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ADHD ed esiti devianti: una rassegna della letteratura

ADHD: una volta finita l'infanzia, c'è possibilità che nell'adolescenza e nell'età adulta si manifestino altre patologie ad esso legate?

Di Chiara Paris

Pubblicato il 28 Nov. 2018

Aggiornato il 13 Mar. 2019 13:33

Come descritto da ormai numerose ricerche, l’ADHD -Attention Deficit Hyperactivity Disorder- è un disturbo del neurosviluppo che include iperattività, impulsività e disattenzione: tali caratteristiche si mantengono dall’infanzia all’età adulta, per questo è definito “life-long” (Barkley, 2002).

Chiara Paris – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

L’età di esordio si colloca intorno ai 7 anni e per la diagnosi, i sintomi devono protrarsi per almeno sei mesi (Woicik et al., 2017). A livello comportamentale, chi soffre di questo disturbo presenta verbosità, difficoltà a stare seduto, irritabilità, tendenza a perdere o dimenticare le cose. A livello emotivo, invece, emergono spesso bassa autostima, ansia e umore depresso.

ADHD: gli studi che associano esiti devianti nell’età adulta

Sono frequenti diagnosi psichiatriche nei genitori, difficoltà famigliari (come problemi economici e litigi), un percorso scolastico caratterizzato da risultati scadenti o frequenti discussioni con gli insegnanti. Questi bambini e ragazzi vivono frequenti problematiche nel percorso scolastico e poi lavorativo, manifestano un elevato rischio di condotte sessualmente rischiose, con gravidanze indesiderate, utilizzo di sostanze, problemi relazionali e guida pericolosa, con frequenti incidenti stradali. Il disturbo si presenta spesso in comorbilità, ad esempio con disturbi d’ansia, tic, ritardo cognitivo, disturbo oppositivo provocatorio e il cosiddetto disruptive mood dysregulation disorder. Il fatto che ci sia comorbilità con disturbi esternalizzanti o internalizzanti cambia molto il modo in cui l’ADHD si presenta. In adolescenza, possono invece manifestarsi in modo concomitante disturbo della condotta, depressione maggiore, disturbo bipolare, dipendenza da sostanze e un iniziale sviluppo di disturbi di personalità (Usami; 2016).

Con una prevalenza del 5% nei minori di 18 anni e una persistenza dei sintomi in età adulta tra il 2,5 e il 5% (Polanczyk et al., 2007), l’ADHD determina frequentemente nei genitori di questi bambini distress, problematiche lavorative, sentimenti di tristezza e impotenza per la situazione del figlio, disagio nello svolgere insieme al minore attività pubbliche come lo shopping; sono frequenti le discussioni, le indicazioni del caregiver non vengono seguite creando un continuo “disturbo” della routine quotidiana (Anderson et al., 1987). In adolescenza, il disturbo rappresenta peraltro un rischio per altre problematiche psicosociali, con sintomi internalizzanti, alimentari o legati alle sostanze per le ragazze, di tipo antisociale nei ragazzi (Selinus et al. 2016)

Queste informazioni si associano al riscontro di comportamenti delinquenziali in giovane età (Giannotta & Rydell, 2015; Zeola et al., 2017), disturbi antisociali e correlati a sostanze (Hechtmann & Weiss, 1986) e ad un’elevata percentuale di diagnosi ADHD nella popolazione detenuta, sia adulta (Woicik, et al., 2017) che adolescente (Gosden et al., 2003). Barkley, Fisher, Smallish e Fletcher (2004) hanno valutato i registri degli arresti dello Stato del Wisconsin, riscontrando che le persone con diagnosi di ADHD erano un numero significativamente maggiore rispetto a quello di controllo. Altre patologie frequenti nella popolazione detenuta sarebbero disturbo della condotta, psicosi, abusi e dipendenze da sostanze e depressione (Hellenbach et al, 2017). Non tutti i reati però sembrano essere ugualmente commessi da chi ha questo tipo di diagnosi: infatti, la stima di reati sessuali commessi da persone ADHD è del tutto analoga a quella dei controlli (Mannuzza et al., 2008).

ADHD: non è associata a comportamenti devianti in età adulta

Esiste anche un filone di studi che afferma il contrario, ossia l’assenza di un’associazione tra comportamenti devianti in età adulta; tra gli altri, si rimanda a Mordre e colleghi (2011), i quali sostengono come l’unica connessione sarebbe quella con il disturbo della condotta, caratterizzato da comportamenti aggressivi, distruttivi, disonesti, non rispettosi dell’autorità e manipolatori, al massimo caratterizzato da sintomi di iperattività. Questa tesi troverebbe parziale conferma nei risultati di Giannotta e Rydell (2015), che legano l’antisocialità a sintomi impulsivi / iperattivi tra i 10 e 15 anni e problematiche più associate all’abbandono scolastico per quanto riguarda la disattenzione. Tale distinzione fa riferimento alle tre tipologie di ADHD comunemente riconosciute: disattento, iperattivo/impulsivo e combinato.

Giannotta e Rydell (2015) si sono occupati di capire perché non tutti i giovani con diagnosi di ADHD intraprendano una carriera delinquenziale, ipotizzando un ruolo dell’ambiente nel mediare tale esito. In particolare, l’esistenza di un parenting disfunzionale, la percezione di un rifiuto materno e una disciplina poco autorevole lo faciliterebbero. Un’ipotesi di questo tipo era stata avanzata già diversi anni prima da Rutter (1978), il quale spiegava come un parenting positivo, un mantenimento di contatto emotivo con il bambino e poi con l’adolescente, e l’evitamento del conflitto diminuivano di fatto il rischio di sviluppare un disturbo della condotta e agire comportamenti delinquenziali.

ADHD: gli studi longitudinali

Alcuni studi longitudinali evidenziano aspetti molto interessanti rispetto a queste traiettorie: il progetto di Satterfield e colleghi (2007) è iniziato con il riscontro in letteratura di percentuali molto elevate di personalità antisociali tra i giovani ADHD (fino al 18% rispetto al 2% dei controlli), indipendentemente dall’estrazione sociale della persona. Dopo aver seguito un gruppo di bambini con diagnosi di ADHD fino all’età adulta, gli autori hanno concluso che i sintomi di iperattività in anamnesi si riscontravano più facilmente in coloro che erano stati arrestati o reclusi o avevano commesso reati connessi alle sostanze. Nello studio di Dalsgaard e collaboratori (2013), il 47% del campione con ADHD commette reati con una probabilità cinque volte superiore rispetto ai controlli, con una netta disparità tra maschi (50%) e femmine (24%); il dato interessante è che una parte del campione deviante non aveva manifestato problematiche di condotta in giovane età (non si erano presentati, quindi, né il disturbo della condotta in comorbilità, né comportamenti affini ad esso).

In altri studi, gli autori si sono concentrati su un numero inferiore di soggetti, per poter valutare meglio gli effetti del contesto e dei vissuti: ad esempio, in quello di Young et al. (2009), sono stati presi in considerazione cinque pazienti con ADHD (da Scale Conners) istituzionalizzati e con un’età compresa tra i 14 anni e i 16 anni; gli autori sono partiti dal considerare che circa i due terzi dei minori in regime detentivo in seguito a reati avevano problematiche ascrivibili a questo disturbo, o almeno alla componente di iperattività. Questi cinque ragazzi manifestavano problematiche legate al senso di perdita, raccontavano di eventi traumatici che spesso utilizzavano come spiegazione delle loro traiettorie devianti, considerandosi “vittime delle circostanze” e lasciando poco spazio alla componente relativa alle proprie decisioni. Anche il desiderio di cambiare veniva espresso, ma non in associazione ad una consapevolezza circa le motivazioni che li avevano condotti ai reati, focalizzandosi solo sul qui ed ora (questi elementi ricordano peraltro molto le modalità antisociali). Un altro tema emerso era il “bisogno di appartenenza”: spesso si percepivano come diversi e rifiutati dalla società, senza radici. Riconoscevano l’utilità di essere in un luogo di contenimento, con regole e sanzioni chiare, in un piccolo gruppo, quindi inseriti in una situazione che consentiva di far emergere e lavorare su impulsività, rabbia e difficoltà comportamentali e percepivano la struttura come una protezione dal mondo esterno e da possibili rischi.

Per Sibley e colleghi (2010), gli outcome peggiori per età di esordio, gravità e varietà dei reati si verificano quando l’ADHD è in associazione con il disturbo della condotta; tuttavia, esaminando un ampio gruppo di soggetti con diagnosi ADHD diversi anni più tardi, è emerso che anche il disturbo puro e la variante con DOP rappresentano un forte fattore di rischio per successivi agiti delinquenziali.

Nonostante numerosi studi indichino una diminuzione degli agiti impulsivi con l’aumentare dell’età, la maggior parte dei bambini con diagnosi di ADHD mantiene questi sintomi – seppur con caratteristiche diverse – in adolescenza e in età adulta. In Corea, uno studio ha confrontato un gruppo di adolescenti autori di reato (violenza fisica e furto) con un gruppo di controllo, riscontrando una percentuale di ADHD del 42,4% nel primo, e dell’11,9% nel secondo: tra le persone con diagnosi, gli autori di reato mostravano risultati inferiori nei test di valutazione cognitiva, maggiori problematiche comportamentali e attentive, maggior perdita di controllo e bassa autostima. Quest’ultima viene associata in particolare alle difficoltà scolastiche, che creerebbero frustrazione e acting-out spesso agito contro i pari (Chae, Jung & Noh, 2001).

Mannuzza e colleghi (2008), seguendo i partecipanti al loro studio fino ai 38 anni, hanno verificato nel campione un’elevata percentuale di problematiche delinquenziali sia con ADHD in associazione al disturbo della condotta, sia nel caso di una diagnosi pura. L’aspetto delle comorbilità è ancora ampiamente inesplorato e prevede una serie di implicazioni a livello trattamentale: sono molte le diagnosi concomitanti che influenzano l’esito del disturbo a lungo termine, come nel caso dei disturbi dell’apprendimento associati ad ADHD, che aumenterebbero i rischi a livello sociale (Poona & Ho, 2015).

Dal punto di vista delle problematiche correlate a sostanze a cui l’ADHD si associa molto spesso sia in adolescenza che in età adulta, sembrerebbe che ciò sia legato in parte a comportamenti esternalizzanti più tipici del disturbo della condotta: questi si possono distinguere tra aggressivi (agiti nei confronti di animali e persone) e devianti (come mentire o compiere atti vandalici). Nello studio di Harty e colleghi (2013), infatti, sono stati esaminati dei bambini con diagnosi di ADHD a 9 anni e una decina d’anni dopo e gli autori sono arrivati a concludere che chi manifesta problemi legati a comportamenti devianti è a forte rischio di abuso di sostanze; al contrario, non sembrano predittivi di esiti simili gli impulsi aggressivi e il grado di compromissione attentiva. Masi et al. (2006) evidenziano la frequente sovrapposizione del disturbo con manifestazioni precoci e in seguito un franco esordio del disturbo bipolare, in particolare con una tipologia di questo disturbo che non rientrerebbe nel tipo I e II, oltre che con il DOP (e più tardi il disturbo della condotta).

ADHD: quando diventano vittime di comportamenti devianti

Il coinvolgimento in atteggiamenti devianti non è stato indagato solo dal punto di vista di chi li agisce, ma anche da quello di vittima: secondo Becker e collaboratori (2017), il 57% di minori con diagnosi ADHD subisce episodi di vittimizzazione, come esclusione dal gruppo, da eventi sociali o dalle conversazioni tra pari, con conseguenti sintomi ansiosi, depressione e bassa autostima. L’aspetto relativo al bullismo apre di fatto nuovamente il dibattito sul confine tra ADHD e disturbo oppositivo provocatorio / della condotta; se si parla di comorbilità, diversi studi fanno riferimento ad aspetti genere specifici, per cui sarebbe agito da maschi con connotazioni fisiche -vere e proprie aggressioni-, in contesti con ampia influenza da parte del gruppo dei pari (Fite et al., 2014).

In definitiva, il tema appare presente anche in culture molto diverse e comporta evidenti costi sociali; quali sono allora le possibilità di trattamento, a diversi livelli?

Il trattamento psicologico dovrebbe includere un lavoro sullo sviluppo di un coping più funzionale per la gestione delle manifestazioni dell’ADHD, in particolare il discontrollo e l’acting-out, inoltre lo screening dovrebbe essere svolto precocemente, per evitare un peggioramento della sintomatologia in seguito a provvedimenti giuridici e misure punitive in giovane età (Chae, Jung & Noh, 2001). Per chi invece già manifesta comportamenti devianti in giovane età, è necessario un intervento preventivo di presa in carico e numerosi follow-up, per evitare coping più disfunzionali come l’utilizzo di sostanze (Harty et al., 2013).

Nel caso di giovani che manifestino sia sintomatologia ADHD che DOP, o inseriti in contesti a rischio di devianza (per la presenza di gruppi di coetanei con problematiche affini), sarebbe importante un lavoro orientato alla prevenzione e un intervento specifico su bullismo e vittimizzazione (Satterfield et al., 2007).

Nel caso di giovani che hanno commesso un reato, viene sottolineata la necessità di continuare gli studi, che hanno funzione protettiva nel reinserimento, anche con modalità parzialmente diverse da quelle “canoniche”, secondo le necessità previste dalla situazione clinica del soggetto (Young et al.2009).

Allo scopo di ridurre la recidiva, cioè una ricaduta nel reato, Zeola e colleghi (2017) suggeriscono un miglioramento degli screening da effettuarsi quando i giovani sono coinvolti in procedimenti giuridici. Ciò avrebbe chiaramente lo scopo di differenziare il trattamento a seconda delle problematiche specifiche.

È evidente che un ambiente supportivo e buone capacità cognitive possano compensare la manifestazione di sintomi ADHD, ma ciò non è sufficiente in tutte le fasi della vita e soprattutto non lo è con l’aumento delle richieste in ambito accademico e sociale (Selinus et al., 2016): pare quindi essenziale, ma non sufficiente un intervento che includa la famiglia.

ADHD: i trattamenti di elezione

A dispetto di una serie di studi precedenti, che dimostravano come un trattamento prolungato e multimodale, comprensivo di psicoterapia e parent training, fosse la scelta migliore, in quello di Satterfield (2007) non sono emerse differenze rispetto alla sola assunzione del farmaco. Quest’ultimo appare comunque una scelta tutelante nei casi di forte iperattività, considerato che chi ha intrapreso una terapia con metilfenidato (Ritalin) corre un rischio significativamente inferiore di incorrere in comportamenti devianti (Lichtenstein et al., 2017). Anche Ginsberg e collaboratori (2012) ritengono che ricorrere al farmaco -anche in età adulta- sia una scelta funzionale: nel loro studio, la terapia effettuata su un gruppo di adulti in stato di detenzione ha consentito un miglioramento non solo della sintomatologia associata, ma anche delle funzioni cognitive (working memory, abilità visuospaziali e verbali), assenza di ricaduta nell’uso di sostanze e maggior aderenza ai trattamenti psicosociali.

Lo studio di Woicik e collaboratori (2017) sottolinea infine un aspetto fondamentale con questi pazienti, vale a dire il fenomeno del “treatment no-show”, cioè del “saltare l’appuntamento”, che crea ovvi ostacoli nel percorso terapeutico (e che è diverso dal drop-out, perché poi i pazienti si ripresentano). Questo è dovuto alle problematiche specifiche del disturbo e può determinare maggiori costi, rischi e più recidiva.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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