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Amnesia

L'amnesia indica la perdita o diminuzione notevole della memoria e può essere estesa a tutti i ricordi o parziale, transitoria o stabile, anterograda o retrograda.

Definizione e tipologie di amnesia

L’amnesia indica la perdita o diminuzione notevole della memoria, sia generale, estesa cioè a tutti i ricordi, sia parziale, limitata a determinati ricordi, nomi, ecc; nel linguaggio medico si distinguono: l’amnesia lacunare, che colpisce isolatamente gruppi di ricordi; l’amnesia retrograda, che inibisce la rievocazione di ricordi precedenti l’avvenimento che l’ha causata; l’amnesia anterograda, che provoca l’incapacità di ricordare fatti successivi all’evento vissuto (Treccani).

L’amnesia si osserva in alcune malattie cerebrali, a seguito di traumi cranici o di difetti di circolazione. A seguito di una commozione cerebrale è possibile che non si ricordino i momenti che hanno preceduto o seguito l’evento traumatico. Tale amnesia con il tempo può ridursi fino a scomparire del tutto.
Anche negli anziani è possibile che si osservi un’amnesia anterograda rispetto ai ricordi del passato recente, mentre permane una buona memoria dei ricordi più lontani nel tempo (Dizionario della salute).

Amnesia: definizione e tipologie della perdita della memoria

L’amnesia presenta delle specificazioni anche di tipo temporale: l’amnesia transitoria, può sopraggiungere nel caso di un evento traumatico ed è possibile che avvenga un ritorno graduale alle funzionalità antecedenti l’evento; l’amnesia stabile invece può avvenire a seguito di un evento grave, ad esempio un arresto cardiaco; l’amnesia progressiva invece caratterizza le malattie degenerative, che prevedono un peggioramento progressivo della perdita della memoria.

Altre tipologie di amnesie che è possibile riscontrare sono:
– l’amnesia dissociativa: avviene quando una persona dimentica non solo il proprio passato ma anche la propria identità; chi è affetto da amnesia dissociativa può temporaneamente non riconoscersi e non sapere più chi sia; generalmente i ricordi ritornano abbastanza velocemente o nel giro di pochi giorni;
– l’amnesia infantile: non si ricordano eventi della prima infanzia, probabilmente a causa di problemi nello sviluppo del linguaggio o di alcune aree della memoria durante l’infanzia;
– l’amnesia post-ipnotica: non si ricordano gli eventi avvenuti durante l’ipnosi;
– la prosopoagnosia: non si ricordano i volti delle persone.

L’amnesia infantile

Il fenomeno dell’ amnesia infantile, ovvero la comune incapacità da parte degli adulti di avere accesso consapevole alle prime memorie autobiografiche infantili, sembrerebbe non essere attribuibile ad un semplice processo di decadimento del ricordo dovuto all’età, quanto piuttosto a fattori socio-culturali.

Da quando inizia il nostro passato? Nonostante l’apparente ovvia riposta, ovvero dal momento della nostra nascita, la realtà, da un punto di vista psicologico, cognitivo ed evolutivo non lo è affatto.

Infatti, già Freud (1905/1949) pose in essere il dilemma della così detta amnesia infantile, ovvero quel fenomeno descritto dalla comune incapacità da parte degli adulti di avere accesso consapevole a memorie autobiografiche, ovvero relative a se stessi, ricordate da “sé”, senza l’assistenza di altri o perché si vedono foto o altri supporti mnemonici, relative ai primissimi anni di vita.

L’assenza di ricordi relativi alla nostra infanzia: amnesia hard e amnesia soft

Il fatto di non riuscire a ricordare, in quanto adulti, i primi eventi della nostra vita è tutt’oggi considerato un dilemma scientifico. Infatti, a differenza degli adulti, i bambini di 2 o 3 anni di età sono capaci di ricordare eventi personali o informazioni su dì sé per considerevoli periodi di tempo (Fivush, Gray, & Fromhoff, 1987), mentre gli adulti generalmente mostrano un impoverimento dei propri ricordi presenti nel periodo di età dai 0-3 anni, il così detto periodo di amnesia hard.

I ricordi divengono più frequenti invece nel periodo 3-6 anni, anche detto periodo dell’ amnesia soft, per poi divenire accessibili quasi a chiunque dall’età dei 6 anni  (Davis, Gross, & Hayne, 2008). L’età dei 6 anni è universalmente considerata la childhood amnesia boundary, ovvero il momento di cut-off del nostro passato, la fine pressoché universale, per quasi chiunque, della linea d’ombra che secreta l’assenza quasi totale dei ricordi a favore dei primi episodi che ricordiamo di noi stessi, quali ad es. il primo giorno di scuola, un gioco fatto da soli in cortile, una festa di compleanno, ecc.

E’ interessante notare come tali ricordi, pur essendo così importanti da decretare di fatto l’inizio ufficiale del nostro passato, siano spesso eventi banali o apparentemente insignificanti se giudicati dai nostri occhi di adulti, anche se alcuni ricercatori hanno ipotizzato non lo fossero al momento in cui  furono vissuti da bambini (Davis et al., 2008).

Amnesia infantile: l’influenza di fattori individuali e culturali

Tale fenomeno di discontinuità nella presenza dei nostri ricordi autobiografici in differenti epoche della nostra infanzia (0-3 e 3-6) non è affatto attribuibile ad un semplice processo di decadimento del ricordo dovuto all’età (Howe, 2012). Tornando quindi alla domanda iniziale, dobbiamo pensare che in effetti capire quando e dove inizia la nostra memoria autobiografica, in quanto esseri umani, è di fondamentale importanza, si pensi infatti che la memoria autobiografica è psicologicamente legata al nostro senso di sé e quindi alla nostra identità.

E’ di fatto la quintessenza del chi sono io, domanda a cui per rispondere ci rifacciamo ai ricordi del nostro passato, a chi erano i nostri genitori, a come è stato il nostro periodo scolastico, chi erano i compagni dell’asilo e cosa facevamo con loro, agli eventi significativi che hanno segnato, nel bene e nel male, la nostra vita fino all’oggi. Quindi riflettere sul fatto che il nostro passato non inizia con la nostra nascita biologica apre in realtà molte domande, soprattutto poi riflettendo su come persone diverse iniziano ad avere primi ricordi autobiografici ad età differenti e, non solo, che addirittura persone appartenenti a diverse culture hanno un cut-off di amnesia infantile a differenti età.

Quando viene chiesto a persone appartenenti a diverse culture di datare la loro prima memoria autobiografica (“qual è la prima memoria che hai di te?”), culture diverse riportano per l’appunto età differenti di prima memoria infantile e, dal momento che la comparsa del nostro primo ricordo nonché quanti ricordi riusciamo ad avere (densità delle memorie) decretano la durata del periodo di amnesia infantile, ciò significa che il fenomeno dell’ amnesia infantile decade ad età diverse in base a fattori sia individuali (una certa persona all’interno della stessa cultura può avere la prima memoria ad es. a 2 o a 6 anni), sia collettivi, quali l’appartenenza a diversi gruppi culturali.

Tali studi, ci fanno riflettere su una questione cruciale, ovvero che se l’ amnesia infantile, e quindi la dimenticanza dei primi anni di vita, fosse un fatto attribuibile a sole motivazioni neurobiologiche, quali il non avere ancora un apparato neurocognitivo e funzioni mnemoniche complete da un punto di vista evolutivo, non si spiegherebbe perché invece i bambini anche a pochi mesi di vita sono in grado di formulare dei ricordi (pur basici) e perché culture diverse hanno età diverse di fine del periodo di amnesia infantile.

Possibili spiegazioni del fenomeno dell’ amnesia infantile

Perché allora tale varietà nell’inizio del nostro passato? Freud ipotizzava che l’ amnesia dei primi anni fosse dovuta all’impossibilità di ricordare, in quanto adulti, pensieri e pulsioni sessuali infantili, ovvero pose in essere la classica ipotesi della rimozione dei contenuti inaccettabili (Freud, 1899). Teorie più recenti hanno enfatizzato invece fattori socio-culturali e linguistici (e.g. (Fivush & Nelson, 2004) e cognitivi e del Sé (e.g. (Conway, 2005) i quali danno maggiore acconto di ciò che rende tali memorie autobiografiche infantili accessibili dal così detto periodo dell’ amnesia infantile, dove molti hanno quindi scarsi o nessun ricordo.

In particolare, Howe e Courage (Courage & Howe, 2004) propongono che lo sviluppo di un sé cognitivo, strutturato attorno alla distinzione tra Io e me che avviene attorno ai 2- 3 anni di età, sia un punto critico nel provvedere un’organizzazione strutturale attorno cui le memorie possano poi essere rappresentate successivamente e quindi ricordate.

L’età dei 2-3 anni, ovvero l’età in cui mediamente è possibile ricordare un primo episodio da adulti, è anche l’età di cui di norma il linguaggio diviene pienamente sviluppato, il che ha un profondo impatto sull’accessibilità di un ricordo, rendendo l’evento verbalmente accessibile. Inoltre, l’emergere del linguaggio apre ad una nuova serie di possibilità di interazione con gli altri, specialmente l’attività di condivisione di memorie e storie famigliari con genitori e parenti, con importanti conseguenze per la successiva accessibilità di tali eventi più tardi nella vita (Fivush & Nelson 2004).

L’interazione complessa tra lo sviluppo del sé, l’emergere delle abilità linguistiche e le interazioni sociali con gli altri significativi per il bambino possono essere tutti fattori influenzati dai costrutti culturali e pratiche socialmente condivise in un dato contesto socio-culturale, i quali, a loro volta, finiscono con l’avere un peso nel facilitare o attenuare l’accesso delle memorie una volta adulti.

La prospettiva socioculturale suggerisce che la cultura ponga enfasi in maniera differente sull’importanza del passato personale dei membri che appartengano ad un determinato gruppo culturale e che quindi ciò abbia un peso nell’emergere del ricordo e nell’accessibilità delle memorie infantili una volta adulti.

In accordo con la tradizione Occidentale, per esempio, una funzione critica della nostra memoria sarebbe definire chi siamo e sviluppare una identità unica. Già Hume (“Opere filosofiche. Vol. 1,” 1739/1882) nel suo Trattato sulla Natura Umana, proclamava l’importanza della memoria a tal fine: “Se non avessimo nessuna memoria, non avremmo nessuna nozione… o catena di cause ed effetti la quale costituisce il nostro senso di sé come persone”.

Le memorie autobiografiche, costituiscono una esperienza distintiva e personale, che permette agli individui di differenziarsi gli uni dagli altri, servendo quindi quali importanti costituenti della creazione di un sé autonomo ed unico. In altre culture invece, quali quelle dell’Est-Asia, la memoria autobiografica non è tradizionalmente centrale al senso della propria identità: si parla in tal caso di culture collettivistiche vs. individualistiche (quali quelle Occidentali), ovvero maggiormente definite da un senso di identità collettiva, che si fonda sull’armonia delle azioni gruppali verso gli altri, e non sull’emergere di uno spiccato senso di individualità del sé (Markus & Kitayama, 1991).

Tale differente visione del sé nelle diverse culture, potrebbe influenzare l’importanza che le persone danno ai loro ricordi autobiografici e riflettere quindi le differenti età di affioramento del proprio ricordo infantile una volta adulti.

L’età di insorgenza delle prime memorie autobiografiche si attesta infatti anche molto dopo i 6 anni in culture Asiatiche, per abbassarsi invece attorno ai 3 anni e mezzo anni nelle culture Nord-occidentali. Ovvero, laddove un senso di sé che privilegia l’autonomia, l’unicità, l’individualità può motivare gli individui a porre attenzione ed enfasi sui propri ricordi passati per definire chi sono ora. Culture che privilegiano il senso dell’armonia collettiva ed il ruolo sociale nel gruppo, per contro, porrebbero invece più enfasi alle regole sociali e comunitarie, alla solidarietà collettiva e meno a ciò che rende ogni individuo unico. Ciò potrebbe contribuire a spiegare il periodo maggiormente lungo di amnesia infantile delle culture Asiatiche.

Una interessante eccezione può però essere notata esaminando la tabella: in uno studio Neozelandese, MacDonald, Uesiliana ed Hayne, (2000) trovarono che i Maori della Nuova Zelanda ricordavano memorie datate attorno ai 2 anni e mezzo di età, quindi profilandosi come la popolazione attualmente studiata con la memoria più precoce tra quelle globalmente indagate scientificamente. La cultura Māori, hanno argomentato le ricercatrici, si denota come una cultura che pone estrema importanza sul passato, come si evince da narrazioni orali tramandate dagli anziani e dalla forte importanza posta al tramandare le tradizioni dei propri antenati e ai legami famigliari. Tale attività di racconto delle origini e del proprio passato è anche fortemente incoraggiata dalla intera comunità Māori contemporanea, attraverso celebrazioni rituali collettive e codificate culturalmente.

Ciò faciliterebbe il ricordo di memorie infantili più precoci rispetto ad altri gruppi culturali, pur notando che nella cultura Māori l’enfasi viene posta sull’appartenenza d un gruppo famigliare anche in senso esteso fino agli antenati e non sull’individuo in senso propriamente occidentale. L’altra interessante eccezione concerne lo studio con partecipanti Giapponesi, i quali ripropongono un’età media del primo ricordo simile alla loro controparte Europea.

Amnesia infantile: l’influenza delle pratiche narrative familiari

Secondo la prospettiva socioculturale dello sviluppo della memoria autobiografica, l’influenza sul ricordo inerente la visione culturale del proprio senso di sé ha inizio con le pratiche familiari narrative precoci (Mullen & Yi, 1995). Quando condividono i propri racconti e memorie con i loro bambini, madri Americano-Europee spesso si è visto utilizzano uno stile di conversazione definito elaborativo, ovvero provvedono a dare informazioni aggiuntive al linguaggio utilizzato dal bambino per ricordare, creando una specie di struttura basilare portante che struttura il ricordo del piccolo. Spesso inoltre aggiungono considerazioni sui gusti, emozioni e le preferenze che attribuiscono ai loro figli che essendo piccoli non esprimono ancora compiutamente da sé.

Le madri di origine Asiatica tenderebbero invece all’opposto a utilizzare un tipo di dialogo più pragmatico, orientato alla prova inerente l’oggetto della conversazione, dove assumono un ruolo direttivo nel ricordo, ponendo domande chiuse al bambino (mentre nello stile elaborativo la madre poneva più domande aperte, volte al maggiore insight mnemonico). Negli studi effettuati (Mullen & Yi, 1995), le madri Asiatiche discutevano inoltre maggiormente ruoli e norme sociali attese o disattese dal bambino (es. Sei stato bravo a scuola o Non hai rispettato l’ insegnante), laddove le madri Americane-Europee ponevano maggiori enfasi su giochi e preferenze del bambino (es. Sei un bravo giocatore di pallone! Ti è piaciuto vedere lo zio).

Gli studiosi socioculturali hanno trovato come l’incoraggiare il senso di apparenza al gruppo e alle norme sociali desse minor risalto al ruolo della memoria a favore dello sviluppo di senso di appartenenza collettivo, che sarebbe sfavorito dall’emergere e dal porre accento sulle proprie unicità ed individualità. Mentre l’uso di uno stile convenzionale maggiormente elaborativo delle madri predisponeva il figlio a maggiore enfasi allo sviluppo di un sé interdipendente ed autonomo, così come auspicato dai valori propri dell’Occidente. Dato il differente valore e pratiche nelle precoci forme di socializzazione famigliare poste in essere dalle diverse culture a partire da bambini di meno di 3 anni, i bambini Americani-Europei spesso riportavano ricordi più ricchi dei loro coetanei Asiatici.

Pertanto, precoci pratiche narrative famigliari influenzerebbero il perché persone di culture diverse ricordano in modo differente i primi ricordi una volta adulti, giocando un ruolo nel delimitare quando decade quell’ interessante linea d’ombra che decreta il personale inizio del nostro senso di sé, ovvero la questione del fenomeno dell’ amnesia infantile.

L’amnesia infantile in ambito forense: implicazioni per la testimonianza del minore

Tra i diversi mezzi di prova contemplati dal sistema giuridico italiano un ruolo centrale è ricoperto dalla testimonianza, sia in sede penale che in sede civile.

Nel nostro sistema processuale il Giudice ha un ampio potere discrezionale nel valutare quanto dichiarato dal teste e questo compito, pur complesso in ogni caso, lo è particolarmente in relazione ad alcune fattispecie.

È questo il caso in cui un minore assume la duplice veste di vittima e testimone. Tale situazione, che si può presentare nel caso di reato a sfondo sessuale, ha prodotto un incessante dibattito riguardo la “fondatezza” della dichiarazione resa, in quanto la stessa costituisce spesso l’unica prova su cui l’accusa è costruita.

Nel caso in cui il testimone sia un minore vittima di reato, il modus operandi per l’accertamento previsto dal codice è indicato dalla “Carta di Noto”. Tale documento, oltre ad indicare la metodologia da utilizzare nel raccogliere le testimonianze, specifica all’art. 6 che “l’accertamento sulla idoneità a testimoniare deve precedere l’audizione del minore”. Pertanto, prima di procedere all’escussione del teste, al Giudice è suggerito di richiedere una valutazione al fine di accertare se il minore sia nelle condizioni di rendersi conto dei comportamenti tenuti in danno della sua persona, se sia in grado di riferirli e se sia quindi effettivamente in possesso di tutte le capacità necessarie a partecipare coscientemente al proprio esame. In linea con quanto indicato in questo importante documento, nel 2001, la Giurisprudenza di Legittimità (Cass., Sez. III, 23/02/2011, n. 26692, C.E.D. Cass.n.250629)2, ha voluto dare un valore normativo a quanto stabilito nella Carta, i cui principi sarebbero altrimenti non cogenti. Si è posto l’accento sulla naturale attitudine del minore, specie se in tenera età, a contaminare la realtà con la fantasia, contaminazione che può comportare delle modificazioni nella narrazione dei fatti.

La Suprema Corte di Cassazione, negli ultimi decenni, ha effettuato diversi tentativi di sistematizzazione delle analisi psicologiche in tema di testimonianza minorile. Una delle pronunce più importanti è sicuramente la sentenza n. 8962 del 3/10/1997, la c.d. “sentenza Ruggeri”, secondo cui [blockquote style=”1″]la valutazione del contenuto della dichiarazione del minore – parte offesa – in materia di reati sessuali […], deve contenere un esame dell’attitudine psicofisica del teste ad esporre le vicende in modo utile ed esatto, della sua posizione psicologica rispetto al contesto delle situazioni interne ed esterne. Proficuo è l’uso dell’indagine psicologica, che concerne due aspetti fondamentali: l’attitudine del bambino a testimoniare, sotto il profilo intellettivo ed affettivo, e la sua credibilità.[/blockquote] (Cass. Pen., Sez. III., 03/07/1997, n. 8962).

La sentenza Ruggeri oltre a definire in modo preciso e raffinato i parametri che è necessario considerare al fine di valutare l’idoneità psicofisica del minore a testimoniare, fornisce un importante contributo definendo i due concetti di “idoneità” e “credibilità” e differenziando quest’ultima dall’ “attendibilità della prova”. L’esperto chiamato ad effettuare l’indagine psicologica potrà infatti esprimersi solamente sul funzionamento psicologico del soggetto, declinato in svariati aspetti, e sulla possibilità che siano intervenuti dei fattori che abbiano comportato un rischio in relazione alla genuinità di quanto raccontato. Dovrà invece astenersi dal pronunciarsi in merito alla probabilità che il racconto fornito dal soggetto corrisponda effettivamente ad un’esperienza vissuta.

Traducendo i parametri giurisprudenziali in termini cognitivi, la “capacità di recepire le informazioni” comporta l’analisi delle funzioni percettive e attentive di base; la “capacità di raccordarle con altre” è indagata attraverso la valutazione della capacità di ragionamento e pensiero; la “capacità di ricordarle” con l’indagine delle funzioni mnestiche e la “capacità di esprimerle in una visione complessa” è analizzata attraverso la valutazione dell’abilità linguistica. Al fine di valutare tale idoneità è necessario esplorare il contesto familiare e sociale in cui è nato il racconto, come è avvenuta la prima rivelazione, se è avvenuta in modo spontaneo o se è stata sollecitata e se ci sono state modifiche nelle successive ripetizioni, nonché il numero delle ripetizioni. È inoltre di fondamentale importanza indagare le eventuali domande poste al minore da parte di adulti di riferimento per identificare possibili suggestioni che possono essere involontarie, o anche volontarie.

È necessario infine considerare la distanza temporale tra il presunto evento e il momento della deposizione: maggiore è il tempo trascorso tra l’evento ed il momento in cui viene raccolta la testimonianza, più il ricordo sarà affievolito e maggiore sarà la possibilità che si siano insinuate influenze suggestive. In relazione a questo ultimo aspetto, le Linee Guida Nazionali e la Giurisprudenza di Legittimità si allineano, suggerendo di procedere all’ascolto del minore nel più breve tempo possibile. Nel 2010 infatti la Suprema Corte rammenta che, nel caso di reati sessuali su minori, sarebbe opportuno condurre l’indagine psicologica sull’idoneità a testimoniare “in epoca il più possibile vicina ai fatti”, al fine di “evitare il pericolo di rimozione dei ricordi tipico della fase infantile”, di cristallizzare la prova e ridurre al minimo “manovre suggestive, anche inconsapevoli, degli intervistatori” che rischiano di compromettere il narrato (Cass. Pen., Sez. III, 13/04/2010, n. 22007).

In tema di distanza temporale tra presunto evento e testimonianza, la terza sezione della Cassazione Penale, in una recente sentenza, ricorda che l’incombente, ossia l’audizione del minore, dovrebbe essere svolto il più vicino possibile ai fatti o alla loro emersione “per scongiurare il pericolo della nota amnesia infantile per la quale il bambino non è in grado di conservare i ricordi” e per eliminare, per quanto possibile, eventuali contaminazioni mnestiche (Cass. Pen., sez. III, 22/01/2013 n. 3258).

Da questa sentenza emerge come lo stato psichico del minore, soprattutto se in tenera età, sia considerato stabile solo per un tempo limitato e, basandosi su studi neuroscientifici, la Corte ha inoltre concluso che l’impianto psichico del minore in età evolutiva è naturalmente instabile, e che le strutture di personalità sono mobili, si evolvono e si modificano in relazione alla fisiologica progressione delle fasi evolutive. Da tale osservazione deriva che una perizia a distanza di tempo dai presunti fatti potrebbe non essere più utilmente praticabile proprio a causa della mutata condizione della mente infantile (Cass. Pen., n. 3258, citata). Dal riconoscimento della precarietà delle strutture psichiche dei minori in età evolutiva, ne potrebbe conseguire la necessità di una ripetizione dell’accertamento dell’idoneità a rendere testimonianza ogni volta che, per esigenze processuali, debba essere condotta una nuova audizione.

Le memorie traumatiche e il fenomeno dell’oblio

La prima ricerca sull’oblio, è stata condotta dallo studioso tedesco H. Ebbinghaus (1885-1923) che, usando se stesso come soggetto dell’esperimento, apprese un numero sterminato di liste di sillabe senza significato, per verificare quante ne avrebbe dimenticate col passare del tempo.
Per spiegare tale fenomeno, ha proposto la “teoria dell’interferenza”, secondo la quale non sarebbe il tempo ad essere il fattore principale responsabile dell’oblio, bensì l’interferenza che si crea quando ricordi diversi sono associati ad uno stesso elemento. Quando l’apprendimento pregresso (passato) interferisce con il nuovo apprendimento, si parla di “interferenza proattiva”; quando invece è l’apprendimento successivo ad alterare l’apprendimento pregresso, si parla di “interferenza retroattiva”.

Altra ipotesi sviluppata da Ebbinghaus è quella relativa al “mancato immagazzinamento”, per cui alcune informazioni vengono dimenticate in ragione del fatto che non sono mai passate nella memoria a lungo termine. Per spiegare tale fenomeno l’autore ha fatto ricorso al concetto di “consolidamento”, secondo il quale esisterebbero processi biologici che renderebbero stabile una traccia di memoria. Nel momento in cui questi processi vengono in qualche modo contrastati l’informazione presente nella memoria di lavoro non passerebbe nella memoria a lungo termine e verrebbe persa.

Secondo E. Tulving (1974), in aggiunta esisterebbero due tipi di oblio: “l’oblio traccia-dipendente”, nel quale l’informazione non sarebbe più presente nella memoria e “l’oblio suggerimento-dipendente”, nel quale l’informazione troverebbe ancora nella memoria, ma non sarebbe accessibile.

In un’ottica psicoanalitica, d’altro canto S. Freud ha enfatizzato l’importanza dei fattori emotivi e difensivi nell’oblio. Egli sostenne che ricordi angoscianti, avvertiti come minacciosi o causanti ansia, spesso non riescono ad accedere alla sfera della consapevolezza, per ragioni difensive: Freud denominò tale fenomeno “rimozione”.

Appare quindi evidente che il ricordo percorre strade molto soggettive e variegate: a volte affiora nella mente qualcosa di vago, altre volte di molto preciso; altre volte ancora dalla memoria qualcosa che è stato rimosso al fine di difendere la struttura psichica di chi è in possesso dell’esperienza penosa, apparentemente dimenticata: le memorie traumatiche.

Che cosa sono le memorie traumatiche?

Le memorie traumatiche si distinguono dalle memorie normali perché sono composte da immagini, sensazioni, comportamenti, sono immodificabili nel tempo e sono automaticamente portate alla luce con modalità particolari, come ad esempio tramite incubi e flashback. Inoltre, mentre le memorie di eventi ordinari perdono chiarezza con il tempo, alcuni aspetti degli eventi traumatici sembrano fissarsi nella mente rimanendo inalterati nel tempo.
Esse sono rintracciabili in un’estesa serie di fenomeni che solo in parte possono essere ricondotti all’ambito della psicopatologia.

Le memorie traumatiche variano così da forme di “non conoscenza”, in cui l’esperienza del trauma è disconnessa e inaccessibile al ricordo ma nondimeno permea le strategie di difesa e adattamento, a stati di dissociazione in cui il trauma viene rivissuto piuttosto che ricordato, a frammenti di ricordo decontestualizzati e apparentemente privi di senso, alla messa in atto di ripetizioni nelle relazioni oggettuali e nei temi di vita, per arrivare alla possibilità di racconto, testimonianza e metaforizzazione.

Si osserva, che alcune forme di memorie traumatiche non sono connotate da un ricordare consapevole, ma implicano “derivati” più o meno organizzati che sono messi in atto.

Laddove il ricordo può essere evocato consapevolmente e l’evento può quindi essere narrato, assistiamo a livelli diversi di padronanza del ricordo stesso, in rapporto al grado di presenza dell’Io osservante e di integrità delle sue funzioni sintetiche ovvero alla capacità di storicizzazione dell’evento.
Nella sua forma più drammatica, il ricordo traumatico fa mostra di sé nei sintomi di reviviscenza.

Riproducono infatti gli eventi a cui si riferiscono con estrema vivacità e chiarezza, tanto da renderle drammaticamente reali e presenti.
Nella forma più drammatica ed estrema si tratta di vere e proprie visioni quasi allucinatorie della scena traumatica, che il soggetto rivive con intensa e penosa partecipazione emotiva; talvolta di pensieri ossessivi relativi al trauma, che emergono in modo acuto ed intenso occupando interamente il campo della coscienza del soggetto, il quale non riesce in alcun modo a sottrarvisi; assai spesso, infine, di sogni o incubi ripetitivi che riproducono variamente l’atmosfera traumatica.

L’evento traumatico e l’impatto emotivo che ha avuto nella psiche del soggetto, attivano una serie di meccanismi difensivi, oltre alla dissociazione, la rimozione e il diniego, finalizzati a ridurre la consapevolezza di un significato emotivo impossibile da sostenere.
Stanley Cohen scriveva: “La sofferenza rimossa non è veramente dimenticata rimane là da qualche parte, provocando distorsioni, stati patologici interiori e un comportamento simbolico generalmente deteriorato”.

Il “là” a cui si riferisce Cohen è naturalmente l’inconscio, nel quale i contenuti emotivi dell’evento traumatico, diversamente da quanto avviene per il suo ricordo cosciente, sembrano mantenere la sua forza originaria, e da cui emergono attraverso manifestazioni somatiche, causate da un ricordo, depositato nella memoria implicita, di un’esperienza traumatica che basta uno stimolo semplice, per attivare emozioni o sensazioni legate a quell’esperienza traumatica. Non è necessario che questi stimoli siano terrificanti, poiché qualunque sentimento o sensazione legata a un’esperienza traumatica, può fare da innesco nel richiamare la sensazione associata all’esperienza. Le amnesie traumatiche, che comportano l’assenza del ricordo o un ricordo differito dell’evento traumatico o di alcune sue parti, sono stati notati in seguito a incidenti o disastri naturali, a traumi da guerra, ad abusi fisici e sessuali. Quindi l’oblio, viene provocato da un evento traumatico, che ha la funzione di difendere la memoria, tramite amnesia transitoria o retrograda, caratterizzata da emozioni intense.

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