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Burocrafilia – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 37

Nelle società, la richiesta di regole si esprime nella continua brama verso i protocolli. Sarebbe interessante capire le ragioni sociologiche o psicologiche di questa idolatria delle regole, che spesso porta a una lunga e inconcludente burocrazia

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 29 Ago. 2018

Il padreterno creò la terra, non in sette ma in un solo giorno. Anzi i vecchietti che si sporgevano dal bordo dell’universo sul cantiere sostennero che prima di pranzo il caos aveva già perso la sua partita e tutto era in ordine, ma fece figurare che tirò fino a sera per una questione di cartellino.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Burocrafilia (Nr. 37)

 

Del resto o è onnipotenza o non lo è ed allora un giorno basta e avanza. I giorni successivi però non furono meno intensi ed è da allora che una schiera di satanassi coordinati da Lucifero gli diede una mano. Il secondo giorno si dedicò alle leggi generali (per esempio tutte quelle della fisica, dell’astronomia e della chimica) che gli scienziati avrebbero cercato di scoprire nei millenni a seguire. Il terzo furono le leggi sui rapporti umani e, a seguire quelle sui rapporti tra tutti gli oggetti creati animati e non, insomma un lavoraccio concettuale che aveva sottovalutato.

Ma le leggi non bastavano, troppo generali, e nei giorni successivi seguirono nell’ordine: i decreti attuativi, le normative generali, i regolamenti e tutta l’infinità modulistica che li accompagna. Una commissione si occupò di risolvere le incongruenze frequentissime che creavano delle situazioni di assoluta paralisi come quella per cui per prendere la patente speciale occorre fare l’esame con l’auto di propria proprietà, ma per comprare l’auto ci vuole la patente speciale. Dopo giorni di lavoro rinunciò a dipanare il groviglio normativo ed emanò una disposizione che recitava pressappoco così “Arrangiatevi”, segnando così definitivamente il vantaggio evolutivo degli italici.

La storia si è poi continuamente ripetuta. All’inizio prevale e soffia lo spirito, poi arriva immancabilmente la legge. Gli ebrei hanno ricevuto la thorà, ma poi si sono impiccati con il libro dei numeri normando ogni istante della vita. Noialtri siamo passati dal discorso della montagna alla santa inquisizione. Lo spirito di giustizia, libertà, uguaglianza e fraternità ha prodotto prima la ghigliottina e il terrore e poi i gulag, KGB, la Stasi. Badare alle regole perdendo lo spirito è appunto come guardare al dito che indica la luna, ma ci viene proprio naturale. Sant’Agostino dice “ama e fa quello che vuoi”, il solito lassista, e la Chiesa ha minuziosi prontuari su tutte le minuzie illecite e non (quante volte?, fino a dove?, da solo o in compagnia?).

E’ chiaro che per ogni regola c’è un controllore, per ogni pratica un usciere o un maresciallo che può metterla in cima o in fondo alla pila e dunque ogni norma e ogni modulo, ogni timbro necessario rappresenta un possibile livello di corruzione. Si aggiunga, con lo stesso effetto, che l’enorme massa di regole e regolette fa sì che tutti siamo irregolari (tutti colpevoli= nessun colpevole) e dunque la sanzione è assoluta discrezione del controllore. Intendo che se una pattuglia vi ferma con la macchina e vuole multarvi certamente troverà un motivo, così come non esiste un locale che sia completamente a norma per la sicurezza (legge 626).

In casa nostra questa libido delle regole si esprime nella continua brama verso i protocolli, ma la ritroviamo in ogni campo. Fa sorridere l’aneddoto reale del vecchietto cui è stato chiesto di produrre ogni anno il certificato di esistenza in vita per avere diritto alla pensione, al quale è stato contestato che seppure era in regola per l’anno in corso non lo era per quello precedente. Meno sorridere fa il film “Io, Daniel Blake” di Ken Loack (2016) che lascia intravedere la fine dell’umanità non per il riscaldamento globale ma per il soffocamento da burocrazia.

Sarebbe interessante capire le ragioni evolutive di questa idolatria delle regole e questo compito spetterebbe a sociologi (appartenenza? Ordine?) o psicopatologi (identità? Incertezza? Fragilità? Perfezionismo?).

Incapace di ciò mi limito, scopiazzando l’idea di Roland Barthes, a rappresentare alcune figure, immagini, icone della paralisi da norme:

  • “Questa è la procedura”

E’ ciò che nella vita quotidiana si chiama abitudine e in psicopatologia, quando diventa rigida e immodificabile, rituale compulsivo. Nasce per raggiungere un obiettivo, è dunque strumentale rispetto ad un fine. 
Poi progressivamente perde il rapporto di strumentalità e diventa essa stessa un fine, rimanendo immutabile persino quando arriva ad essere un ostacolo al raggiungimento dell’obiettivo per cui era nata. Si tratta di un perverso ribaltamento del rapporto fini/mezzi, una sorta di rivolta degli schiavi. L’averlo messo in discussione con la famosa frase in cui ricordava che “è il sabato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato” è costato carissimo al ribelle procedurale dalla bianca tunica.

  • Call center

Sono le invalicabili torri di guardia, la cintura protettiva lakatosiana a difesa dell’area impenetrabile del potere, che esso sia una ASL, una qualsivoglia istituzione, un gestore di servizi, un agenzia. E’ contro di essi che si scarica la furia e l’indignazione dei sudditi. Dai call center è stato mutuato il concetto di “scudi umani”. In trincea infatti col petto offerto alle pallottole nemiche, giovani ostaggi miti e gentili dalla barbagia, dal casertano o dall’Albania, non hanno risposte da dare, non sanno, non possono, non è di loro competenza. Sono come le prime truppe sul bagnasciuga della Normandia nel giugno del ’43, solo carne da macello, e scatta tra i marosi immancabile la solidarietà tra sconfitti. Ci si sente come Maramaldo dinnanzi a Fancesco Ferrucci morente, non si infierisce. Li si immagina giovani e carini, come i propri figli, universitari che vogliono arrotondare ed invece magari sono prepensionati, esodati con una famiglia a carico, un mutuo e la badante per la madre.

  • “Deve aspettare”

L’attesa è l’attività degli impotenti. Altri, gli adulti, fanno e disfano e intanto si attende senza sapere quanto, cosa e perché. L’ignoranza è ingrediente essenziale della passività che fa smarrire prima l’agentività e infine la dignità. Ma essere in balia di forze superiori che non hanno da render conto del proprio operato e celano i loro disegni non è forse metafora dell’esistenza umana?

  • “Dipende”

Un tormentone estivo del 1998 cantava “depende, da che depende?” perché è ovvio che “dipende” non è una risposta, in quanto sposta semplicemente la domanda al livello superiore, dal quale la cosa appunto dipende. Ma il non verbale che accompagna il “dipende” lascia intuire che i fattori sono troppi e la situazione è complessa per cui non è dato capire ai presuntuosi non addetti ai lavori e ci si sente impertinenti e indiscreti, come quando si chiese alla nonna come nascevano i bambini e la povera vecchia svenne.

  • “Stiamo facendo il possibile, guardi che non mi sto divertendo”

Il tono irritato che accompagna la frase fa venir voglia di autodenunciarsi immediatamente per comportamento antisindacale e ci si sente come il padrone della zolfara che punisce a nerbate sulla schiena i carusi che hanno portato in superficie il sacco più leggero o indugiato troppo a dissetarsi e detergersi il sudore impastato di zolfo.

  • “Abbiamo sempre fatto così”

E’ talmente radicato l’attaccamento degli umani alla tradizione che c’è da meravigliarsi che non si stia ancora nelle caverne e non ci si nutra di semi e piccoli animali. Ho l’impressione che le ragioni per cambiare debbano essere perlomeno doppie di quelle per mantenere lo status quo perché il cambiamento avvenga davvero e Kaneman lo spiega in termini del diverso peso emotivo che hanno le perdite e i guadagni. Siamo così abituati a questo primato, appunto, dell’abitudine che dire “abbiamo sempre fatto così” sembra una argomentazione che giustifica la prassi corrente, quando al massimo è una constatazione spesso solo della dilagante stupidità.

  • “Tutti gli operatori sono momentaneamente occupati”

Nella mente si aprono due scenari contrapposti. Da un lato un formicaio silente, organizzato e laborioso o, meglio, la fabbrica di cioccolato con gli instancabili Umpa Lumpa in perfetto coordinamento operativo. Dall’altro rumorose macchinette per il caffè e gli snack in fumose sale per la pausa, animate discussioni sul fuorigioco dell’ultimo derby, trucchi da riaggiustare e gonne da riposizionare dopo affannate sveltine e, naturalmente, italiche telefonate ai pupi fino a feste sui triclini intorno ai tavoli imbanditi con le pietanze provenienti dai confini dell’impero. A distogliere da queste fantasie l’invito a non riattaccare per non perdere la priorità acquisita. Ci si sente dei privilegiati, si sta in corsa, si sono acquisiti dei diritti, si conta dunque qualcosa. Taluni comunicano di tanto in tanto il posto in graduatoria e ci si sente orgogliosi quando si entra in zona punti o addirittura ci si avvicina al podio in zona medaglia. Quando si è secondi e ci si chiede cosa mai dovrà fare così a lungo l’utente che ci precede e telepaticamente lo si sollecita a tagliar corto, il suono improvviso dell’occupato per la linea caduta mischia le fantasie ed ora sono gli Umpa Lumpa a possedersi l’un l’altro sui triclini cibandosi di formiche abbrustolite.

  • “Doveva informarsi”, “Doveva essere lei”, “L’ignoranza non è ammessa”, “Mancano i seguenti documenti”

Il reato di lesa maestà non può restare impunito, a lasciar correre anche una sola volta si aprirebbe una falla fatale. L’errore è inammissibile, le scuse inimmaginabili, chi ha sventolato il vessillo del buon senso va punito come esempio per gli altri. Per additarlo colpevole è sufficiente un termine scaduto, un documento stantio, una precedente normativa abrogata ma non troppo, una fotocopia che non si legge bene, l’approssimarsi dell’orario di chiusura. E se ancora, novello Enrico Toti, non si arrende allora la minaccia: “Lei non sa cosa rischia!”

  • “Deve ritornare”

Non è una rottura definitiva, entrambi sanno di non poter fare a meno dell’altro, sono condannati a convivere. E torna alla mente quella sera di aprile su ponte Garibaldi a guardarle le spalle impiccolirsi in prospettiva, nelle orecchie “possiamo restare amici, no?”, nelle mani un mazzetto di roselline, negli occhi il tevere esondante. Ora nelle mani una pratica.

 

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