, de Villers, 2000; Gale et al., 1996; Peterson, Siegal, 1995, 1998, 1999, 2000; Lohmann, Tomasello, 2003). Al contrario bambini sordi, nati in famiglie che ricorrono all’uso dei segni, e che quindi possono condividere un sistema comunicativo grazie al quale sperimentare esperienze più ricche dal punto linguistico, sviluppano i concetti di falsa credenza nello stesso periodo di bambini udenti (Peterson, Siegal, 1999, 2000). Ciò che continua a non essere chiaro è se il linguaggio è un prerequisito essenziale per l’emergere della Teoria della Mente oppure se semplicemente ne facilita lo sviluppo. I meccanismi specifici che dal linguaggio conducono alla comprensione delle menti rimangono ipotesi. Il linguaggio, in particolare quello riferito agli stati mentali, può incoraggiare chi lo apprende a prestare attenzione ai pensieri e credenze interni, che prima erano stati ignorati (Gopnik, Meltzoff, 1997). Queste conclusioni non escludono che anche il ruolo dell’esperienza sociale sia importante e necessaria (Hobson, 2004).

Una serie di ricerche si è occupata di indagare il ruolo che il linguaggio materno occupa nello sviluppo delle abilità mentalistiche nel bambino. Studi recenti hanno osservato che, anche quando i bambini presentano uno sviluppo del linguaggio tipico, lo stile comunicativo delle madri, che è qualcosa di personale e diverso in ogni persona, influenza la comprensione che il bambino ha sugli stati mentali (Harris, de Rosnay, Pons, 2005). In uno studio di de Rosnay, Pons, Harris, Morrel del 2004, è emerso che l’uso che le madri fanno di termini mentalistici per descrivere i loro figli (es. il concentrarsi di più su aspetti psicologici e meno su quelli comportamentali o estetici) correla con le prestazioni in compiti di falsa credenza nei bambini, ma anche con quelle in compiti di attribuzione delle emozioni contenute in piccole storie; per cui le descrizioni mentalistiche delle madri predicono la capacità dei figli di attribuire emozioni corrette negli altri (Harris, Pons, de Rosnay, 2005).

Altri ricercatori hanno analizzato le tappe di acquisizione del lessico emotivo nel bambino videoregistrando le interazioni con la madre e hanno riportato che è intorno ai diciotto mesi che compaiono i primi termini (Bretherton, 1987; Bretherton et al., 1981, 1986; Dunn, Munn, 1987), mentre poco prima dei trenta mesi i bambini sembrano essere in grado di parlare delle emozioni provate da se stessi e anche di riflettere su quelle degli altri (Bretherthon, Beeghly, 1982).

Un ulteriore studio ha dimostrato che anche il linguaggio paterno è importante nel successivo sviluppo della cognizione sociale, competenza composta da due distinti aspetti quali la comprensione delle emozioni e la teoria della mente, entrambe influenzate dagli stili conversazionali dei genitori (LaBounty, et al., 2008). I genitori quindi riferendosi maggiormente alle credenze e ai desideri nei loro dialoghi e conversando su stati emotivi negativi, influenzano chiaramente la comprensione che il bambino ha sulle menti altrui (LaBounty et al., 2008).

La correlazione tra linguaggio e abilità di mentalizzazione in diverse culture

La maggior parte degli studi che ha indagato la correlazione tra linguaggio e teoria della mente ha utilizzato prevalentemente parlanti di lingua inglese, tuttavia diversi studi transculturali hanno dimostrato come questa relazione sia presente e valida anche per altre lingue. Nello specifico, uno studio di Shatz e colleghi (Shatz et al., 2003) basandosi sulle ricerche di Lee, Olson, e Torrance (1999), ha indagato le prestazioni di quattro gruppi di bambini prescolari parlanti turco, portoghese, inglese e spagnolo portoricano (lingue  scelte in base alla presenza o assenza di termini espliciti per riferirsi a credenze) in compiti di falsa credenza. Infatti, ogni lingua possiede dei termini coniati per riferirsi a stati mentali, solamente che nel caso dell’inglese e del portoghese brasiliano, una stessa parola viene utilizzata per esprimere diversi significati: nel caso dell’inglese il termine think si trova in frasi in cui si segnala un’azione mentale (ad esempio I’m thinking about the party), oppure una credenza che sappiamo essere falsa, ma per qualcuno ritenuta vera (es. Maria thinks that Milan is in France), infine anche un pensiero verso cui il parlante che riporta la frase ha un atteggiamento neutrale (Giorgio thinks that it will be sunny tomorrow) (Shatz et al., 2003). Questo non accade per quelle lingue come lo spagnolo o il turco in cui si ricorre a parole differenti per esprimere i concetti sopra citati. I risultati di questa ricerca hanno mostrato che, la presenza di termini espliciti all’interno della lingua, influenzava minimamente le prestazioni dei bambini in questi compiti, mentre risultavano più importanti gli effetti legati allo status socioeconomico (Shatz et al., 2003).

Una ricerca di Liu e colleghi (Liu et al., 2008) ha confrontato le prestazioni di bambini cinesi e nord americani in compiti di falsa credenza. I risultati hanno dimostrato che il primo gruppo presentava un ritardo nello sviluppo di questa abilità, tuttavia si trovava avvantaggiato in compiti sulle funzioni esecutive, abilità che correlano con i successivi punteggi in compiti di falsa credenza. Questi risultati contraddittori, possono essere spiegati sulla base del fatto che non sono stati tenuti in considerazione alcuni fattori come l’avere o meno dei fratelli o essere bilingue. Per questo motivo gli autori sono arrivati alla conclusione che non è la presenza di un singolo fattore linguistico o socioculturale a causare delle differenze nella comprensione della mente altrui, ma piuttosto esistono numerosi fattori e processi che possono verificarsi (Liu et al., 2008).

 

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La teoria della mente – Introduzione alla Psicologia

La Teoria della Mente (Theory of Mind) ovvero la capacità di comprendere uno stato mentale di un individuo partendo dal comportamento manifesto

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