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Neuroestetica: Kandinsky tra arte e cervello – Arte & Neuroscienze

Leggendo gli studi di Semir Zeki sull'applicazione delle neuroscienze all’arte astratta, credo che Kandinsky si avvicini alla figura del moderno neuroesteta

Di Barbara Missana, Costanza Prinetti

Pubblicato il 05 Feb. 2014

Aggiornato il 15 Feb. 2014 12:09

Di Barbara Missana.

 

La Neuroestetica di Kandinsky: tra Arte e Cervello

Kandinsky tra arte e cervello . - Immagine: © Costanza Prinetti 2014
Immagine: Kandinsky e la Neuroestetica – © 2014 Costanza Prinetti

Dopo aver letto gli studi di Semir Zeki circa l’applicazione della ricerca neuroscientifica all’arte astratta, mi sono convinta del fatto che fra i tanti artisti Kandinsky si avvicini alla figura del moderno neuroesteta, specialmente se lo si immagina mentre sottopone punti, linee e superfici ai suoi allievi domandando “riuscite a vedere tali oggetti?”.

La “scoperta” da parte del pittore russo Wassily Kandinsky (1866-1944) del linguaggio astratto è stata segnata da un episodio avvenuto nel 1895 in occasione della mostra degli impressionisti francesi a Mosca. Osservando un quadro della serie I covoni di Monet (realizzata tra 1889 e 1891) non riusciva a capire cosa raffigurasse quella tela poiché il pittore l’aveva dipinta con piccolissimi tocchi di colore, senza linee di contorno, suggerendo appena l’effetto luminoso: quando si avvicinava riusciva ad individuare il pagliaio, ma scopriva che in fin dei conti quel soggetto non fosse poi così importante. Ciò che contava era il modo in cui era stato dipinto e l’effetto che avrebbe suscitato.

Giungeva in questo modo all’astrattismo, divenendone in seguito il Padre, una tendenza in cui i tradizionali soggetti sono sostituiti da macchie colorate e forme liberamente disposte.

Dopo aver letto gli studi di Semir Zeki circa l’applicazione della ricerca neuroscientifica all’arte astratta, mi sono convinta del fatto che fra i tanti artisti Kandinsky si avvicini alla figura del moderno neuroesteta, specialmente se lo si immagina mentre sottopone punti, linee e superfici ai suoi allievi domandando “riuscite a vedere tali oggetti?”.

Quando Zeki ha studiato i dipinti di Mondrian sostenendo che a essi rispondono le cellule della corteccia visiva selettive all’orientazione, quando ha dimostrato che Magritte condusse esperimenti percettivi con la memoria visiva del cervello introducendo una sorta di trompe esprit, ha gettato le basi per un’impresa neurologica dell’arte astratta che ho voluto studiare.

Le conclusioni che Zeki ha tratto dai suoi ben 25 anni di studio del cervello visivo sono che, a livello elementare, quanto accade nel cervello di un individuo intento nell’osservare l’opera astratta è identico a quanto accade in tutti gli altri, motivo per il quale è possibile comunicare anche attraverso questa tendenza artistica.

Kandinsky lo ha fatto con i suoi dipinti: se Zeki ha definito l’arte come rifugio per i concetti, il pittore ben un secolo prima aveva chiarito la sua posizione in favore del contenuto espresso da elementi ideali.

In aggiunta, il fatto che Kandinsky abbia utilizzato ai fini della comunicazione proprio quegli stimoli che si rivelano essere i più efficaci nell’attivazione delle cellule del cervello visivo, rivela il grandissimo sforzo intellettuale che egli ha compiuto.

Un pittore come Kandinsky che nelle sue teorie ha analizzato i componenti primari di ogni forma, “sta essenzialmente osservando l’attività interna della fisiologia del suo cervello visivo”, come ha detto Semir Zeki.

Kandinsky dipingeva quindi col cervello ossia ricercando gli elementi in grado di eccitare tutti gli individui allo stesso modo, rivendicando il principio di un’arte universale e onnicomprensibile.

Nell’articolo La pittura astratta apparso nel 1935 nel num.6 della rivista Kronick van Hedendaagse Kunst en Kultur ad Amsterdam, chiariva che la pittura astratta fosse a suo avviso una “pittura cerebrale”.

Egli vedeva addirittura nell’arte astratta un “progresso nel campo della conoscenza della natura: si tratta di raggiungere, sotto la pelle della natura, la sua essenza, il suo contenuto” e aggiungeva “col tempo sarà dimostrato sicuramente che l’arte astratta non esclude il legame con la natura ma che, al contrario, questo legame è più grande e più intimo di quanto non sia stato negli ultimi tempi”.

Il suo lavoro si può esprimere come una ricerca analitico-sintetica degli elementi puri della costruzione figurativa.

La teoria dell’astrazione pittorica kandinskiana è racchiusa nelle pagine del suo più noto trattato, Uber das Geistige in der Kunst (Lo spirituale nell’arte), scritto nel 1910 a Monaco di Baviera. Cimentandosi nello studio del sensibilismo cromatico, giungeva lo stesso anno a dipingere la sua prima opera astratta, Primo acquerello astratto, un’esplosione caotica di colore, esempio di un’arte che voleva emanciparsi dall’imitazione della natura ponendosi sul piano contenutistico, alla stregua delle composizioni di Schonberg, del colore di Matisse, dell’atmosfera di Wagner e delle esperienze pittoriche di Cezanne e Picasso.

Lo spirituale nell’arte era una dichiarazione filosofica che propugnava una rinascita dell’arte col fine di risvegliare nell’uomo la capacità di cogliere nelle cose astratte l’elemento spirituale.

La scelta di una linea o di un colore, come quella di una parola o di un suono non dipende, secondo il pittore, in modo completo dal libero arbitrio dell’artista ma avviene sulla base di una legge fondamentale che egli definisce come “principio di necessità interiore”, ossia il principio di adozione di quella forma o di quel colore che siano in grado di toccare l’anima dello spettatore.

Questa legge artistica rispecchia gli studi sugli elementi artistici capaci di stimolare la corteccia visiva, e in questo Kandinsky rappresenterebbe una sorta di precursore, seppur il suo lavoro sia un’analisi approssimativa che egli stesso, consapevolmente, sostiene vada approfondita in modo più concreto.

Nella teoria il pittore rivelava tra l’altro la consapevolezza dell’analogia tra la sua arte e la ricerca scientifica coeva: la teoria della relatività aveva allora dimostrato che massa ed energia fossero convertibili reciprocamente e a questo concetto Kandinsky faceva corrispondere la ricerca di forme dinamiche e caotiche, espresse con le macchie di colore.

Le opere di Kandinsky del primo periodo sono state definite per questo motivo dallo storico dell’arte Ernst Gombrich l’equivalente artistico del test di Rorschach, teorizzato proprio in quegli anni e pubblicato nel 1921 nel libro Psychodiagnostik: le macchie di inchiostro e l’arte astratta si rivelano dunque due linguaggi visivi con il comune fine di svelare l’inconscio e il meccanismo con cui la percezione diventa interpretazione e la strada che Rorschach percorre per associare le immagini alla psiche è analoga a quella che percorreva l’arte astratta che dalla funzione percettiva giungeva all’individuazione delle caratteristiche psichiche dell’osservatore e del pittore.

Relazionando l’arte astratta con la neurobiologia per via della comune ricerca degli elementi essenziali del processo cognitivo, Semir Zeki è convinto che quelle opere stimolino l’osservatore a ritrovare i significati nascosti dall’artista affidandosi alle capacità deduttive del cervello, mediante un processo che può essere sovrapponibile a quello proposto da Rorschach.

Ecco che la necessità artistica del pittore, secondo la teoria di Kandinsky, coincide con l’efficacia espressiva delle forme e dei colori che sono capaci rivelatori di significati: nasce da qui il tentativo di dare una definizione a quello che egli chiama “suono interiore” dei due mezzi espressivi, per costruire una sorta di teoria dell’armonia pittorica.

Kandinsky invita quindi l’osservatore a cercare nelle macchie di colori sperimentate, stimoli visivi per ricostruire interiormente il concetto celato.

La scoperta più importante è stata appunto la realtà interiore che possiede il colore, mutuata dallo studio teorico di Goethe, la quale lo caratterizza in modo del tutto indipendente da una qualunque finalità raffigurativa.

La questione della forma è quindi secondaria rispetto all’essenzialità della comunicazione sentimentale: l’opera d’arte consta infatti di un elemento interiore, corrispondente all’espressione dell’animo dell’artista, che desta nell’osservatore una parallela situazione spirituale di einfuhlung, e uno esteriore che corrisponde alla forma materiale capace di esprimere quella vibrazione.

Se gli influssi delle forme naturali sono casuali e indefiniti, le forme artistiche sono l’incarnazione di un contenuto astratto e l’unica legge immutabile è il principio della necessità interiore di quell’espressione.

Dopo la parentesi a Mosca del 1914-1921 per via della Guerra, Kandinsky tornava a Berlino dove dilagavano il movimento dadaista e l’espressionismo e sentendosi isolato tra quegli stili formalisti accettava senza esitazioni la proposta di Walter Gropius di trasferirsi a Weimar per lavorare nel Bauhaus, il nuovo tipo di accademia d’arte che riuniva arti libere e applicate in un comune lavoro analitico: nel 1922 aveva qui l’occasione di riprendere i suoi slanci psicologici e approfondire la ricerca degli elementi figurativi, collaborando con Paul Klee, Johannes Itten, Gerard Marks.

Riprendendo la giovanile teoria dei colori polari in “quattro sonorità principali”, elaborata da Goethe, Kandinsky studiava le basi fisiche per l’ordinamento dei colori analizzando soprattutto la triade giallo, blu e rosso.

Partendo dall’analisi di elementi singoli come il punto, la linea e il piano e delle loro relazioni, affiancava quelle ricerche alla psicologia della forma.

Hirschfeld-Mack in The Bauhaus, scritto nel 1963, ricordava che in particolare Paul Klee e Kandinsky avevano tenuto un intero seminario per scoprire le reazioni dell’uomo a determinate composizioni cromatico-lineari. Per ricercare la legge universale di relazione psicologica tra forma e colori avevano preso un campione di un migliaio d’individui inviando delle cartoline in cui si chiedeva di colorare tre forme elementari (il triangolo, il cerchio e il quadrato) con i tre colori primari (rosso, blu e giallo): quello che emerse da tale esperimento fu che la maggioranza aveva assegnato al triangolo il colore giallo, al quadrato il rosso e al cerchio il blu.

Gli allievi erano invitati all’osservazione attenta di alcuni oggetti per poterne identificare gli elementi essenziali e per comprendere il procedimento di astrazione pittorica che li avrebbe portati alla semplificazione in linee-forza di quelli, in puri concetti.

Sfruttando le caratteristiche delle linee, dei piani e dei volumi e tenendo conto della loro posizione nella tela, Kandinsky li guidava alla padronanza dei principi del disegno astratto e li stimolava ad associare i colori primari (giallo, rosso e blu) alle forme geometriche elementari (triangolo, cerchio e quadrato) studiandone gli effetti psicologici.

Convinto che la risposta si trovasse nel postulato di necessità interiore, esprimeva un principio mistico interessante: “Elemento dell’arte pura ed eterna che si ritrova in tutti gli esseri umani, in tutti i popoli e in tutti i tempi, che appare nell’opera di tutti gli artisti, di tutte le nazioni, di tutte le epoche e che non obbedisce poiché elemento essenziale dell’arte, a nessuna legge di spazio né di tempo”.

Kandinsky era cioè convinto che il fondamento dell’intuizione artistica fosse la conoscenza delle leggi naturali che regolano l’universo. Pertanto lo scopo del suo insegnamento era scoprire un’essenza comune a tutte le arti, un linguaggio comune generale.

Lo stesso storico dell’arte Ernst Gombrich nel suo fondamentale studio Art and illusion. A study in the psychology of pictorial representation del 1957 teorizzava l´esistenza di schemi figurativi che aiutano alla codificazione dell’immagine. Nelle stesse opere cubiste, ad esempio, dove la realtà è frammentata e ricombinata secondo schemi talmente complicati che è spesso impossibile riconoscere un volto o un oggetto, la codificazione dell’immagine si avvale di schemi mentali recuperati dalla memoria, di un volto o di un oggetto. In questo modo, un viso alterato, “sfigurato”, si può riconoscere grazie alla presenza dei tratti permanenti di quello schema figurativo (occhi, naso, bocca, testa).

Lo stesso Kandinsky negli appunti delle sue lezioni scriveva frasi come “le percezioni dei colori sono localizzate nel cervello (nuca, due centri)”, pur non essendo ancora a conoscenza dei reali meccanismi percettivi presenti dietro la rappresentazione di un’immagine, cosa che oggi a grandi linee è chiara.

Mentre Freud studiava l’inconscio, il mondo dell’Es, e si avvicinava alla neurologia, Kandinsky produceva le “impressioni” e “improvvisazioni” che già per definizione evidenziavano l’importanza dell’atto istintuale. Per questo motivo i suoi dipinti sono paragonabili agli scarabocchi infantili: era convinto che l’arte astratta fosse riconosciuta dentro ciascuno e producesse vibrazioni emozionali che, come nel caso dei suoni, emozionano anche senza raccontare una storia. Per cui sottintendeva che “inconsciamente” uno spettatore reagisce emotivamente di fronte ad una serie di stimoli nati dall’accostamento di colori e forme.

Nel 1926 il pittore russo pubblicava la prima edizione di Punkt und Linie zu Flache all’interno della serie del Bauhaus Bucher (Libri del Bauhaus) diretta da Gropius e Moholy-Nagy che alla lettera significava Punto e Linea sul Piano, ossia in relazione alla superficie (mentre le tradizionali traduzioni italiane equiparano i tre elementi definendolo Punto, Linea, Superficie).

Si trattava di una continuazione del Lo spirituale nell’arte però prodotta come sforzo teorico del periodo di permanenza al Bauhaus, una sorta di compendio generale della dottrina che Kandinsky illustrava agli allievi per la costruzione di una “scienza dell’arte” fondata sull’analisi del punto e della linea in funzione del piano. Kandinsky infatti insistette molto sulla stretta parentela con la scienza sperimentale proponendo di stabilire leggi e formule numeriche che traducessero la costanza degli effetti delle forme sull’uomo.

Leonardo aveva scritto nel Libro di pittura che il principio della scienza fosse il punto, seguito dalla linea, dalla superficie e dal corpo che si veste di essa: questi venivano analizzati da Kandinsky in primo luogo come elementi isolati dal loro contesto originario per poter liberare il loro “suono interiore” e poi la loro tendenza a fissarsi nella superficie.

Verso la conclusione della sua carriera, nella rivista Cahiers d’art, nel 1931, Christian Zervos gli chiedeva di difendere l’arte astratta dalle accuse di inespressività e di “eccesso cerebrale” e di aver sostituito l’emozione con esercizi di toni puri e disegni geometrici riducendo i dipinti a giochi di colori iscritti dentro forme: la risposta di Kandinsky era “il contatto dell’angolo acuto di un triangolo col cerchio non ha un effetto minore di quello dell’Indice di Dio con quello di Adamo in Michelangelo”.

 

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