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Diagnosi e destino (2018) di Vittorio Lingiardi: il valore della diagnosi nella relazione di cura – Recensione del libro

Diagnosi e destino, di Vittorio Lingiardi, è un libro che ogni clinico dovrebbe ricevere, uno strumento di lavoro ma anche di riflessione che consente di fare un viaggio cognitivo, emotivo, antropologico e sociale nella diagnosi, indipendentemente dalla posizione da cui osserviamo o siamo osservati.

Di Fabiana Di Segni

Pubblicato il 02 Nov. 2018

Aggiornato il 21 Nov. 2018 11:51

Un meraviglioso libro, Diagnosi e destino (Einaudi Editore) di Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista, professore ordinario di Psicologia Dinamica presso l’Università La Sapienza di Roma, che si occupa di una tematica molto cara a tutti i professionisti del settore di cura: la diagnosi.

 

Perché succede così spesso che nonostante i più sinceri sforzi da entrambe le parti il rapporto tra medico e paziente è insoddisfacente e perfino causa d’infelicità?
Michele Balint

 

Diagnosi e destino è un libro diviso in tre capitoli. Il primo, Diagnosi e tormento, pone l’accento sulle sfumature emotive di chi fa diagnosi e di chi la riceve, facendo lunghe riflessioni sull’importanza delle parole e sul peso che esse hanno non solo nel definire ma anche nel delineare prospettive di speranza o di chiusura. Le parole come strumento per raccontare e per comprendere ma anche per ridurre la componente della disperazione. In questa prima parte si apre un’interessante riflessione tra metaforici della malattia e razionalisti, alla ricerca della verità nuda e cruda senza immaginari sociali.

Il secondo capitolo, Diagnosi e difese, tra immagini e citazioni ci conduce nel corpo e nell’anima della diagnosi ponendo l’attenzione su tutte le casse di risonanza emotiva che abitano il paziente e il medico o terapeuta. Qui l’autore, parlando dell’importanza della conoscenza di tali processi interiori, ci ricorda che spesso la cura sta nelle difese che il paziente mette in atto. Guardare alle difese ci consente di seguire l’evoluzione e la trasformazione della malattia nel tempo, attivando anche la prevenzione rispetto al “destino” che si sviluppa post diagnosi.

E infine il terzo capitolo, più complesso o semplicemente più interessante, in cui il terapeuta è spinto a farsi molte domande e a posizionarsi rispetto alle due grandi categorie di chi fa diagnosi e chi dice di non farla. Lingiardi sostiene che sia impossibile non fare diagnosi, perché essa stessa è la bussola per muoverci nel terreno complicato e complesso della psichiatria e delle psicopatologia.

L’importanza della diagnosi

Un libro pieno di richiami e riflessioni, affascinante e delicato che porta il lettore a conoscenza delle tesi e della complessità di una cosa apparentemente semplice e di fatto profondamente piena di insidie, tecniche e procedure.

Sigmund Freud nel 1915 sosteneva che il compito di uno psicoterapeuta non fosse solo quello di descrivere dei fenomeni e classificarli, quanto piuttosto concepirli come indizi di un gioco di forze che si svolgono nella psiche e che diventano una modalità funzionale o disfunzionale a seconda della prospettive da cui le si guarda. I fenomeni psichici come espressione di tendenze dell’individuo orientate verso un fine e che operano insieme o in contrasto. Lo sforzo terapeutico è in tale ottica il raggiungimento di una concezione dinamica dei fenomeni psichici.

Tutti noi prima o poi nel corso della nostra vita riceviamo una diagnosi, un giorno arriva qualcuno seduto dalla parte della scrivania nella posizione di chi osserva che ci dirà qualcosa in termini diagnostici che cambierà la nostra vita in meglio o in peggio, ci farà una diagnosi che ci accompagnerà per un tratto della vita o per sempre, e che magari modificherà il nostro modo di guardare noi stessi o il futuro.

La parola diagnosi deriva dal greco e significa letteralmente “conoscere attraverso”, quindi essa è prima di tutto un processo di conoscenza che il diagnosticato vive insieme al diagnosticante, sia esso medico, psichiatra , psicoterapeuta , ecc. Tale processo di conoscenza implica fin dall’inizio uno spazio relazionale in cui tale processo si attiva e assieme ad esso si attivano molteplici processi che coinvolgono i due attori: un processo di conoscenza di se stessi, un processo di conoscenza tra l’esaminatore e l’esaminato, un processo di conoscenza tra il soggetto e i farmaci, un processo di conoscenza che implica l’incontro con diverse figure professionali, ma sopratutto l’incontro del soggetto con se stesso, con il suo corpo e tra esso e le sue reazioni alla cura. La stessa malattia può avere effetti diversi su soggetti diversi e questo lascerebbe pensare anche che è importante non sottovalutare, come diceva Ippocrate, quale malattia viene a quale paziente.

In tale ottica sembrerebbe chiaro che la persona, il suo mondo e la sua complessità debbano essere al centro dell’osservazione; non solo i suoi sintomi, che consentono la categorizzazione ma non la comprensione della complessità che abita quello specifico individuo in quanto unico e irripetibile.

La relazione medico-paziente

Perché molti medici o molti psicoterapeuti sembrano sottovalutare o trattare male questo prezioso alleato che è l’individuo con le sue mille sfumature? Perché, come dice Lingiardi: “quando si fa una tac ad un soggetto non ci si preoccupa che non prenda freddo???”

Jon Dhonne sosteneva “la miseria massima della malattia è la solitudine”, e viene naturale chiedersi come il clinico possa aiutare il paziente ad uscire da questa solitudine, determinata dalla presenza di “curatori” dimezzati, che guardano al soggetto senza guardare alle sue componenti psicologiche. Il clinico “intero” non è un medico o un terapeuta perfetto, ma è quello che comprende, che conosce e possiede delle caratteristiche che gli consentano un ascolto empatico del paziente, una visione olistica e la capacità di restituire al paziente e alla sua famiglia non solo una diagnosi e le sue procedure di cura, ma una relazione di alleanza alla quale aggrapparsi e nella quale trovare rifugio nei momenti di paura o di timore. Il medico stesso diventa in tale ottica, la cura e la relazione terapeutica che diventa un “atto terapeutico”.

Diceva Balint:

Il problema reale in un individuo è la malattia di tutta la persona, ed è la diagnosi che consente un passaggio da una situazione “non organizzata “ ad “una più organizzata”; il medico attraverso l’ascolto del paziente riconosce le sfumature anche dentro di sé, attivando una sorta di “controtransfert diagnostico”.

Spesso, sostiene Lingiardi

La malattia descritta nei trattati non coincide con la persona che ne soffre, la cosiddetta evidence-based medicine non basta a rappresentare la realtà clinica, che è più euristica che algoritmica.

avremmo bisogno, come sostiene Rugali “di una teorizzazione sulla medicina in assenza di evidenze”.

Nonostante il progresso e la tecnologia in ambito medico e terapeutico ci offrano infinite possibilità di miglioramento rispetto alla cura, noi non dobbiamo dimenticare quello che è il ruolo della semiotica nella malattia, perché, come dice Lingiardi

La fragilità a cui ci espone la diagnosi è ormai parte di noi, per poco tempo o per sempre. Con sé può portare la possibilità di ripensare la nostra storia e il nostro futuro, il nostro posto nel mondo.

In conclusione

Questo piccolo libro per dimensioni, ma enorme per contenuti, è un dono che ogni clinico dovrebbe ricevere, è uno strumento di lavoro ma anche di riflessione, che ci consente di fare un viaggio cognitivo ed emotivo personale, antropologico e sociale, in questo mondo della diagnosi che ci coinvolge e ci riguarda tutti, indipendentemente dalla posizione da cui osserviamo o siamo osservati.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Lingiardi, V. (2018). Diagnosi e destino. Einaudi Editore
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