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Disturbo Oppositivo Provocatorio

Il disturbo oppositivo provocatorio è un disturbo del comportamento caratterizzato da umore collerico e irritabile e comportamenti vendicativi e oppositivi.

Il disturbo oppositivo provocatorio (DOP) è un disturbo del comportamento che si manifesta in bambini di età scolare o prescolare ed è caratterizzato da umore collerico e irritabile e da comportamenti vendicativi e oppositivi,  che si verificano in modo frequente per un periodo di almeno sei mesi.

Disturbo oppositivo provocatorio

Che cos’è il Disturbo oppositivo provocatorio

I criteri diagnostici specificano inoltre che la sintomatologia deve manifestarsi tutti i giorni per almeno sei mesi per bambini al di sotto dei 5 anni e almeno una vota a settimana nei casi di esordio oltre i 5 anni (APA, 2014).

Il bambino affetto da disturbo oppositivo provocatorio litiga spesso con adulti e coetanei, si rifiuta di rispettare le richieste e le regole, spesso ride se sgridato, irrita deliberatamente gli altri e li accusa dei proprio errori. Questa modalità di comportamento compromette significativamente il funzionamento sia a casa che a scuola, interferendo negativamente nel rapporto con insegnanti e genitori, nonché nella relazione con i coetanei. A seconda della gravità questo disturbo può colpire uno solo o tutti gli ambiti indicati (APA, 2014).

Sono state avanzate diverse ipotesi per spiegare l’eziologia del disturbo oppositivo provocatorio; alcune di esse fanno rifermenti a fattori di rischio di tipo temperamentale, come un’elevata reattività emozionale, una scarsa tolleranza alla frustrazione o tratti di iperattività (Bates, Bayles, Bennett, Ridge, & Brown, 1991).

Altre ipotesi attribuiscono invece una rilevanza maggiore ad aspetti di natura ambientale, quali pratiche educative troppo rigide e incoerenti (Bearss& Eyberg & Hoza, 2002), una instabilità familiare o l’esposizione a cambiamenti particolarmente stressanti (Cambpbell, 1998) nonché trascuratezza o abusi.

In particolare, si ritiene che un’educazione troppo rigida possa instaurare un circolo vizioso in cui viene posta maggiore attenzione agli aspetti comportamentali problematici del bambino. In questo modo il bambino stesso fa sua l’immagine del bambino “cattivo” e ciò lo porta, per effetto paradosso, a reiterare maggiormente i comportamenti indesiderati. D’altro canto il mancato rinforzo di azioni positive rischia di farle passare in secondo piano così che il bambino si senta meno incoraggiato a metterle in atto (Farrugia et al, 2008).

Inoltre, se all’interno della famiglia sono presenti dinamiche aggressive come violenti litigi o addirittura percosse, è possibile che il bambino assuma il modello appreso dalle figure di riferimento e lo riproponga anche in altri contesti come quello dei pari.

Il disturbo oppositivo provocatorio frequentemente si presenta in comorbidità con altre psicopatologie dell’età evolutiva. E’ stato evidenziato, in particolare come si manifesti spesso in associazione al disturbo da deficit di attenzione e iperattività (Loeber & Keenan, 1994).

Rispetto alla prognosi, se sviluppato durante l’infanzia il disturbo oppositivo provocatorio frequentemente esita in un disturbo della condotta, sopratutto se i sintomi predominanti sono quelli relativi alla provocatorietà e la vendicatività. Tuttavia non tutti i bambini con diagnosi di disturbo oppositivo provocatorio sviluppano successivamente un disturbo della condotta (APA,2014).

Per i soggetti caratterizza da una predominanza dei sintomi legati alla collera e all’irritabilità è maggiormente probabile l’emergere di un disturbo emotivo.

In generale i bambini con disturbo oppositivo provocatorio sono maggiormente esposti al rischio da adulti di sviluppare di problemi nel controllo degli impulsi, abuso di sostanze, ansia e depressione (Hanish, Tolan,& Guerra 1996). Tale rischio rende fondamentale intervenire, a seguito della diagnosi, con un trattamento precoce e specifico.

Trattamento del disturbo oppositivo provocatorio

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Si riportano diverse tipologie di trattamento del disturbo oppositivo provocatorio che coinvolgono sia il bambino che la coppia genitoriale. Generalmente si predilige la combinazione di interventi che in letteratura hanno mostrato maggiore efficacia, ovvero quelli focalizzati sul fornire strategie educative più adeguate ai genitori, sul potenziare le competenze relazionali del bambino, le sue capacità di problem solving e di gestione della rabbia.

Inoltre nei casi di maggior compromissione può essere valutato il ricorso anche a una terapia farmacologica.

Frequentemente la tipologia di trattamento si differenzia sulla base della fascia di età dei soggetti coinvolti. Per i bambini in età prescolare l’intervento spesso si concentra solo su una psico-educazione rivolta ai genitori; per l’età scolare invece risulta maggiormente efficace un lavoro che coinvolga la scuola oltre che un intervento di psico-educazione genitoriale ed una terapia individuale con il bambino. Infine per gli adolescenti la modalità più efficace di trattamento risulta quella della terapia individuale associata ad un parent training (AACAP, 2009).

In tutte  le fascia di età, l’intervento individuale basato sul potenziamento delle competenze di problem solving si è dimostrato ampiamente efficace nel migliorare il comportamento di bambini e adolescenti con diagnosi di disturbo oppositivo provocatorio (AACAP, 2009).

Parent-management training

L’intervento rivolto ai genitori produce risultati significativi nella riduzione dei comportamenti sintomatologici del disturbo oppositivo provocatorio in tutti i gruppi d’età. Il parent-management training insegna ai genitori in modo pratico a fronteggiare i comportamenti del proprio figlio in modo positivo e prevede tecniche disciplinari e una supervisione adatta all’età del bambino. Questa modalità di trattamento di fonda sui seguenti principi (ACCAP, 2009):

  • Incrementare positivamente il parenting attraverso una supervisione supportiva e coerente;
  • Favorire l’instaurarsi di una disciplina autorevole;
  • Diminuire le pratiche parentali inefficaci, come l’uso di punizioni dure o che si focalizzano sui comportamenti negativi;
  • Favorire la capacità di attuare punizioni adeguate dei comportamenti oppositivi/distruttivi;

Il Substance Abuse and Mental Health Services Administration (SAMHSA) del US Health and Human Services (US-HHS) ha segnalato come efficaci diverse tipologie di parent training:

  • Incredible years (per bambini fino agli 8 anni)
  • Triple P Positive Parent Trainig (per ragazzi fino ai 13 anni)
  • Parent-Child Interaction Therapy (PCIT) (per bambini fino agli 8 anni)
  • Center for Collaborative Problem Solving (per ragazzi fino ai 18 anni)
  • The Adolescent Transitions Program (ATP) (per ragazzi dagli 11 ai 13 anni)

Tra questi, la parent child interaction therapy (PCIT) presenta una caratteristica particolare in quanto, a differenza di altri percorsi di psicoeducazione, prevede il coinvolgimento non solo della coppia genitoriale ma anche del bambino.

Il  PCIT è stato pensato per bambini dai 2 agli 8 anni, con un ampio raggio di comportamenti ed emozioni problematiche in concomitanza a difficoltà familiari, diviso in due fasi precise: la Child-Directed Interaction (CDI) e la Parent-Directed Interaction (PDI).  La prima fase si concentra sul bambino e sul potenziamento dell’attaccamento sicuro genitore-figlio, la seconda sottolinea l’importanza di un uso coerente della disciplina e delle direttive impartite dal genitore.

I fondamenti teorici del CDI si ritrovano nella teoria dell’attaccamento e nel principio secondo il quale negli anni prescolari il bambino è più suscettibile alle risposte date dal genitore piuttosto che a quelle fornite dai pari o dalle figure di riferimento scolastiche e ciò influenza in modo determinante le sue risposte comportamentali (Eyberg, Schumann, & Rey, 1998). Si ritiene inoltre che i comportamenti problematici siano mantenuti da uno stile relazionale coercitivo che si instaura nella diade genitore-figlio, in cui entrambe le parti cercano di sovrastare e controllare il comportamento dell’altro (Patterson, DeBaryshe, & Ramsey, 1989).

Lo scopo del trattamento è quello di ridurre i comportamenti problematici attraverso l’insegnamento di nuove modalità di rinforzo positivo che il genitore potrà attuare con il figlio, così da aumentare il senso di efficacia di quest’ultimo. L’ acquisizione di queste tecniche avviene in un setting in cui il terapeuta guida attivamente il caregiver. In questo modo l’adulto riceve un feedback immediato sull’efficacia dei rinforzi appresi e sarà poi in grado di ripeterli autonomamente anche all’interno del contesto domestico.

Sono previste sessioni settimanali di un’ora, per un trattamento medio di circa 14 incontri (con un minimo di 10 e un massimo di circa 20 sedute), tuttavia i genitori proseguono l’intervento fino a quando non mostrano di aver imparato a padroneggiare adeguatamente il metodo.

Gli obiettivi principali della terapia parent-child interaction rispetto al bambino sono:

  • Costruire una relazione genitore-figlio basata su strategie positive di attenzione;
  • Abbassare il livello di frustrazione e rabbia del bambino;
  • Aiutare il bambino a sentirsi al sicuro e calmo nella relazione col caregiver;
  • Accrescere l’autostima del bambino e le sue competenze nel gioco (Hood & Eyberg, 2003).

Gli obiettivi principali della terapia parent-child interaction rispetto all’adulto sono:

  • Insegnare al genitore tecniche specifiche che possano aiutare il bambino ad ascoltare le istruzioni e a seguire le consegne;
  • Aiutare i genitori a sviluppare maggior confidenza nella gestione dei comportamenti del figlio sia a casa che in pubblico;
  • Insegnare al genitore a comunicare con un bambino con attenzione relativamente breve;
  • Educare il genitore a insegnare nuove competenze al proprio figlio senza che questo causi frustrazione in entrambi (Hood & Eyberg, 2003).

Nella pratica questa terapia viene condotta in un setting che prevede due stanze connesse l’una con l’altra attraverso uno specchio unidirezionale cosicché il terapeuta possa coadiuvare l’interazione della diade senza interferirvi.

Per entrambe le fasi CDI e PDI sono previsti momenti di psicoeducazione dove vengono spiegati i fondamenti teorici alla base delle nuove abilità relazionali che verranno insegnate ai genitori, a ciò si alternano modeling e role-playing.

Nel corso della CDI  si incrementa la capacità dell’adulto di dare attenzione positiva e di rinforzo ai comportamenti positivi del figlio riservando minor peso a quelli negativi.

Vengono fornite delle indicazioni su frasi di lode che il genitore può usare per rinforzare  i comportamenti desiderabili, contemporaneamente viene spiegato come parafrasare e mettere in parola il linguaggio del bambino, così che esso riesca ad esprimere attraverso il canale verbale le sue emozioni e trovare quindi sfogo anche attraverso le parole e non solo agendo azioni distruttive. (Herschell et al., 2002)

Al fine di non focalizzare troppo l’attenzione sui comportamenti negativi viene consigliato di evitare comandi eccessivamente fermi, domande o critiche che possano essere vissute come troppo intrusive.

In seguito alla prima sessione terapeuta e genitore comunicano attraverso un set wireless dove il terapeuta è fornito di microfono e il genitore di un auricolare, è così possibile una comunicazione attiva dove il terapeuta consiglia passo dopo passo le tecniche specifiche.

I primi cinque minuti di ogni sessione vengono registrati per controllare l’andamento dell’apprendimento, riportando ogni abilità specifica in un grafico che serve da immediato feedback. Sono inoltre previsti degli homework che consistono in 5 minuti al giorno di interazione bambino-genitore nei quali quest’ultimo possa mettere in pratica le competenze apprese in seduta (Chaffin, Funderburk, Bard, Valle & Gurwitch, 2011).

La parent child interaction therapy offre la possibilità di partecipare a sessioni di gruppo (90 minuti) nelle quali sono presenti 3 o 4 famiglie e in cui si lavora per circa 20 minuti con ogni diade mentre il resto dei genitori osservano e forniscono a loro volta feedback.

L’efficacia della PCIT è stata provata statisticamente e clinicamente da un significativo miglioramento delle tecniche interazionali dei genitori e dei comportamenti dei bambini sia a scuola che a casa (Eisenstadt, Eyberg, McNIel, Newcomb, & Funderburk,1993), i genitori inoltre riportano maggiore fiducia nelle loro capacità di far fronte ai comportamenti aggressivi dei figli, alla frustrazione e al distress di entrambi.

Cognitive Problem-Solving Skills Training (CPSST) per il trattamento del disturbo oppositivo provocatorio

Il Cognitive problem-solving skills training (CPSST) è una modalità di trattamento del disturbo oppositivo provocatorio che si inserisce nell’ambito dell’approccio cognitivo – comportamentale.

L’intervento si pone lo scopo di ridurre i comportamenti inappropriati e dirompenti attraverso l’insegnamento di nuovi metodi per far fronte a situazioni fortemente attivanti per il bambino.

Il presupposto teorico alla base consiste nel ritenere che le persone con disturbi della condotta e aggressività presentino delle distorsioni nei processi cognitivi e per tale motivo vengono offerte un’ampia gamma di alternative cognitive che possano di conseguenza generare soluzioni alternative ai problemi interpersonali, esercitando i ragazzi a soffermarsi sulle conseguenze delle proprie azioni, identificando il significato dei propri e altrui gesti e la percezione di cosa possono provare gli altri (Kazdin, 1997). L’approccio cognitivo pone l’attenzione sul modo in cui l’individuo percepisce, decodifica e fa esperienza del mondo. L’aggressività non è di per sé dettata dagli eventi, ma piuttosto dal modo in cui vengono percepiti e processati, attribuendo ostilità intenzionale negli altri (Crick & Dodge, 1994). Il bambino è spinto ad esplorare nuove possibilità, sino a quel momento mai prese in considerazione, che non prevedono l’uso di risposte negative, facendole diventare parte integrante delle sue possibilità di azione.

Spesso il bambino con disturbo oppositivo provocatorio presenta infatti una gamma ristretta di risposte agli stimoli del mondo esterno, motivo per cui persevera nell’uso di quelle negative. Usando sia tecniche cognitive che comportamentali e focalizzando l’attenzione sul bambino più che sulla coppia genitoriale o sulla triade, la CPSST aiuta i ragazzi ad accrescere il loro autocontrollo su pensieri, azioni ed emozioni ed a interagire in modo appropriato con coetanei ed adulti esplorando nuove prospettive e soluzioni. Le nuove tecniche di problem solving intervengono nel mettere in discussione i pensieri disfunzionali e di conseguenza modificano i comportamenti (Kazdin, 1996).

Seppure esistano diverse variazioni di questo metodo, assunti costanti sono l’approccio step-by-step per far fronte ai problemi interpersonali, volto a porre l’attenzione su determinati aspetti del prblema che portano alla definizione di una effettiva soluzione. Le nuove soluzioni prosociali adottate (modeling e rinforzo diretto) sono parte integrante della terapia. E’ previsto l’uso di giochi, attività e storie al fine di metabolizzare e far proprie le nuove capacità apprese (Kazdin, 1997).

Durante il trattamento il bambino viene visto settimanalmente per circa un’ora per un periodo che varia da qualche mese a un anno. La parte cognitiva del progetto consiste nel cambiare la sua visione fallace e ristretta della quotidianità, confrontando le interpretazioni irrazionali relative al comportamento degli altri, disputando gli assunti disfunzionali che sottostanno ai comportamenti problematici ed elaborando insieme al terapeuta soluzioni alternative. Partendo da un esempio puntuale (come una sospensione per aver attaccato fisicamente un compagno) il terapeuta analizza l’accaduto col ragazzo indagando pensieri ed emozioni provate in quel contesto. Ripercorrendo un singolo accaduto si focalizza l’attenzione sul ruolo attivo che ha avuto il ragazzo nell’interazione (in questo caso con il compagno), così da migliorare il suo insight. La riflessione viene quindi indirizzata verso l’interno e non più verso i fattori esterni. Attribuendo importanza al proprio contributo nella relazione, si investe il bambino di un nuovo valore, inoltre è di fondamentale importanza scardinare l’immagine rigida e globale che il ragazzo ha di sé come “cattivo” (Kazdin, 1996).

Gli aspetti comportamentali invece interessano il modeling di nuove condotte positive, il role-playing e l’utilizzo di ricompense per le nuove condotte apprese. Vengono valutate insieme una gamma di possibilità alternative di reagire agli stimoli attivanti attraverso un brainstorming fra ragazzo e terapeuta, stabilendo insieme ogni passo in direzione dell’obiettivo stabilito.

Al bambino vengono inoltre assegnati degli homework volti a implementare i nuovi modi di pensare e di agire elaborati in seduta, egli dovrà metterli in pratica a casa, a scuola e con il gruppo dei pari. Può venir data consegna di appuntarsi per alcuni giorni i pensieri negativi che possono accorrere. Il terapeuta può chiedere al bambino di fare un esperimento: provare a mettere in atto uno dei pensieri e comportamenti alternativi visti insieme e comparare i risultati dati dalla loro applicazione. Il bambino verrà premiato nella seduta seguente con lodi, abbracci, o punti guadagnati che lo avvicinano ad una ricompensa prestabilita (Kazdin, 1997).

Social Skills Training per il disturbo oppositivo provocatorio

Un ulteriore intervento per il disturbo oppositivo provocatorio è quello incentrato sul potenziamento delle competenze sociali (Social Skills Training), che insegna dunque al bambino ad interagire in una modalità maggiormente positiva ed adeguata con i pari.

Questa tipologia di intervento risulta particolarmente efficace quando viene condotta in un contesto di vita abituale del bambino, come la scuola o il gruppo di coetanei di riferimento, al fine di ottenere una maggiore generalizzazione degli apprendimenti (AACAP, 2009).

Si tratta di un modello di intervento di derivazione comportamentista il cui fondamento teorico consiste nel ritenere che i bambini possano apprendere ed utilizzare nuove competenze attraverso l’osservazione, l’ascolto e il modellamento. Inoltre si ritiene che l’utilizzo di vari rinforzi può incrementare la frequenza dei comportamenti desiderati (Smith, 1996).

Il ricorso a programmi di apprendimento delle abilità sociali si basa sull’evidenza che spesso la sintomatologia del disturbo oppositivo provocatorio interferisce significativamente con il funzionamento sociale in quanto molti bambini e adolescenti con tale patologia mostrano specifiche difficoltà nel riconoscimento e nella valutazione degli indizi sociali (Tasman et al, 2015). In particolare tendono ad interpretare in una modalità distorta, tipicamente come minaccia, gli eventi e l’ambiente circostante (Hendren, 1999).

Un intervento di Social Skills Training si pone pertanto come obiettivo quello di potenziare la flessibilità, le competenze relazionali e la tolleranza alla frustrazione per aiutare bambini e adolescenti a ridurre i comportamenti problematici derivanti da una incapacità di gestione della rabbia e a contenere il loro approccio di sfida alle regole (AACAP, 2009).

Tale obiettivo viene perseguito ricorrendo all’utilizzo di quattro tecniche principali (Marini, 2015):

  • La dimostrazione dell’uso appropriato delle abilità target. Tali abilità dovranno essere selezionate sulla base di obiettivi adeguati all’età di sviluppo del paziente, al contesto ambientale in cui è inserito e ad una accurata osservazione e raccolta di informazioni su quelli che sono i comportamenti che maggiormente ne compromettono il funzionamento(Smith, 1996);
  • Role-playing del paziente nelle situazione interpersonali;
  • Interventi di feedback correttivo;
  • Rinforzo.

Un particolare esempio di training delle abilità sociali impiegato nel trattamento del disturbo oppositivo provocatorio è il Training Sostitutivo dell’Aggressività – Aggression Replacement Training ART (Goldstein, Glick & Rainer 1987) , che integra strategie intente a promuovere l’uso positivo delle competenze sociali, la gestione della rabbia e il ragionamento morale, al posto di alternative comportamentali oppositive o aggressive (Flamez & Sheperis, 2015).

Il metodo ART è un programma strutturato e multi modale che combina l’uso di tecniche di terapia cognitiva e di terapia comportamentale.

Secondo gli autori di tale trattamento, i comportamenti aggressivi si costituiscono di una componente affettiva, una comportamentale ed una cognitiva. Dunque il programma si propone di intervenire su tutti i diversi aspetti coinvolti,  insegnando comportamenti prosociali, che interessano la componente comportamentale, il controllo della rabbia, che riguarda la componente affettiva e il ragionamento morale che fa riferimento alla componente cognitiva (Goldstein et al 1987).

Sviluppando il ragionamento morale si impara ciò che non si deve fare, con le tecniche di autocontrollo si interrompe l’automatismo tra provocazione e aggressività e quindi si impara come riuscire a evitare di fare ciò che non si deve, con l’apprendimento delle abilità sociali si impara con cosa sostituire la propria aggressività (Manin, 2004).

In accordo con il manuale originario (Goldstein, Glick & Rainer 1987) il programma ART si articola in 10 settimane, con 30 ore complessive di intervento svolto in gruppi di 8-12 ragazzi, per tre volte alla settimana.

Nel dettaglio, la componente comportamentale dell’ ART consiste in un training di abilità sociali, volto ad insegnare il comportamento pro-sociale ai soggetti che mancano di tali competenze o mostrano una specifica fragilità su questi aspetti (Kaunitz et al 2010). A livello teorico il metodo è fondato sulla teoria dell’apprendimento sociale di Bandura (1973).

Il manuale fornisce una checklist composta di 50 competenze sociali desiderate per permettere di identificare su quali i soggetti sono carenti e pertanto su quali dovrà essere incentrato l’intervento. Viene comunque garantita una certa flessibilità per poter modificare o sostituire alcune di tali competenze in base alle specifiche caratteristiche dei singoli pazienti (Kaunitz et al 2010).

Le competenze sociali che i ragazzi apprendono attraverso questo specifico training rientrano in una delle 6 categorie che compongono l’intero programma e comprendono (Goldestein, 1994):

  1. Abilità sociali iniziali (ad esempio, iniziare una conversazione, presentare se stessi, fare una complimento).
  2. Abilità sociali avanzate (ad esempio, per chiedere aiuto, scusarsi, dare istruzioni).
  3. Competenze per la gestione delle emozioni (ad esempio, affrontare la rabbia di qualcuno, esprimere affetto,gestire la paura).
  4. Alternative alla aggressività (ad esempio, rispondendo alle prese in giro, la negoziazione,aiutare gli altri).
  5. Competenze per affrontare lo stress (ad esempio la preparazione per una conversazione stressante).
  6. Capacità di pianificazione (ad esempio, definizione degli obiettivi, il processo decisionale).

La componente del programma relativa alla gestione della rabbia ha invece i suoi fondamenti teorici  nei primi lavori sul controllo dell’aggressività di  Novaco (1975) and Meichenbaum (1977).

Si tratta di un programma costituito da più fasi sequenziali. I soggetti vengono prima aiutati a comprendere come in genere tendano a percepire ed interpretare il comportamento degli altri in una modalità che suscita rabbia. Dunque il lavoro si concentra inizialmente sulla capacità di identificare i trigger interni ed esterni che innescano le reazioni aggressive.

Si lavora poi sul riconoscimento degli indizi fisici (ad esempio la contrattura dei muscoli) che permettono al bambino/ragazzo di comprendere che l’emozione che sta sperimentando è quella della rabbia. Successivamente viene introdotto l’uso di promemoria come le auto-indicazioni (ad esempio “stai calmo”) o la spiegazione del comportamento degli altri in modo non ostile insieme all’introduzione di tecniche volte alla riduzione della rabbia, come la respirazione profonda, il conteggio all’indietro, l’immaginazione di una scena pacifica o delle conseguenze del proprio comportamento, tecniche di cui il terapeuta mostra il corretto utilizzo (Kaunitz et al 2010).

Infine si insegna ai pazienti la tecnica dell’autovalutazione, ovvero a lodare o premiare se stessi in tutti quei casi in cui si è riusciti a mettere in atto un’adeguata gestione della rabbia (Goldestein, 1994).

Infine la terza componente del programma ART, il training sul ragionamento morale, si fonda sul modello teorico di Kohlberg (1973) di sviluppo della morale.

Lo scopo è quello di incrementare il ragionamento morale per rendere l’individuo in grado di prendere decisioni più adeguate in situazioni sociali.  Tale scopo viene perseguito attraverso discussioni di gruppo su dilemmi di natura morale. Concretamente il conduttore del gruppo presenta dilemmi in cui i soggetti possono scegliere tra diverse alternative di comportamento motivando la propria scelta. Il manuale fornisce dieci situazioni strutturate in modo da offrire ai partecipanti del gruppo la possibilità di considerare il punto di vista degli altri (Kaunitz et al 2010).

Trattamento farmacologico per il disturbo oppositivo provocatorio

E’ possibile intervenire nel trattamento del disturbo oppositivo provocatorio anche attraverso il ricorso alla terapia farmacologica. Va tuttavia sottolineato come ad oggi non esistono specifici farmaci per il trattamento del disturbo oppositivo provocatorio e il solo utilizzo del farmaco non è stato dimostrato efficacie come modalità di intervento per questa patologia (AACAP, 2009).

I farmaci possono essere utilizzati come parte di un trattamento più ampio ed integrato, sopratutto nei casi in cui sono presenti altri disturbi in comorbidità (Connor, 2002; Pappadopulos et al., 2003, Schur et al., 2003, Steiner et al., 2003) come il disturbo da deficit di attenzione ed iperattività (ADHD), disturbi d’ansia o disturbi dell’umore.

I farmaci principalmente utilizzati sono gli psicostimolanti, gli stabilizzatori dell’umore e gli antidepressivi. I primi, in particolare il Ritalin, vengono utilizzati nei casi di comorbidità tra disturbo oppositivo provocatorio e ADHD e si sono dimostrati efficaci nel ridurre la sintomatologia comportamentale (Connor & Glatt, 2002;Newcorn et al., 2005).

Mentre un numero più limitato di ricerche suggerisce che l’uso di stabilizzatori dell’umore e antidepressivi possa essere d’aiuto nel trattamento di bambini e adolescenti che oltre ad un disturbo oppositivo presentano anche disturbi d’ansia o dell’umore, come il disturbo bipolare o una depressione maggiore (Steiner et al., 2003, Steiner et al., 2003).

Infine nonostante la mancanza di ricerca in merito, gli antipsicotici atipici come ad esempio il Risperidone rappresentano ad oggi il farmaco principalmente prescritto per il trattamento dei comportamenti aggressivi associati al disturbo oppositivo provocatorio.

Tuttavia è importante sottolineare come i comportamenti aggressivi e oppositivi possano in alcuni casi riflettere temporanei cambiamenti ambientali. Utilizzare pertanto farmaci in queste circostante può indurre una erronea attribuzione di efficacia alla terapia farmacologica piuttosto che ad una stabilizzazione del contesto ambientale e dunque può determinare una non necessaria esposizione dei bambini ai possibili effetti collaterali del farmaco (AACAP, 2009).

Conclusioni

Diverse sono dunque le possibilità di intervento nel trattamento del disturbo oppositivo provocatorio. L’integrazione di modalità differenti rimane tuttavia l’approccio d’elezione e con una maggiore efficacia riscontrata (ACCAP,2009).

Date le importanti ricadute che la sintomatologia caratteristica del disturbo oppositivo provocatorio può avere nel funzionamento a lungo termine del bambino e dunque in età adulta, rimane fondamentale che l’identificazione e il trattamento del disturbo siano precoci e che si prediligano interventi evidence-based.

Ciascun trattamento proposto, rappresenta una possibilità di intervento che la lettura riporta come efficace per il disturbo oppositivo provocatorio, con o senza altre patologie in comorbidità. Tuttavia l’applicazione di tale protocolli non dovrebbe avvenire in maniera meccanica e acritica ma risulta fondamentale, per la buona riuscita dell’intervento, modulare la procedura rispetto alle caratteristiche e le specifiche peculiarità del bambino e della sua famiglia.

Infine si ricorda che il trattamento farmacologico, pur non essendo considerato d’elezione per il disturbo oppositivo provocatorio, rimane comunque una possibilità da valutare da parte di un neuropsichiatra infantile, nei casi in cui la sintomatologia sia particolarmente grave ed invalidante e/o siano presenti altre patologie associate che compromettono significativamente il funzionamento del bambino.

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