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Violenza domestica e terapia metacognitiva interpersonale – Congresso SITCC 2018

Violenza domestica e terapia metacognitiva interpersonale: durante il Congresso SITCC 2018 è stato presentato un caso clinico di un Domestic Offender trattato con Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI).

Di Andrea Pasetto, Giancarlo Dimaggio

Pubblicato il 06 Nov. 2018

Aggiornato il 25 Giu. 2019 12:27

Durante il congresso SITCC 2018 di Verona uno di noi (Andrea Pasetto) ha presentato un caso clinico di violenza domestica trattato con Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI; Dimaggio, Popolo et al, 2013) all’interno di un Simposio organizzato dal Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale di Roma (CTMI) e che aveva come tema comune la TMI in condizioni relazionali estreme.

 

Il fenomeno della violenza domestica è uno dei problemi sociali più significativi e pervasivi in termini di impatto sociale, psicologico ed economico.

Si definisce violenza domestica un pattern di comportamenti che una persona agisce all’interno di una relazione affettiva per controllare e dominare l’altro partner incutendo paura e limitandone la libertà personale (Dobash, Dobash,1998). Si stima che in tutto il mondo, circa il 30% delle donne che hanno avuto una relazione affettiva abbiano subito violenza fisica e/o sessuale dal proprio partner (Misso D., Dimaggio e Schweitzer, 2018). In Italia circa una donna su tre tra i 16 ed i 70 anni riferisce di aver subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale nell’arco della propria vita. I partner attuali o ex partner commettono le violenze più gravi, il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o precedente (ISTAT 2015). Tale quadro viene confermato anche dai dati della comunità internazionale dove ben il 38% delle donne uccise sono uccise per mano del proprio compagno (WHO, 2016).

L’intervento psicoterapeutico ha bisogno di considerare l’eventuale presenza di disturbi di personalità e/o tratti di personalità, in particolare alcuni autori hanno riscontrato come i tratti di personalità relativi a disinibizione, antagonismo e distacco siano positivamente associati a questa tipologia di offenders (Dowgwillo et al., 2016). Inoltre essere di giovane età e avere un disturbo correlato all’uso di alcol oppure la presenza di disturbo di personalità del cluster B (Borderline, Narcisistico, Istrionico) o dipendente aumenta la probabilità di agire violenza all’interno della coppia (Okuda et al., 2015).

Come si presentano i Domestic Offenders in terapia? Presentano metacognizione compromessa, in particolare hanno difficoltà a riconoscere e descrivere le proprie emozioni (alessitimia), scarsa consapevolezza dei segnali emotivi attivanti (soprattutto emozioni negative), scarsa differenziazione (rappresentazioni negative di sé con l’altro prese per vere) e scarsa teoria della mente. Gli schemi interpersonali prevalenti partono dal desiderio di essere apprezzati (rango sociale) e amati (attaccamento). A fronte del loro desiderio tendono a costruire l’altro, la partner in particolare come: “mi ignora, mi trascura, mi tradisce e mi umilia”. Quando leggono il comportamento dell’altro secondo queste immagini schema-dipendenti, rispondono sentendosi innanzitutto di scarso valore e non amati, e questo conferma le immagini nucleari di sé. Accedono però con difficoltà ai sentimenti dolorosi di tristezza, solitudine, umiliazione e subito transitano verso rabbia reattiva e strategie di controllo e dominanza. Insomma molti uomini che agiscono violenza domestica agiscono in modo aggressivo e impulsivo reagendo ad emozioni dolorose che non sanno nominare e di conseguenza poi regolare e si trovano ad agire, nelle relazioni con la partner, guidati da schemi interpersonali che non sanno riconoscere.

A partire da queste considerazioni la TMI mette in risalto come le difficoltà metacognitive presentate da questa tipologia di offenders possono essere un obiettivo del trattamento per favorire l’interruzione del comportamento violento e la promozione del cambiamento. Quindi promuovere la Metacognizione li aiuta a capire il proprio funzionamento durante gli episodi di violenza, trovare soluzioni alternative al comportamento violento ed una maggiore attività regolatoria (riduzione dell’aggressività).

Come funziona? Prima di tutto il contratto: deve essere chiaro al paziente che il focus della terapia è l’aggressività e la violenza, ma all’inizio con lo scopo di capire cosa rende il coping disfunzionale, violento, così automatico e incontrollabile. Quindi l’obiettivo è concentrarsi sugli gli antecedenti psicologici dell’aggressività. Si chiede al paziente di concentrarsi e capire cosa succede dentro di lui un attimo prima dell’esplosione violenta, cosa pensa e prova, cosa sente a livello corporeo. Per fare questo è importante elicitare episodi narrativi legati a comportamenti aggressivi per allenare il monitoraggio emotivo e cognitivo. Attraverso l’analisi e l’elicitazione degli episodi narrativi personali arriviamo ad una formulazione condivisa del funzionamento del paziente per ricostruire gli schemi interpersonali tipici, ad esempio: “Desidero essere apprezzato/stimato (immagine negativa sottostante come inferiore e debole), la partner mi critica e mi svaluta – mi sento umiliato, schiacciato/sottomesso (risposta del sè) – reagisco con rabbia e la attacco”.

A partire poi dalla formulazione condivisa del funzionamento si procede con due tipi di interventi:

  • il primo intervento ha lo scopo di favorire possibili memorie associate all’episodio emerso, in modo che il paziente reagisca a qualcosa che non è connesso direttamente alla partner, ma alla propria storia personale. Si tratta quindi di promuovere la differenziazione tra gli schemi interni e la realtà esterna. Si mira quindi a  promuovere una distanza critica dai modelli interiorizzati di costruzione di significati.
  • il secondo intervento ha lo scopo di lavorare sulla regolazione dello stato emotivo attivato dalla risposta dell’altro, cercando di promuovere strategie regolatorie alternative all’aggressione per lenire lo stato affettivo doloroso.

Il caso clinico presentato all’interno del Simposio riguarda Roberto: 33 anni, celibe, diploma professionale. Lavora come imprenditore edile, presenta buone capacità lavorative. La relazione con  Barbara inizia nel 2012 e vanno a convivere nel 2014. Viene inviato dalla psicologia territoriale dopo alcuni incontri di terapia di coppia (Ottobre 2017). Riferisce precedenti interventi psicoterapici per problemi di ansia generalizzata. Non riporta uso di sostanze. Dai primi colloqui si evidenziano «tratti» di personalità di tipo paranoide, narcisistico, ed ossessivo. Roberto ammette di avere comportamenti di controllo dettato dalla gelosia, che sfociano poi in violenza verbale e fisica verso Barbara.

Roberto è guidato dai desideri di essere amato, e apprezzato/stimato. La rappresentazione di sé sottostante è: non amabile e inferiore rispetto a un altro più interessante di lui. Dagli episodi narrativi emerge il timore di Roberto di essere tradito e abbandonato da Barbara. La rappresentazione negativa di sé è connessa al ricordo di episodi in cui mamma ha preferito il fratello minore dopo la sua nascita, concentrando le attenzioni su di lui e facendo sentire Roberto come inferiore e non più amato.

Trattamento: la riduzione del comportamento violento è lo scopo a lungo termine e il comportamento violento è il focus principale del trattamento, tuttavia dobbiamo focalizzarci sugli antecedenti del comportamento violento e cosa rende la violenza così automatica, potente e non controllabile come meccanismo. A partire dal contratto quindi si passa all’ esplorazione degli episodi narrativi di violenza nei loro elementi cognitivi ed emotivi per attivare la metacognizione ed accedere agli stati mentali prevalenti. Successivamente ricostruiamo una formulazione condivisa del funzionamento e stimoliamo la connessione di memorie associate allo schema emerso per promuovere la differenziazione e la regolazione dello stato emotivo attivato dalla risposta dell’altro.

Il lavoro sugli episodi narrativi violenti per allenare il monitoraggio emotivo e cognitivo di Roberto porta il terapeuta ad una formulazione condivisa del funzionamento come di seguito: “Lei Roberto desidera essere sicuro/apprezzato/amato nella relazione con Barbara. Immagina gli altri superiori a lei e migliori di lei. Si aspetta quindi che Barbara preferisca altri a lei, la tradisca e l’abbandoni, (immagine di sé come inferiore e non amabile). Prova ansia, paura, tristezza e gelosia e a quel punto assume comportamenti di controllo perché Barbara non la tradisca, si arrabbia con lei e l’aggredisce, ma questo non fa diminuire la paura né i sentimenti di inferiorità e non-amabilità.

Con la richiesta di memorie associate a questa struttura narrativa, Roberto connette l’immagine negativa di sé non amabile ed inferiore alla sensazione di inferiorità e non amabilità sperimentata nel periodo in cui è nato il fratellino più piccolo Giovanni e mamma aveva riversato tutte le sue attenzioni su di lui. Da qui inizia la svolta del trattamento e l’inizio del processo di differenziazione, quando Roberto inizia a comprendere che lui “Non è necessariamente inferiore/sbagliato/non amabile ma guidato da questa idea (che gli ricorda quello che è successo con mamma) reagisce con violenza verso Barbara e fa delle cose che hanno conseguenze sfavorevoli”.

Roberto negli incontri successivi comprende che la paura che Barbara lo abbandoni e lo tradisca è schema-dipendente e dipende da quello che prova lui, dalle emozioni che vive internamente. L’attenzione focalizzata su Barbara che può tradire e abbandonare è schema dipendente e non corrisponde necessariamente alla realtà. Roberto in uno degli ultimi incontri riferisce: «la fonte delle mie paure non è Barbara, ma è dentro di me». Tale consapevolezza aiuta Roberto a bloccare il coping disfunzionale violento e promuove una maggiore autoregolazione con diminuzione del comportamento violento e dei comportamenti di controllo nei confronti della partner. Quest’ultima attraverso un contatto telefonico conferma la diminuzione dei comportamenti violenti sia in frequenza che in intensità.

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Giancarlo Dimaggio
Giancarlo Dimaggio

Psichiatra e Psicoterapeuta - Socio Fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva-Interpersonale

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