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Relational Frame Theory: i principi e i meriti della teoria e i contributi alla moderna psicoterapia

La Relational Frame Theory (RFT) vanta numerosi studi empirici e teorici nella letteratura psicologica dell'ultimo decennio. La RFT, infatti, oltre allo studio del linguaggio, estende il suo campo di applicazione anche alla comprensione dei meccanismi alla base della psicopatologia

Di Marina Morgese

Pubblicato il 20 Set. 2018

La Relational Frame Theory (RFT) vanta numerosi studi empirici e teorici nella letteratura psicologica dell’ultimo decennio, ma la teoria resta ancora poco conosciuta o non condivisa dalla maggior parte degli psicologi cognitivi e comportamentali (Blackledge, 2003). I principi della Relational Frame Theory assumono oggi notevole importanza in quanto costituiscono il background teorico dell’ Acceptance and Commitment Therapy (ACT) (Hayes, Strosahl e Wilson, 1999).

 

La Relational Frame Theory, infatti, oltre allo studio del linguaggio, estende il suo campo di applicazione anche alla cognizione e alla psicopatologia, nonostante risulti ancora poco chiara e di difficile comprensione.

Blackledge, in un suo studio del 2003, ha tentato di semplificare i principi della Relatonal Frame Theory in modo da rendere più evidenti i contributi di questa teoria alla psicopatologia. A questo scopo Blackledge parte dall’analisi di un modello ampiamente conosciuto: il fear network di Lang (1985). Tale modello presenta alcune analogie con la RFT: è a partire da questo modello che può risultare più chiara la descrizione dei principi presenti nella RFT.

Dal fear network di Lang alla Relational Frame Theory

Secondo Lang, tutta la conoscenza è rappresentata da unità concettuali che racchiudono informazioni sugli oggetti, sulle relazioni e sugli eventi. Queste unità di informazione, sono definite “proposizioni” e si distinguono in proposizioni-stimolo, proposizioni-risposta e proposizioni-significato:

  • le proposizioni-stimolo implicano informazioni sugli stimoli esterni e il contesto in cui si verificano (es. se vedo un serpente nel bosco, “Serpente” e “Bosco” saranno due proposizioni stimolo);
  • le proposizioni-risposta si riferiscono alle informazioni sulla risposta in questo contesto, inclusi il comportamento verbale espressivo, reazioni viscerali ed eventi somatici che mediano le azioni (es.”Il battito cardiaco accelera”);
  • le proposizioni-significato invece si riferiscono a informazioni che definiscono il significato dello stimolo e risposta (“Il serpente è pericoloso”).

Lang sostiene che queste reti di stimoli sono immagazzinate come schemi nella memoria a lungo termine e vengono attivate quando ci si imbatte in uno degli stimoli. Seguendo l’esempio del serpente, semplicemente camminando in una zona boscosa e vedendo movimenti furtivi fuori dall’angolo degli occhi, potrebbe aumentare la frequenza cardiaca e avere paura. Le proposizioni-stimolo forniscono l’input iniziale, che saranno poi eventualmente alterate dalle proposizioni-significato della rete. Le proposizioni-risposta sono il risultato quasi inevitabile dell’elaborazione cognitiva.

Queste reti e i loro componenti, possono essere apprese apprese o per esperienza diretta, o per conoscenza e istruzione o per modellamento.

Il modello di Lang include componenti che riguardano pensieri, emozioni, sensazioni fisiologiche e comportamenti manifesti. Allo stesso modo la Relational Frame Theory incorpora tutte queste classi di stimoli. Inoltre, secondo Lang, vi sono delle relazioni implicite ed esplicite tra le componenti di una rete: ad esempio ci sono relazioni causali tra stimoli (il pensiero causa l’azione), rapporti di equivalenza approssimativa tra stimoli (“serpente” = “pericolo”, per esempio) o relazioni gerarchiche tra stimoli.

Inoltre diversi stimoli possono condividere alcune delle funzioni degli altri stimoli presenti nella rete in virtù della loro associazione. Ad esempio, l’essere in un bosco potrebbe portare alla paura e alla stessa accelerazione della frequenza cardiaca, perché so che lì potrei trovare un serpente (sebbene non lo veda). Questo concetto di relazione tra stimoli è cruciale nella Relational Frame Theory. Ad esempio, una frequenza cardiaca accelerata potrebbe indurmi a pensare che ho paura, con una sensazione di paura che si verifica contemporaneamente.

La Risposta Relazionale

Uno dei principi base della Relational Frame Theory è quello della risposta relazionale, che si riferisce al processo di discriminazione delle relazioni tra stimoli. L’idea di discriminare le relazioni tra gli stimoli, secondo la RFT, è importante perché consente di raccogliere più informazioni su tutti gli stimoli dell’insieme, rispetto alla discriminazione del singolo stimolo della rete.

Ad esempio, essere in grado di discriminare un’area boschiva e poter discriminare un serpente, non mi dice nulla sulla relazione tra i serpenti e le aree boschive, su quanto sia possibile incontrare un serpente in quell’ambiente lì, ecc. Questo determina anche comportamenti più complessi (ad es. porto un kit di pronto soccorso con me quando vado nei boschi, perché potrei essere morso da un serpente). Tuttavia questo processo può sfuggire al controllo e portare a problemi psicologici come, ad esempio, le fobie.

Risposta relazionale derivata: coinvolgimento mutuo e combinatorio

Specifici tipi di risposta relazionale si verificano anche in situazioni specifiche di cui non si è fatta esperienza diretta, in questi casi si parla di risposta relazionale derivata. La risposta relazionale derivata implica la capacità di correlare gli stimoli in una varietà di modi anche se non c’è mai stato un rinforzo diretto al mettere in relazione quegli stimoli in quei modi specifici. Se ad es. nessuno mi ha mai detto direttamente che dovrei aver paura dei serpenti, ma ho imparato da qualcuno che i serpenti sono imprevedibili e spesso si muovono rapidamente, ed ho anche imparato che l’imprevedibilità e il movimento rapido sono eventi spaventosi, allora, anche se nessuno mi ha mai detto che dovrei avere paura dei serpenti, potrei lo stesso sapere che i serpenti sono animali di cui avere paura. E’ come se lo stimolo “Serpente” è correlato in modo coordinato con “non prevedibile” e “movimento rapido”, e questi ultimi due stimoli sono correlati in modo coordinato a “paura”. Una connessione tra “paura” e “serpente” non è stata quindi mai appresa direttamente ma è stata derivata.

Esistono due tipi specifici di risposta relazionale derivata: mutuo coinvolgimento e coinvolgimento combinatorio.

Il mutuo coinvolgimento significa semplicemente che se lo stimolo A è correlato in modo specifico allo stimolo B, allora B è correlato in modo complementare a A: se mi è stato insegnato che la cognizione “Ho paura” è una causa per “scappare”, sarei in grado di derivare che “scappare” è un effetto del pensare “Ho paura”. Allo stesso modo, se so che i “serpenti” “si muovono rapidamente”, sono in grado di ricavare che “il movimento rapido” (in certi contesti) è indicativo di “serpenti”. Tali semplici derivazioni possono apparire così ovvie al lettore che sembrano non richiedere alcuna attenzione. Tuttavia, nelle prime fasi di apprendimento del linguaggio, tali derivazioni sono tutt’altro che semplici (Lipkens, Hayes e Hayes, 1993).

Il coinvolgimento combinatorio è attivato nella relazione tra almeno tre stimoli: esso si riferisce ai rapporti reciproci che esistono tra due stimoli in virtù del modo in cui tali stimoli sono collegati ad altri stimoli intermedi. I rapporti combinatori quindi si verificano tra due stimoli che non sono direttamente correlati l’uno all’altro. Ad es. la relazione tra “Io/me”, “Area Boscosa” e “Serpente”: supponiamo che io sia attualmente in una zona boscosa, normalmente non associerei mai “Io / Me” e “Serpente”, ma è lo stimolo “area boscosa”, legato ad entrambi i primi due stimoli, che mi fa derivare una relazione combinatoria tra questi. In questo caso, so che i serpenti sono contenuti in aree boschive, e so anche che io attualmente sono in un’area boschiva, quindi io potrei imbattermi in un serpente.

Come nel caso del mutuo coinvolgimento, l’evidenza empirica indica che l’integrazione combinatoria non si verifica automaticamente con la comparsa del linguaggio, ma piuttosto si sviluppa come una funzione dell’apprendimento del linguaggio (Blackledge et al., 2004, Lipkens et al., 1993).

Risposta relazionale derivata: la coordinazione

Prima di continuare a descrivere le caratteristiche principali della Relational Frame Theory, Blackledge (2003) propone un’altra breve digressione per spiegare uno specifico tipo di relazione che spesso confonde i lettori, probabilmente la risposta relazionale più basilare e diffusa tra gli stimoli: la coordinazione. Se due stimoli sono correlati in modo coordinato, significa che sono uguali o quasi identici. Il termine coordinazione è usato perché tiene conto sia delle cose che sono identiche l’una all’altra, sia delle cose che sono simili sotto molti aspetti. Come forse con ogni risposta relazionale, i bambini imparano innanzitutto a correlare in modo coordinato gli stimoli sulla base delle loro proprietà formali. Ad esempio, supponiamo che un bambino ha appreso che la parola “Coca-Cola” si riferisce alla Coca Cola, al piccolo viene detto che la Pepsi è come la Coca Cola e che riceverà un bicchiere di Pepsi se mette via i suoi giocattoli. Anche se il bambino non ha mai assaggiato né visto la Pepsi, relazionerà questa in modo coordinato con Coca-Cola e farà di tutto per averne un po’, anche mettere via i suoi giocattoli. Anche se non ha mai bevuto la Pepsi, coordinare questo stimolo alla familiare Coca Cola consente al bambino di “capire” cos’è la Pepsi (Blackledge, 2003).

Trasformazione delle funzioni di stimolo

Questo rimando teorico aiuta a comprendere un’altra caratteristica che definisce la Relational Frame Theory. Effettuare delle risposte relazionali tra stimoli comporta la trasformazione delle funzioni di ogni stimolo coinvolto: quando due stimoli sono correlati, alcune delle funzioni di un singolo stimolo cambiano in base agli altri stimoli ad esso collegati e al modo in cui questi sono collegati. Se per esempio veniamo a conoscenza del fatto che nel bosco in cui giocavamo da piccoli, ci sono dei serpenti a detta di tutti pericolosi, la relazione gerarchica appena stabilita tra bosco e serpenti, si traduce in una trasformazione delle funzioni dell’area boscosa. Dove prima, i boschi erano “belli” e “divertenti”, ora sono “pericolosi”.

E’ facile capire come, nel corso degli anni, col passare dei giorni e delle esperienze, impariamo a utilizzare le risposte relazionali tra stimoli e a creare tra questi legami non-formali o arbitrari: i nostri mondi verbalmente costruiti diventano sempre più complessi man mano che deriviamo sempre maggiori relazioni tra ogni stimolo che discriminiamo.

Risposta Relazionale Derivata Arbitrariamente Applicabile

Non è solo la capacità di derivare le risposte relazionali tra gli stimoli il segno distintivo della Relational Frame Theory, ma piuttosto la capacità di farlo usando proprietà arbitrarie (o non formali) degli stimoli, proprietà diverse da quelle formali che possono essere direttamente viste, assaggiate, odorate o toccate.

Quindi, l’essenza della Relational Frame Theory è una risposta relazionale derivata, arbitrariamente applicabile, che non è applicata arbitrariamente: la risposta relazionale si riferisce alla capacità di rispondere alle relazioni tra stimoli piuttosto che rispondere a ciascun stimolo separatamente. Le relazioni tra gli stimoli possono essere derivate (dai processi di coinvolgimento mutuo e combinatorio), il che significa che le relazioni tra gli stimoli non devono necessariamente essere apprese direttamente. E il processo di risposta relazionale derivata può verificarsi rispetto alle proprietà arbitrarie di uno stimolo (e non solo formali).

Il processo di risposta relazionale derivata arbitrariamente applicabile dà luogo alla trasformazione delle funzioni di ogni stimolo tra gli stimoli tra loro correlati. Infine, la risposta relazionale derivata arbitrariamente applicabile è detta non applicata arbitrariamente: il che significa che la comunità in cui parliamo, che condivide con noi cultura e linguaggio, rinforza solo le risposte relazionali a certe proprietà arbitrarie dello stimolo in determinati contesti, ma non in altri. Quando una risposta relazionale ha “senso”, di solito significa che è stata applicata in modo non arbitrario, cioè che la comunità linguistica a cui apparteniamo “approva” quel modo di relazionare cose specifiche.

La natura operativa dei processi della Relational Frame Theory

Ciò che è stato appena illustrato indica una caratteristica chiave della risposta relazionale derivata: tale risposta è in realtà frutto di un comportamento operante. Dopo una lunga storia di rinforzi dati al relazionare diversi stimoli in diversi modi, diventa possibile mettere in relazione altri stimoli nuovi in ​​una varietà di modi nuovi, anche se questo non è mai stato insegnato direttamente.

Ciò inizia dal mettere in relazione le caratteristiche formali degli stimoli, successivamente si passa al creare relazioni tra proprietà non formali degli stimoli.

In realtà i capisaldi della RFT derivano da processi operativi: rispondere alle relazioni tra stimoli, anziché al singolo stimolo, potrebbe essere uno dei primi passaggi appresi dai bambini che iniziano a parlare. Si inizia così a ricavare relazioni reciproche tra stimoli, sia combinatorie che differenziali. Anche il processo di trasformazione della funzione è modellato insieme ai processi di risposta relazionale, coinvolgimento reciproco e coinvolgimento combinatorio, fino a quando tutti i processi non rientrano in un controllo contestuale sempre più complesso e specifico.

Anche se la lingua non può essere insegnata esplicitamente in termini relazionali, i dati empirici e le conseguenti implicazioni teoriche indicano che pensare al linguaggio in questo modo ha conseguenze importanti per predire il comportamento umano e cambiarlo in meglio (Hayes et al., 2001; Hayes et al., 1999). Definire la lingua come risposta relazionale derivata arbitrariamente ha importanti implicazioni pratiche per gli psicologi clinici (Hayes et al., 2001).

La Relational Frame Theory alla base dell’ Acceptance and Commitment Therapy (ACT)

L’ACT si basa sul modello della Relational Frame Theory: il linguaggio è basato sull’abilità appresa di mettere in relazione gli eventi in modo arbitrario. L’origine della sofferenza psicologica risiede quindi nella normale funzione di alcuni processi del linguaggio umano, quando applicati alla risoluzione di esperienze private/interne (es. pensieri, emozioni, ricordi, sensazioni corporee, ecc.), invece che alla risoluzione di eventi/situazioni del mondo esterno.

Questo nell’ Acceptance and Commitment Therapy risulta essere un aspetto molto importante: tali processi mentali portano l’individuo a dare significato e sperimentare il pensiero in modo letterale. Per questo motivo, se ho un pensiero di inadegatezza allora “Io sono inadeguato”. Il modello della psicopatologia derivante dalla Relational Frame Theory è, quindi, un modello di inflessibilità psicologica e di “blocco/incastro”, in cui se si lascia che i pensieri (intesi in senso molto ampio) vivano al posto nostro arriviamo a non avere chiaro cosa vogliamo della vita e che cosa sia importante per noi. L’eccesso di tale processo porta a quello che in ACT viene chiamato il sé concettualizzato (una maschera scomoda che indossiamo, di cui abbiamo già scritto su state of mind).

Secondo la Relational Frame Theory, il nucleo del linguaggio umano e della cognizione è la capacità di imparare a relazionare in modo arbitrariamente applicabile degli eventi o degli stimoli. Abbiamo visto che le relazioni non arbitrarie sono quelle definite a partire dalle proprietà formali (concrete, di cui abbiamo esperienza diretta) degli stimoli. Se un oggetto ha lo stesso aspetto di un altro, o è più grande di un altro, o è più largo, una grande varietà di animali sarebbe in grado di imparare questa relazione e anche mostrarla con nuovi oggetti che sono formalmente correlati allo stesso modo (Reese, 1968). Gli esseri umani sembrano particolarmente abili invece nell’astrarre le caratteristiche di tale risposta relazionale e portarle sotto il controllo contestuale in modo che l’apprendimento relazionale avvenga anche su stimoli ed eventi non necessariamente correlati in modo formale ma piuttosto correlati sulla base di caratteristiche arbitrarie (“arbitrario”, come abbiamo visto in precendenza, è da intendersi come “per convenzione sociale”) (Hayes, 2004).

Abbiamo visto come questo sia possibile attraverso il mutuo coinvolgimento, il coinvolgimento combinatorio e la trasformazione delle funzioni dello stimolo. Quando questi tre processi vengono messi in atto in una determinata risposta relazionale, l’intera performance è chiamata Relational Frame (Cornice Relazionale).

Ciò che rende un Relational Frame clinicamente rilevante è che le funzioni date a uno degli stimoli correlati agli altri, tendono ad alterare anche le funzioni degli altri stimoli.

Per esempio un bambino che non ha mai avuto o giocato con un gatto, può apprendere che le lettere G-A-T-T-O rappresentano un animale, e che nello specifico G-A-T-T-O è un gatto. Si ricavano così quattro relazioni supplementari: G-A-T-T-O è un animale, G-A-T-T-O è un gatto, il gatto è un animale e tra gli animali c’è il gatto. Se il bambino gioca con un gatto e viene graffiato, probabilmente piangerà e scapperà via. Se qualche giorno dopo la mamma dirà “Oh guarda, un gatto!” è plausibile che il bambino pianga e scappi via di nuovo, anche se non c’è un gatto e anche se non è mai stato graffiato in presenza delle parole “Oh guarda, un gatto!”

Ciò spiegherebbe, ad esempio, come le persone che hanno un primo attacco di panico, sentendosi “intrappolati” in un centro commerciale, presto scopriranno di sentirsi “intrappolati” anche in piazza o in metro. Ciò che unisce queste situazioni non sono le proprietà formali (concrete, tangibili) ma le attività verbali e cognitive che mettono in relazione questi eventi (Hayes, 2004).

Secondo la Relational Frame Theory, il linguaggio umano e la cognizione dipendono entrambi da frame relazionali (Hayes, 2004). Quando pensiamo, ragioniamo, ascoltiamo, lo facciamo derivando le relazioni tra stimoli ed eventi – relazioni tra le parole e gli eventi, tra parole e parole, tra eventi ed eventi. Per questo motivo, a differenza degli operanti verbali di Skinner, secondo la Relational Frame Theory non solo è possibile, ma addirittura necessatio analizzare la cognizione per capire il comportamento umano.

La Relational Frame Theory fa luce su alcuni processi alla base della sofferenza psicologica: la fusione cognitiva e l’evitamento esperienziale, il pericolo della soppressione del pensiero, ma anche l’importanza della defusione cognitiva e dell’accettazione esperenziale, del senso di “Sé” e della centralità dei valori.

Relational Frame Theory: come spiegare l’evitamento esperienziale e il fallimento della soppressione?

Tra i processi patologici più noti vi è l’evitamento esperenziale: il tentativo di fuggire o evitare eventi temuti, anche quando è il tentativo stesso di fuggire che causa danni psicologici (Hayes, Wilson, Gifford, Follette, & Strosahl, 1996). Le emozioni correlate a questa disfunzionale strategia di coping predicono la possibilità di sviluppare depressione (DeGenova, Patton, Jurich, &
MacDermid, 1994), abuso di sostanze (Ireland, McMahon, Malow, & Kouzekanani, 1994) e molte altre aree. Anche i tentativi deliberati di sopprimere pensieri e sentimenti non fanno altro che aumentare la loro presenza e il loro impatto sul comportamento (Cioffi & Holloway, 1993; Clark, Ball, & Pape, 1991; Wegner, Schneider, Carter, & White, 1987).

Sebbene amplificati dalla cultura, la Relational Frame Theory suggerisce che tali processi sono costruiti nel linguaggio umano e nella cognizione stessa. Gli animali cercano di evitare il dolore evitando le situazioni in cui lo stesso dolore si è verificato in passato. Un essere umano non ha questa opzione perché i frame relazionali permettono al dolore di manifestarsi in quasi tutte le situazioni (tramite una trasformazione delle funzioni di stimolo). I pensieri di un coniuge appena morto potrebbero essere attivati da alcune immagini, dall’umore depresso, da un commento in una conversazione, o una miriade di altri segnali. Incapaci di controllare il dolore per via situazionale, gli umani iniziano a cercare di evitare i pensieri e gli stessi sentimenti dolorosi. Sfortunatamente, molti di questi tentativi (ad esempio, la soppressione) non portano a nient’altro che evocare loro stessi l’evento evitato perché rafforzano i frame relazionali sottostanti.

Relational Frame theory e fusione cognitiva

Le reti relazionali sono straordinariamente difficili da rompere, nonostante gli interventi diretti, o le tecniche di disputing (Wilson & Hayes, 1996), questo perché da esse partono una miriade di relazioni derivate, mantenute attraverso determinate reti relazionali.

In termini pratici ciò significa che le elaborate reti relazionali raramente vanno via, vengono semplicemente elaborate un’altra volta. Di conseguenza è molto difficile rallentare e soffermarsi sul linguaggio e sulla cognizione una volta che questi sono ben consolidati. Le funzioni di uno stimolo derivano dunque da frame relazionali che possono dominare anche sulla regolazione comportamentale degli esseri umani, è come se ci fondessimo con i nostri stessi pensieri, mettendo da parte il contatto con l’esperienza del qui-ed-ora ma lasciandoci dominare da regole verbali e valutazioni (Hayes, 1999): ciò viene chiamato Fusione Cognitiva.

Attraverso la trasformazione delle funzioni di stimolo, il nostro ambiente e il nostro contesto di vita tenderà a contenere quelle funzioni di stimolo da cui dipendono le nostre cornici relazionali, sebbene tale processo relazionale non sempre sia evidente. La persona paurosa si costruirà un ambiente di vita che fa paura, agirà come se la paura fosse stata realmente provata e non “cognitivamente costruita”.

Poiché il comportamento regolato dalle reti relazionali è notoriamente insensibile a interventi diretti o di messa in discussione (Hayes, Brownstein, Zettle, Rosenfarb e Korn, 1986), le formulazioni verbali di un terapeuta possono risultare inefficaci e possono continuare a creare sofferenza (non a caso questo è il punto cruciale che porta a superare la CBT classica e a passare agli interventi della terza onda, di cui l’ACT fa parte).

La Relational Frame Theory suggerisce un’alternativa al disputing e agli interventi diretti: cambiare i contesti che supportano un pensiero, il modo in cui ci si relaziona ai propri pensieri e di qui cambiare le azioni o l’emozione, creando una nuova relazione d’azione. L’accettazione esperienziale e la defusione cognitiva sono i primi esempi di tecniche ACT che tentano di fare proprio questo.

Gli obiettivi clinici generali dell’ ACT sono quelli di interrompere il totale “aggrapparsi” ai propri pensieri e di costruire un contesto alternativo in cui è più probabile che il comportamento si allinei ai propri valori. Brevemente, l’ ACT intende promuovere due capacità psicologiche:

  1. Imparare a notare i propri pensieri, immagini o ricordi, riconoscendoli per ciò che sono, ovvero “prodotti della mente” e non realtà assolute;
  2. Guardare la propria esperienza da una posizione privilegiata, dall’alto, decentrata, promuovendo la consapevolezza della propria esperienza mentale.

Osservando i propri pensieri, immagini o ricordi è possibile scegliere di “fondersi” con essi (se ciò è utile e funzionale) oppure di “abbassare il volume” di tali prodotti della nostra mente, facendosene quindi influenzare meno.

Per raggiungere tali obiettivi, l’ ACT prende in considerazione i seguenti concetti:

  • La sofferenza psicologica è normale, è importante ed accompagna ogni persona.Ne consegue che la felicità può essere vista nell’accezione di vivere una vita ricca, piena e significativa
  • Non è possibile sbarazzarsi volontariamente della propria sofferenza psicologica, anche se si possono prendere provvedimenti per evitare d’incrementarla artificialmente.
  • I processi psicologici normali sono connotati dalla realtà del dolore e della sofferenza, che si configura pertanto come stato dell’essere. Combattere contro pensieri ed emozioni negative significa ingaggiarsi in una battaglia persa in partenza
  • Non bisogna identificarsi con la propria sofferenza. La vita comprende anche il dolore e non c’è modo di evitarlo. Non possiamo evitare questo dolore ma possiamo imparare ad affrontarlo molto meglio, a fargli spazio, a ridurre i suoi effetti e a crearci una vita che valga ugualmente la pena di essere vissuta.
  • Si può vivere un’esistenza basata su propri valori. Spesso i pazienti poiché incastrati nelle maglie della psicopatologia li perdono di vista, senza saper più riconoscere cosa sia davvero significativo per la propria vita e senza riuscire più a scegliere e ad agire  come ritengono sia meglio per sé stessi.

L’ Acceptance and Commitment Therapy si basa quindi su tre punti fondamentali:

  • Mindfulness: è un modo di osservare la propria esperienza. Attraverso tali tecniche si impara a guardare al proprio dolore, piuttosto che vedere il mondo attraverso di esso.
  • Accettazione: si basa sulla nozione che, spesso, tentando di sbarazzarsi del proprio dolore si arriva solamente ad amplificarlo, intrappolandosi ancora di più in esso e trasformando l’esperienza in qualcosa di traumatico. Accettare non significa essere rassegnati, passivi né tollerare o sopportare, bensì abbandonare tutti i tentativi di soluzione inutile e accogliere ciò che la vita comporta se riconosciamo che stiamo andando nella direzione ci ciò che vogliamo dalla nostra esistenza.
  • Impegno e vita basata sui valori: quando si è coinvolti nella lotta contro i problemi psicologici spesso si mette la vita in attesa, credendo che il proprio dolore debba diminuire, prima di iniziare nuovamente a vivere. L’ACT invita a uscire dalla propria mente ed entrare nella propria vita intraprendendo azioni impegnate in direzione di quelli che sono i propri valori.
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Marina Morgese
Marina Morgese

Caporedattrice di State of Mind

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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