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La paura uccide più della spada: le reazioni di freezing in situazioni d’emergenza

La paura è una naturale reazione del nostro organismo in condizioni di pericolo che ci permette di attuare risposte volte a garantire la nostra sopravvivenza: l'attacco o la fuga. Nelle situazioni in cui non sembra esserci possibilità di salvezza il nostro organismo va oltre, generando una risposta di freezing.

Di Guest

Pubblicato il 05 Lug. 2018

Aggiornato il 10 Lug. 2018 11:04

Il freezing è una particolare risposta di paura che si manifesta attraverso bradicardia e immobilizzazione, appare come un totale o parziale “congelamento” della persona in situazioni di emergenza e può avere una durata compresa tra pochi secondi e 30 minuti.

Aleandra Russo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

La paura uccide più della spada” è una famosa frase di un celebre libro di George R. R. Martin. Ma è davvero così? Può la paura, o meglio le reazioni alla paura, influenzare il comportamento di una persona al punto tale da causarne la morte?

È possibile definire la paura come uno stato di tensione psicologico e fisico, che porta ad un’attivazione delle risorse individuali, finalizzata a preparare l’individuo ad affrontare nel miglior modo possibile una certa situazione che viene valutata “pericolosa” per se stessi.

La paura, assieme a felicità, rabbia, disgusto, tristezza e sorpresa, è una della emozioni primarie, presenti già nei primi mesi di vita. Il suo scopo principale è quello di allertare l’organismo affinchè possa prepararsi alla difesa, all’attacco o alla fuga (Milosevic, 2015).

Molte paure degli animali e degli uomini sono dovute a meccanismi inizialmente innati, configurandosi come un tentativo di produrre risposte adattive di allarme e salvaguardia di fronte a stimoli specifici che indicano la presenza di un pericolo. Sulle paure innate si innestano, poi, nel corso della vita, le paure apprese attraverso le esperienze dirette, l’osservazione degli altri oppure miti o racconti legati alla propria cultura.

Manifestazioni e meccanismi neurobiologici associati alla paura

La paura è fisiologicamente legata all’amigdala, un nucleo del sistema limbico formato da neuroni che in prevalenza utilizzano il neurotrasmettitore adrenalina. In risposta ad uno stimolo minaccioso, l’amigdala genera reazioni del sistema vegetativo accelerando il ritmo cardiaco, aumentando la pressione, attivando il tono muscolare in modo da preparare l’organismo all’attacco o alla fuga. L’amigdala, inoltre, attraverso l’ipotalamo, stimola l’ipofisi che produce gli ormoni tipici delle situazioni di stress. Viene liberata adrenalina che si riversa nel sangue, i surreni provocano la liberazione del cortisolo e si innescano una serie di reazioni tra cui la tachicardia, la sudorazione, il tremore, la dilatazione delle pupille, la fuga o, al contrario, il blocco delle reazioni motorie (Oliverio, 2013).

Quando la paura non ci aiuta

La paura è, dunque, un’emozione funzionale alla sopravvivenza: ci avverte della presenza di un pericolo e ci prepara ad affrontarlo. Può però diventare disfunzionale quando eccessiva in quanto potrebbe “paralizzare” l’individuo impedendogli di emettere comportamenti funzionali alla sopravvivenza.

Solitamente, in situazioni di pericolo o a rischio di sopravvivenza, le persone mettono in atto risposte di attacco o fuga. Questa reazione, descritta da Cannon nel 1929, coinvolge una serie di meccanismi neurali e fisiologici che attivano rapidamente il corpo per attaccare o fuggire. Da una prospettiva evolutiva, la risposta fight or flight è un istinto adattivo che si è sviluppato quando i predatori o stimoli ambientali minavano alla sopravvivenza degli esseri umani.

Secondo Leach in situazioni d’emergenza le risposte degli individui possono essere classificate in tre gruppi:

  • Il primo gruppo, che comprende il 10-15% di persone coinvolte in disastri, rimane relativamente calmo. Le persone sono capaci di organizzare i pensieri rapidamente e di mantenere integre le capacità di giudizio e di ragionamento, nonché la consapevolezza; sono in grado di valutare la situazione, di elaborare un piano d’azione e di attuarlo.
  • Il secondo gruppo, composto da circa il 75% di persone, comprende coloro che rispondono in maniera disorientata e confusa, mostrando compromissioni nel ragionamento, rallentamento del pensiero e comportamenti attuati in modo quasi automatico.
  • Il terzo gruppo, che raccoglie il restante 10-15% di persone, tende a mostrare un alto numero di comportamenti controproducenti che aumentano il rischio di morte: pianto incontrollato, confusione generalizzata, urla e ansia paralizzante.

La maggior parte delle vittime adottano un comportamento riconducibile a queste ultime due categorie (Leach, 2004).

L’adozione di questi comportamenti può essere ricondotta a varie cause. Un’importante ragione per cui le persone falliscono nel rispondere al pericolo può essere ritrovata nella tendenza ad entrare in uno stato di negazione, esperienza che avviene maggiormente quando in passato sono state sperimentate situazioni di falso allarme e quando vi è poca fiducia nella persona che segnala la presenza del pericolo. Un’altra causa significativa è la tendenza delle persone ad omologarsi a ciò che fanno gli altri, quindi, se la maggior parte delle persone non rispondono al segnale di allarme, l’individuo tenderà ad imitarli. Infine, le persone potrebbero non rispondere bene al pericolo perché non sanno cosa fare, in quanto non hanno uno schema comportamentale adeguato da attuare in quella particolare circostanza e quindi devono crearne uno (Robinson, 2012).

Quindi, in situazione d’emergenza è probabile che si manifestino reazioni di freezing.

Freezing: spiegazione, manifestazione, effetti

Il freezing si manifesta attraverso una reazione di bradicardia e di immobilizzazione, di totale o parziale “congelamento” dei movimenti da parte della persona che sta vivendo la situazione d’emergenza e può avere una durata compresa tra pochi secondi e 30 minuti. Tale reazione ha una funziona adattiva e negli animali si manifesta in risposta alla presenza di predatori.

Spesso gli animali ricorrono al freezing nelle circostanze in cui non vi è altra possibilità di salvezza. Negli uomini esso è stato poco studiato, ma varie ricerche ne hanno comprovato l’esistenza (Schmidta, 2008), mostrando come si manifesti anche utilizzando come stimolo la visione di film spiacevoli (Hagenaars, 2014) oppure in risposta a stimoli sociali di minaccia, come espressioni facciali che esprimono rabbia (Roelof, 2010).

Secondo Leach (2014), il freezing va compreso considerando le tempistiche necessarie alla memoria di lavoro per svolgere i vari passaggi richiesti per attuare un’azione. Le informazioni vengono processate nella memoria di lavoro, che ha due importanti limiti: può contenere solo un certo numero di informazioni alla volta e può processare l’informazione ad una data velocità massima, senza poterla aumentare. Di conseguenza, le operazioni mentali complesse in condizioni ottimali richiedono un minino di 8-10 secondi per essere attuate. Naturalmente il tempo richiesto per un’operazione aumenta proporzionalmente alla complessità della stessa.

Circostanze non ottimali, come il pericolo, possono rallentare ulteriormente il processo. In particolare, durante un disastro, gli eventi si susseguono rapidamente ed in modo imprevedibile; in queste situazioni le persone hanno poco tempo per reagire.

Come è possibile immaginare, più velocemente una persona risponderà agli eventi in svolgimento, maggiori saranno le chance di sopravvivenza. Il cervello è strutturato in modo che i tempi di risposta possano essere migliorati attraverso la pratica e l’esperienza. Ciò è possibile trasformando operazioni cognitive complesse (che impiegano 8-10 secondi) in operazioni cognitive semplici (che impiegano 1-2 secondi). Se la risposta da adottare è già stata appresa, il cervello non dovrà compiere operazioni cognitive complesse per adottare un comportamento ottimale, ma dovrà solo selezionare tra un set di risposte apprese precedentemente, così facendo il tempo di risposta si ridurrà a 1-2 secondi.

Le implicazioni funzionali per coloro che si trovano in situazioni di pericolo sono le seguenti:

  • Se una risposta appropriata all’evento è già stata preparata ed immagazzinata nel database cognitivo degli schemi comportamentali, la velocità di attuazione di una risposta pertinente è di 100 millisecondi, ossia immediata.
  • Se sono disponibili più risposte attuabili, allora scegliere la corretta sequenza comportamentale richiede un semplice processo di decision making, che impiega 1-2 secondi.
  • Se non esiste una risposta appropriata nel database, allora dovrà essere creato uno schema comportamentale temporaneo. Questo processo impiegherà almeno 8-10 secondi in circostanze ottimali e in condizioni di pericolo richiederà anche più tempo. Poiché spesso il tempo non è sufficiente, si produrrà una paralisi cognitivamente indotta o comportamento di freezing (Leah, 2014).

Cosa succede in situazioni d’emergenza?

Il freezing, sebbene si configuri come un comportamento adattivo in alcune circostanze, può essere altamente disadattivo in situazioni d’emergenza, fino al punto da essere fatale, poiché impedisce di mettere in atto i necessari comportamenti salva-vita.

È stato osservato, infatti, che in molti disastri aerei molti decessi non avvengono a causa dell’impatto, ma per i comportamenti controproducenti messi in atto dai passeggeri stessi.

Nel rapporto riguardante l’incidente aereo di Manchester del 1985 in cui persero la vita 55 persone, si afferma che “le persone hanno rallentato e ritardato l’evacuazione”. Nella documentazione ufficiale relativa al disastro della piattaforma petrolifera Piper Alpha del 1988 si dichiara che “un numero consistente di persone non ha tentato di lasciare i propri posti”. Un superstite dell’incidente navale della nave Estonia, avvenuto nel 1994, ha dichiarato che molte persone erano rimaste immobili in stato di shock; a tal proposito ha commentato: “Io non capivo perché non facessero niente per salvarsi, erano sedute inermi e sono state sommerse dall’acqua”. Ed ancora, in un incidente aereo a Tenerife una sopravvissuta ha testimoniato che dopo l’impatto la sua mente era diventata appannata e che si era salvata solo perché il marito l’aveva presa per mano, costringendola a seguirlo. Prima di abbandonare l’aereo aveva guardato indietro verso una sua amica, che era rimasta sul suo sedile ad urlare, congelata dalla paura.

Secondo gli studi del National Institute of Standards and Technology (NIST) durante l’attentato aereo alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 le 15000 persone presenti nel WTC hanno aspettato in media sei minuti prima di iniziare l’evacuazione ed hanno impiegato in media circa un minuto per ogni piano, il doppio di quanto previsto dagli standand di sicurezza (Pietrantoni, 2005). Durante il disastro avvenuto nello stadio di football di Hillsborough nel 1989, un testimone riferì di aver visto un poliziotto fallire nell’aiutare una ragazza che stava per essere schiacciata. Le parole del testimone furono: “Il poliziotto di fronte a noi guardava e basta. Io gli urlai di fare qualcosa, ma era come se stesse fissando il vuoto” (Robinson, 2012).

Possibili interventi per ridurre le reazioni di freezing in situazioni di emergenza

Dunque, considerando le limitazioni della memoria di lavoro, è possibile ridurre la reazione di freezing nelle situazioni d’emergenza mediante dei training che permettano di creare nel database cognitivo degli schemi comportamentali attuabili, evitando così che le persone si trovino nella situazione di doverli creare sul momento.

Poiché potrebbe rilevarsi troppo costoso ed impegnativo sottoporre tutti i civili a training simili, potrebbe essere opportuno ricorrere almeno a training indiretti. Ad esempio, dopo le spiegazioni di sicurezza di routine, potrebbe essere opportuno chiedere a qualche passeggero di provare ad aprile il portellone di uscita, per accertarsi che abbia capito bene come fare. Durante l’evacuazione dell’aereo a Manchester, ad esempio, si osservò un fallimento cognitivo in quest’area poichè un passeggero impiegò 45 secondi ad aprire il portellone, a causa dell’assenza di schemi comportamentali adeguati nel suo database.

È necessario, inoltre, che vengano modificati anche gli equipaggiamenti salvavita, come il giubbotto di salvataggio, affinchè assumano caratteristiche più ergonomiche. In molti disastri, infatti, come quello dell’Estonia, le persone non furono in grado di indossare correttamente e tempestivamente i giubbotti, causando dei rallentamenti anche fatali.

Per quanto concerne i bambini è necessario creare degli equipaggiamenti di sicurezza che siano consoni al loro sviluppo cognitivo, anziché continuare a considerarli come una versione in miniatura dell’adulto. Ad esempio, i bambini hanno maggiori difficoltà degli adulti nell’utilizzo del giubbotto di salvataggio. Dal report del disastro dell’Estonia emerge che vi erano 15 bambini sotto i 15 anni di età quando questa affondò e se ne udirono le grida; solo un bambino di 12 anni sopravvisse. L’unico bambino sopravvissuto al disastro di Machester fu attivamente salvato dagli adulti. Per risolvere questi problemi potrebbe essere utile insegnare a scuola alcuni comportamenti salvavita e l’uso di alcuni oggetti particolari, come il giubbotto di salvataggio (Leach, 2014).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Hagenaars, M.A., Roelofs, K., Stins, J.F. (2014). Human freezing in response to affective films. Anxiety, Stress, & Coping: An International Journal, 27(1), 27-37.
  • Leach, J. (2004). Why people ‘freeze’ in an emergency: temporal and cognitive constraints on survival responses. Aviation, Space, and Environmental Medicine, 75 (6).
  • Milosevic, I., McCabe, R.E., (2015). Phobias: the psychology of irrational fear. Greenwood: ABC-CLIO, LLC.
  • Oliverio Ferraris, A., (2013). Psicologia della paura. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Pietrantoni, L., Dionigi, A. (2005). Il gelo nella mente. Psicologia Contemporanea, 192, 59-65.
  • Robinson, S.J. (2012). When Disaster Strikes: Human Behaviour in Emergency Situations. Journal of the Institute of Civil Protection and Emergency Management DOWNLOAD
  • Roelofs, K., Hagenaars, M.A., Stins, J. (2010). Facing freeze: social threat induces bodily freeze in humans. Psychological Science XX (X), 1-7.
  • Schmidta, N.B., Richeya, J.A., Zvolenskyb, M.J., Maner, J. K. (2008). Exploring human freeze responses to a threat stressor. Journal of Behavior Therapy and Experimental Psychiatry, 39, 292-304.
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