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Dal verdetto del dodo alla strategia del cuculo: l’efficacia della terapia è dovuta a fattori specifici o alla relazione? – Un commento di Giovanni Maria Ruggiero

Il relazionalismo predica una qualità aspecifica, già presente in tutte le psicoterapie e in grado di spiegarne indistintamente l’efficacia, efficacia sempre e costantemente uguale per tutti gli orientamenti: un fattore estremamente squalificante per un secolo di modelli e teorie psicoterapeutiche

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 30 Lug. 2018

Aggiornato il 22 Dic. 2020 12:47

Parte bene la risposta di Giuseppe Magistrale all’articolo di Valentina Davi, in cui erano commentati i risultati di uno studio di Poulsen e collaboratori (Poulsen et al., 2014) in cui sembrerebbe esserci un netto vantaggio a favore della terapia cognitivo comportamentale rispetto a un trattamento psicoanalitico a lungo termine per la bulimia. Parte bene ma finisce male, almeno dal mio punto di vista. Finisce male per le prospettive della psicoterapia…

 

Parte bene la risposta di Giuseppe Magistrale all’articolo di Valentina Davi del 16 luglio su State of Mind in cui erano commentati i risultati di uno studio di Poulsen e collaboratori (Poulsen et al., 2014) in cui sembrerebbe esserci un netto vantaggio a favore della terapia cognitivo comportamentale rispetto a un trattamento psicoanalitico a lungo termine per la bulimia.

Parte bene perché accetta la sfida empirica e risponde in maniera non ideologica, ma riportando dati significativi. Parte bene ma finisce male, almeno dal mio punto di vista. Finisce male per le prospettive della psicoterapia: in questo mio breve commento a Magistrale mi limito a sottolineare alcuni aspetti del tipo di analisi empirica di solito utilizzata dai fautori della relazione, aspetti che –lo ribadisco: a mio parere- rischiano di attribuire al paradigma relazionale una vittoria di Pirro, un tipo di vittoria in cui i costi sono superiori ai benefici e che a loro volta rischiano di danneggiare l’intero movimento psicoterapeutico.

La risposta di Magistrale utilizza una serie di obiezioni più o meno forti e interessanti contro il dato riportato da Poulsen et al. (2014) a favore della superiorità tecnica della terapia cognitivo comportamentale (da questo momento: la TCC) per la bulimia non per additare una incoraggiante direzione alternativa alla TCC, ovvero una terapia relazionale separata e distinta dalle altre psicoterapie e in grado di promettere nel tempo un significativo incremento di efficacia che dipenda da specifiche abilità professionali –relazionali appunto- che una volta imparate e migliorate nel tempo ci facciano diventare tutti terapisti migliori, ovvero più efficaci.

Efficacia della psicoterapia: il rischio insito nel relazionalismo

Purtroppo non è così. La conclusione di Magistrale è invece, come spesso accade con i relazionalisti, conservativa, difensiva e non promettente di nuovi sviluppi. Il relazionalismo predicato da Magistrale è quello solito: non un nuovo paradigma distinto dagli altri e onestamente in competizione con le altre psicoterapie, ma una qualità aspecifica, già presente in tutte le altre psicoterapie e in grado di spiegare indistintamente l’efficacia di tutte le psicoterapie, efficacia che sarebbe sempre e costantemente uguale per tutte le psicoterapie. Quindi non un fattore che promette sviluppi ma che spiega l’esistente e lo spiega in una maniera deprimente e in ultima analisi estremamente squalificante per un secolo di modelli e teorie psicoterapeutiche: tutti gli sforzi teorici e clinici fatti finora per migliorare la psicoterapia, dalla psicoanalisi freudiana ai suoi mille e più superamenti, dal cognitivismo beckiano ai suoi superamenti (avviati anch’essi a diventare mille e più) sono stati equivoci teorici che non spiegavano nulla, fantasie non più scientifiche di tante mitologie, teologie e filosofie del passato –da Zeus a Hegel- mentre il vero fattore era lì: la relazione. Primo motore immobile e già in sé perfettissimo, funzionante già prima di ogni procedura o protocollo, addirittura funzionante prima che fosse descritto, insegnato o raccomandato, e in grado di far funzionare qualunque psicoterapia anche nel caso che in essa non si faccia mai menzione di relazione e non ci si sogni di trattarla, o anzi la si concepisca come un ostacolo, come in certe forme primigenie di psicoanalisi.

Verdetto del dodo o strategia del cuculo?

Più che verdetto di Dodo, io parlerei di strategia del cuculo. Come il cuculo deposita le sue uova nei nidi degli altri uccelli e fa allevare i suoi pulcini a spese altrui, così la relazione si insedia negli altri paradigmi e lascia crescere la sua reputazione di unico e vero fattore di cambiamento a spese degli altri modelli, trasformandoli in fantasie metafisiche. Questo modo di concepire la relazione, che è poi quello dei fattori comuni di Lambert (Lambert e Barley, 2001), conferisce a chi lo adotta una vittoria di Pirro, in cui pur di impedire all’avversario di invocare un successo ci si accontenta di descrivere la psicoterapia come un processo che funziona fondamentalmente da solo, in base ad abilità intuitive, sofisticate nella costituzione ma immediate nell’applicazione. Una deriva che rischia di andare incontro ai peggiori istinti dei terapisti, in quanto trasforma la nostra professione in una facoltà intuitiva che va eseguita senza troppi controlli empirici e senza troppa disciplina tecnica. Una deriva dilettantesca che spesso è tamponata con un rimedio che è peggiore del male: celandosi dietro la solita raccomandazione di tipo sapienziale e non scientifico, la raccomandazione della necessità di una generica e fumosa crescita personale difficile da definire se non nei termini della solita analisi personale didattica. Perdonate la cattiveria: è l’analista didatta relazionalista esperto in fattori comuni in ultima analisi il beneficiario finale, il cuculo che ha depositato le sue uova nei nidi degli altri.

Beninteso, i dati di Magistrale sono reali, anche se a loro volta non conclusivi come quelli di Poulsen et colleghi, del resto. Sarà una lunga lotta alla fine della quale se e quando dovessero essere definitivamente confermati, essi ridurranno la psicoterapia a un placebo leggermente più efficace dell’assenza di cure, come ha già dimostrato Cuijpers (Cuijpers, van Straten, Andersson, e van Oppen, 2008; Cuijpers, Driessen, Hollon, van Oppen, Barth e Andersson, 2012). Se fosse confermato che questa è la realtà ne prenderemo atto, come è giusto che si faccia con ogni dato concreto.

Nel frattempo continuiamo a sperare in un più onesto avversario al posto della relazione intesa come fattore comune alla Lambert: non un fattore già presente che rende tutto uguale e rende ognuno vincitore di una gara strampalata e inquietante, ovvero il croquet di Alice nel Paese delle Meraviglie giocato con fenicotteri per mazze e porcospini come palle alla fine della quale chi perde rischia di essere decapitato per decisione della Regina di Cuori. A proposito: ci siamo mai chiesti, psicoanaliticamente, il significato simbolico della scelta del verdetto del dodo? Ovvero la psicoterapia come gioco surreale, inquietante e assurdo in cui vincono tutti e si rischia la morte? Per decapitazione?

Speriamo in una paradigma relazionale diverso, ovvero distinto e in competizione per la palma di vincitore onesto e non parassitario, fattore non comune ma specifico e in grado di promettere risultati migliori e quindi un maggiore benessere per i nostri pazienti. Basta con le metafore ornitologiche, basta con i dodo, i fenicotteri e il cuculo.

 


Per saperne di più, leggi gli altri articoli pubblicati da State of Mind:

  1. Una psicoterapia vale l’altra? Non chiedetelo al dodo – Di Valentina Davi
  2. Una psicoterapia vale l’altra? Hanno ammazzato dodo, dodo è vivo! – Di Giuseppe Magistrale
  3. Dal verdetto del dodo alla strategia del cuculo: l’efficacia della terapia è dovuta a fattori specifici o alla relazione? – La risposta di Giovanni Maria Ruggiero
  4.  Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Antefatto e Primo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  5. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Secondo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  6. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Terzo quadro, Epilogo e penultimo verdetto – Di Angelo Maria Inverso
  7. Il verdetto del Dodo ha un adeguato fondamento empirico? Non sembra – Di di Francesco Mancini e Guyonne Rogier
  8. L’alleanza terapeutica è il fattore aspecifico che renderebbe efficace qualunque psicoterapia? Non ci sono ragioni per supporlo – di Francesco Mancini e Guyonne Rogier

 

 

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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