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Il suicidio nella clinica. L’impensabile e il vuoto.

Il suicidio, dal punto di vista clinico, secondo l'ottica psicoanalitica: la teoria ci offre chiavi di comprensione che guardano ai meccanismi di rimozione e allo sviluppo delle funzioni psichiche. Alla fine però, nulla può davvero spiegare un gesto che lascia solo vuoto.

Di Mariapaola Tomasoni

Pubblicato il 19 Set. 2018

Aggiornato il 27 Giu. 2019 12:29

Quando si sente parlare di suicidio, si apre in noi come un varco l’enigma su vita, morte e sofferenza. Questo articolo si propone di provare a cogliere alcuni degli aspetti più profondamente dinamici e pre-costitutivi del comportamento suicidario.

 

L’angolazione è quella di una psicoanalisi che cerca di concepire ogni teoria come possibile rappresentazione, ovvero, come tratto della pensabilità di un’esperienza che comunque rimane irrisolvibile nella sua intrinseca complessità: ciò implica rinunciare ad un causalismo diretto che vada alla ricerca di cause ultime. Chiaramente questo non significa escludere i molteplici fattori in gioco o non dar loro l’importanza che meritano, ma soltanto non ritenere possibile una derivazione causale diretta fra tali fattori e le condizioni di carenza, o debolezza, del mondo psichico di un determinato soggetto: se riteniamo vero che la psiche si sviluppa attraverso complesse interazioni fra introiezioni e proiezioni e identificazioni proiettive (nel senso Bioniano dei termini), non ci è possibile stabilire una causa ultima.

Suicidio ed eziologia

L’esperienza clinica ci insegna che ogni caso è differente e pertanto, la sua eziologia è anch’essa differente. Deve perciò essere diversificato l’approccio alla comprensione della sofferenza di ciascun soggetto. In termini pratici ciò significa non soltanto osservare con attenzione la “crepa” in superficie, ma anche l’area che la circonda, la sua localizzazione interna ed esterna, la risonanza che essa crea nel mondo emotivo del soggetto, come gli altri la vedono (o non la vedono), la sua datazione e provenienza, e via dicendo; tutto questo porta a percorrere la linea in maniera verticale fino ai nuclei più basilari: essi a volte sono danneggiati, altre mal funzionanti e, spesso, ci conducono ad una funzione psichica che non si è potuta formare in maniera adeguata. Basti pensare alle casistiche di pazienti che portano in sé un nucleo di narcisismo gravemente ferito, a partire dal quale possono manifestarsi diverse reazioni in termini di strutturazione della personalità o disturbo.

Secondo la teoria sappiamo che le funzioni psichiche si possono formare in maniera adeguata tramite l’esperienza di buone relazioni oggettuali: la capacità di simbolizzazione, la pensabilità e le difese psichiche mature, si costituiscono tramite quella relazione particolare di intesa dapprima con la madre rêverie, come direbbe Bion, e con gli oggetti caregivers, tramite uno scambio continuo di introiezioni, proiezioni ed identificazioni proiettive.

Suicidio e rimozione

Se immaginiamo la vita psichica come un canale che si ramifica mano a mano che si costruisce, possiamo anche immaginare la rimozione come difesa che, a partire da quella originaria di cui ci parla Freud, spedisce in modo sano il surplus pulsionale nell’inconscio, permettendo la costituzione delle rappresentazioni mentali: in questo modo s’impedisce lo strabordo di questo canale in ramificazioni malsane. Nel bambino opera la rimozione su ogni esperienza somato-sensoriale troppo carica di pulsione che creerebbe angoscia o addirittura minaccia di disintegrazione psichica, rimanendo un dato grezzo in un apparato mentale ancora immaturo (i cosiddetti elementi Beta di Bion); nell’adulto avvenimenti e aspetti della vita che, altrimenti, tormenterebbero la quotidianità in maniera assillante: basti pensare alla precarietà della vita. Se non potessimo rimuovere la consapevolezza della certezza della morte vivremmo in costante, Freudiana, angoscia di castrazione estesa; invece, d’altro canto, potendone rimuovere il carico pulsionale, si costituisce in noi una rappresentazione della morte che talvolta è sì intrisa di emozioni, ma in quantità tollerabile .

Nel momento in cui il meccanismo di rimozione nel bambino risulta difettato, per vari motivi tra i quali la costituzione psichica soggettiva, un’incapacità da parte degli oggetti primari di fungere da “contenitore” paraeccitatorio e rêverie, è possibile che alcune ramificazioni si sviluppino come violente deviazioni che spezzano il canale in alcuni punti: il risultato sarebbero delle “fuoriuscite” dal percorso psichico in cui il soggetto può tornare ad imbattersi anche nella vita adulta; dei veri e propri buchi mentali in cui non c’è pensabilità ma soltanto un intenso affetto (di angoscia, paura, sensazione di morte psichica), una sorta di fuoriuscita di Reale, nel senso Lacaniano del termine. Luoghi mentali in cui la simbolizzazione e la rappresentazione non sono possibili, in cui il Reale sortisce il suo effetto mortifero schiacciando il soggetto. In questi buchi in cui manca contenimento e pensabilità, il soggetto si ritrova impreparato quanto un bambino neonato: ecco allora la sensazione – sia psichica che fisica – di essere lasciati cadere dalla vita a qualche cosa di imprecisato, e per questo inconoscibile e terribile, dove il senso manca completamente. I soggetti che soffrono di queste cadute, potrebbero regredire momentaneamente alla condizione di hilflosigkeit di cui ci parla Freud, in cui, però, il grido disperato della sofferenza non viene accolto, spesso anche perché impossibile da esprimere.

Quante volte si sente parlare di persone morte suicide che “sembravano stare bene, sembravano tutt’altra persona”? Questo si potrebbe spiegare in parte partendo dal presupposto che spesso l’alternativa arcaica difensiva alla rimozione è la scissione e/o il diniego. I buchi psichici in cui il soggetto cade sono momentanei, poiché la vita psichica circolando ci cade e ci esce periodicamente, permanendovi più o meno a lungo: il dolore è così intenso che, una volta usciti, la scissione opera dividendo il soggetto dell’esperienza dell’impensabile e il soggetto che è tornato alla vita psichica “normale”, come se quella parte non esistesse o fosse a sé. Da qui anche, se vogliamo, l’alternanza di periodi connotati da una coloritura più maniacale piuttosto che depressiva.

La permanenza troppo lunga in queste derive psichiche, o la continua ricaduta, potrebbe portare questi soggetti all’atto suicidario: un atto consapevole, muto, esausto, in cui non c’è parola e non c’è nemmeno la presenza dell’Altro, nonostante l’Altro possa esistere fisicamente; un gesto compiuto in un mondo che si svuota, che cambia la sua significazione, come direbbe Recalcati riferendosi alle perdite amorose narcisistiche; un atto compiuto in una solitudine percepita che, per chi non ha vissuto questo processo, può risultare inafferrabile. D’altra parte dove non c’è pensabilità non c’è vita.

Da che parte deve mettersi, dunque, l’analista per provare a cogliere questo tipo di disagio esistenziale? Quando il soggetto si trova stritolato dalle proprie defaillance del pensiero?

Racalbuto, parlando del difetto originario, spiega:

Io credo che sia capitale per l’analista seguire il movimento psichico del paziente, accettando – per esempio – una defaillance del proprio abituale pensiero allo scopo di rintracciare nel paziente, per analogia di funzionamento psichico, delle inscrizioni mnestiche particolari in quanto tracce mnestiche non rappresentabili: non-rappresentazioni. (…) nello starci a realizzare una sorta di ritmo condiviso, una specie di accordo consonante dettato dall’unico linguaggio che il paziente è in grado di condividere: concetto di unisono (at-one-ment) di Bion. Tale accordo, secondo me, è l’unico possibile après-coup trasformativo di una esperienza, probabilmente fallimentare, dove ciò che è mancato è proprio l’armonia (…), l’intesa con il proprio oggetto primario.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bion W., (1962), Apprendere dall’esperienza. tr. It Armando, Roma, 1972
  • Bion W., (1965), Trasformazioni, il passaggio dall’apprendimento alla crescita. tr. It. Armando, Roma, 1983
  • Freud S., (1915), Lutto e Melanconia. Boringhieri, Torino, 1977
  • Freud S., (1917), Metapsicologia. Boringhieri, Torino
  • Lacan J., (1962-1963), Il Seminario, Libro X, L’angoscia. tr. it. per Einaudi, Milano 2007
  • Racalbuto A., (2009), Le fonti dello psichico. A cura di E. Mangini e M. La Scala, Borla Editore
  • Recalcati M., (2014), Non è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa. Raffaello Cortina Editore
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