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Sport estremi: le motivazioni che spingono a ricercare il brivido del rischio

In passato si tendeva ad associare la scelta di sport estremi alla ricerca del rischio in persone con tratti di personalità devianti o patologici. Ora gli studiosi vedono anche altre motivazioni, che non necessariamente hanno a che fare, ad esempio, con il "sensation seeking"

Di Guest

Pubblicato il 23 Mag. 2018

Sport estremi: perchè si scelgono e cosa ci spinge a ricercare il rischio, nella vita e nello sport. Un’indagine su un fenomeno in crescita

Elisa Simeoni

 

Il termine “sport estremi”, “extreme sport” o “sport ad alto rischio” entra a far parte del linguaggio italiano negli ultimi due decenni, indicando quelle attività sportive (come il parkour, il base jumping o il bungee jumping…), in parte riconducibili agli sport tradizionali, che possono essere definite da tre caratteristiche principali: l’individualità, l’espressione creativa e l’assunzione di rischi (Weber, 2002).

Sport estremi: un fenomeno in crescita

Già dagli anni 90 si assisteva ad una progressiva diversificazione delle attività sportive, passando dalla semplice pratica degli sport tradizionali (quali il calcio, il tennis, la pallavolo…) alla nascita di nuove discipline, come quelle estreme. Ed ora, sempre di più sono quelle persone, soprattutto tra i giovani, che, addentrandosi nella pratica dello sport estremo, hanno una marcata tendenza a ricercare il rischio, incorrendo spesso in incidenti mortali (Istat, 2000). Oggi, si può notare come la sfida non sia più con l’avversario, ma con sé stessi e con gli elementi naturali (siano essi il vento, l’acqua, la pendenza di una parete o una curva di una pista). Alla prestazione e al risultato si sostituisce ora il piacere del vissuto corporeo, dato dalla sperimentazione di sensazioni forti e inusuali e dal confronto con sé stessi (Ferrero Camoletto, 2005, 2008).

In un mondo che attribuisce all’autocontrollo e all’autoregolazione un grande valore, la partecipazione ad attività culturalmente considerate “rischiose”, consente al Sé e al corpo, di godere, almeno temporaneamente, dei piaceri del corpo “grottesco” o “primitivo”. (Lupton, 2003, pp. 180).

Il corpo diviene così un “contenitore del Sé” che permette di definire i chiari confini della propria identità, in un contesto sociale sempre più incerto e frammentato. Di fatto, il rischio appare legato alla rimozione della precarietà e alla sovranità individuale ricercata dal giovane o dall’adulto, nonostante la consapevolezza del pericolo esistente. Nello specifico, l’assunzione deliberata del rischio nell’adulto ben integrato, apparirebbe come un modo per ricordarsi il prezzo della propria esistenza e come una valorizzazione della leggerezza contro i vincoli della pesantezza della società odierna. Per il giovane, invece, apparirebbe soprattutto come un modo estremo per costruire il senso della propria vita e una scorciatoia per cercar di fronteggiare il dubbio e il caos nel quale è immerso (Ferrero Camoletto, 2005; Le Breton, 1991, 1995, 2002).

Sport estremi: una spiegazione psico-sociologica secondo le prospettive teoriche tradizionali

Analizzando gli studi che hanno cercato di dare una spiegazione psico-sociologica degli sport estremi, ci si accorge come nella maggior parte dei casi, il fattore personalità sia stato considerato il movente principale che spinge gli individui a praticare le attività estreme e a ricercare il rischio all’interno di esse; individui per lo più adolescenti, affascinati dall’individualità e dalla pericolosità intrinseca allo sport (Brymer, 2005; Brymer & Oades, 2009; Olivier, 2006; Simon, 2002). Pertanto, alcune ricerche hanno spiegato la partecipazione agli sport estremi come la realizzazione di un tratto di personalità deviante (personalità di tipo T, dove T sta per Thrill, ovvero brivido) che conduce l’individuo al bisogno di sperimentare una varietà di situazioni connotate da incertezza, novità e imprevedibilità. Questa branca di studi ha confrontato le differenze tra le persone comuni e gli amanti del brivido attraverso l’utilizzo di una curva rappresentativa della propensione a ricercare esperienze “No Limits”, dove all’estremo della curva venivano individuati i cosiddetti “Big T” ovvero persone caratterizzate dal bisogno di provare il brivido attraverso gli sport rischiosi (Self et al., 2007).

Le prospettive teoriche tradizionali hanno definito francamente patologici quegli individui che, scegliendo di praticare uno sport estremo e detenendo una relazione malsana con la paura, sarebbero patologici nella loro ricerca di rischio e nel loro desiderio di sfidare la morte.

Altre ricerche hanno invece preferito adottare una prospettiva psicoanalitica, considerando la partecipazione agli sport estremi come una malsana tendenza narcisistica. Gli individui narcisisti sarebbero spinti in questa direzione per via di alcune loro caratteristiche di personalità riconducibili ad esempio alla propensione a razionalizzare i comportamenti e i sentimenti ritenuti inaccettabili, a sopravvalutare le proprie capacità e a negare i propri limiti così come la propria vulnerabilità (Elmes & Barry, 1999; Hunt, 1996).

Sebbene siano stati utilizzati termini differenti per descrivere il narcisismo, esso può essere ricondotto sostanzialmente a due forme: quello “manifesto” (overt) e quello “celato” (covert) (Masterson, 1981; Wink, 1991).

  • La prima forma narcisistica, cosiddetta “overt” risulta essere la più diffusa e la più comunemente individuata in coloro che praticano attività ad alto rischio, in quanto include caratteristiche quali l’egocentrismo, l’arroganza, la vanità, l’indifferenza e la mancanza di empatia nei confronti degli altri. Nello specifico, il classico narcisista viene definito con “la pelle dura” in quanto tende a costruire uno scudo tra sé e gli altri per rendersi insensibile ma contemporaneamente nutre il bisogno di sentirsi potente e superiore rispetto agli altri, per nascondere, in realtà, un grande senso di inferiorità e di vuoto interiore. Volendo essere costantemente al centro dell’attenzione, è competitivo e desidera ottenere riconoscimenti e gratificazioni immediate che, se non arrivano, possono sfociare in un intenso sentimento di rabbia (Gabbard, 1989; Masterson, 1981; Wink, 1991). L’esempio concreto di uno sportivo appartenente a questa tipologia di personalità narcisistica è quello di Pipin Ferreras, famoso apneista cubano che nel suo scritto autobiografico “Nel blu profondo – Una storia di amore e ossessione”, parla della sua carriera e in particolare della morte della compagna Audrey Mestre, l’apneista francese, morta nel 2002 durante un tentativo di record “No Limits” in apnea, nelle acque della Repubblica Domenicana. In Ferreras si possono osservare le preoccupazioni relative alle fantasie di successo e l’invidia provata nei confronti degli altri sportivi famosi, che adora se gli sono utili ma svaluta rapidamente, passando a mettere in risalto i loro difetti, se capisce di non poter trarre da loro alcun vantaggio (Manca, 2009).
  • La seconda forma di narcisismo, quella “covert”, è invece meno palese, poiché riguarda un tipo di individuo inibito e apparentemente sensibile che nutre desideri di grandezza coltivati nel proprio mondo fantasmatico senza essere mai al centro dell’attenzione (Gabbard, 1989; Masterson, 1981; Wink, 1991).

Ci sono poi degli studi che hanno analizzato il tema dello sport estremo basandosi sulla ricerca di sensazioni, ovvero il bisogno di alcuni individui di vivere nuove esperienze, sensazioni intense e provare quel brivido di avventura ed eccitazione per contrastare la propria suscettibilità alla noia. Secondo Zuckerman, questa tendenza farebbe riferimento ad uno specifico tratto di personalità geneticamente determinato definito nel termine di “sensation seeking”, che se presente in maniera forte nell’individuo, conduce alla ricerca in modo costante del rischio. Infatti, tra gli individui è presente una differenza nell’ essere più o meno tolleranti agli elevati livelli di stimolazione, e di conseguenza avere una predisposizione a ricercarli, oppure, al contrario, ad evitarli (Zuckerman, 1983). Pertanto, le persone con alti livelli di sensation-seeking preferirebbero esperienze nuove ed intense oltre che avere una maggiore probabilità di attuare comportamenti a rischio come l’assunzione di droghe, alcol, guidare in maniera pericolosa, o in questo caso, la pratica degli sport estremi. Le persone con bassi livelli di sensation-seeking potrebbero invece nutrire disagio e trovare tali esperienze sgradevoli (Zuckerman, 2000).

In sintesi, secondo questo filone di ricerche, la partecipazione allo sport estremo verrebbe spiegata sulla base di un’attività edonistica, che spinge i cosiddetti “sensation seeker” a cercare il rischio per trarre divertimento e sperimentare emozioni forti. All’interno di questa categoria vengono collocati individui molto curiosi, con caratteristiche impulsive di personalità, tratti aggressivi e livelli di ansia piuttosto bassi (Slanger & Rudestam, 1997; Zuckerman, 2007).

Sport estremi: una spiegazione psico-sociologica secondo le prospettive teoriche recenti

Accanto agli studi che si focalizzano unicamente sull’individuo e sulle sue caratteristiche di personalità, talvolta considerate addirittura patologiche o devianti, si distinguono alcuni autori (Brown & Fraser, 2009; Brymer, Downey & Gray, 2010; Castanier, Le Scanff & Woodman, 2010) che di recente, focalizzandosi su differenti profili di personalità (anziché ricercarne una “uguale per tutti”), hanno voluto considerare l’esperienza vissuta dai praticanti, dando enfasi agli aspetti positivi dello sport estremo. Questo perchè gli individui sarebbero motivati anche da qualcosa di diverso rispetto alla semplice ricerca del rischio. Ad esempio, il tenace raggiungimento della vetta del Monte Everest da parte di George Mallory che ha portato alla sua morte nel 1924, non può essere considerato un evento perseguito da un Sensation Seeker, in quanto l’impresa comporta più fatica e concentrazione che adrenalina (Barlow, Woodman & Hardy, 2013). Vi sono persone che svolgono attività in cui subiscono privazioni, sofferenze e monotonia quotidiana, come accade nell’alpinismo, nel canottaggio oceanico o nelle spedizioni polari, attività che vengono spesso segnalate dagli stessi partecipanti come noiose e faticose, che richiedono una lunga pianificazione e preparazione e che non portano, peraltro, a nessun piacere (Lester, 2004; Woodman et al., 2010). Inoltre, i partecipanti coinvolti in attività simili all’alpinismo hanno dichiarato che il brivido è attentamente evitato in tali sforzi, poiché tipicamente associato ad una perdita di controllo e quindi ad un aumento del rischio che può portare a gravi lesioni o a morire (Kirkpatrick, 2011).

Per esaminare i motivi che impegnano le persone in attività sportive ad alto rischio ci si è poi concentrati sui costrutti della regolazione emotiva e dell’agency (Barlow et al., 2013; Castanier et al., 2010). La human agency (o agentività umana) viene definita da Bandura (1989) come la capacità dell’individuo di reagire non solo a stimoli esterni e biologici, ma anche di agire in modo attivo e trasformativo come attore sociale all’interno del contesto in cui vive, popolato da altri attori sociali. Essa si traduce nella facoltà di attuare azioni intenzionali mirate per raggiungere determinati scopi, indipendentemente dal loro esito.

In riferimento ad un recente studio di Woodman et al. (2010) si può notare come individui impegnati in attività sportive come il canottaggio e l’alpinismo dispongono di una maggiore difficoltà a descrivere le proprie emozioni e ad entrare in relazione con gli altri (specialmente con il proprio partner). Il che condurrebbe entrambe le categorie di sportivi ad impegnarsi in sport ad alto rischio per fronteggiare le proprie difficoltà emotive piuttosto che a ricercare il rischio. Meichenbaum (1996) sostiene, infatti, che l’incremento dell’agency personale in un aspetto della propria vita, può avere un effetto positivo in un altro ambito della stessa, nella misura in cui i due ambiti abbiano caratteristiche simili. In questo senso, un aumento dell’agency personale nell’esperienza stressante ma allo stesso tempo romantica del canottaggio o dell’alpinismo, riuscirebbe a portare un aumento della propria agency anche nei rapporti di natura emotiva (in particolare la relazione d’amore con il partner), che in maniera analoga, si caratterizzano per lo stress e il romanticismo provato (Lester, 2004).

Tali studi sostengono che le attività ad alto rischio verrebbero ricercate perchè dotate di una funzione di compensazione per il partecipante, il quale, in questo modo, avrebbe l’opportunità di sperimentare la regolazione delle proprie emozioni e un agency non facilmente reperibile nella vita di tutti i giorni. L’ansia aspecifica, costante e generalizzata, percepita interiormente dall’individuo nel suo quotidiano, può passare ad un ansia esterna, specifica e identificabile, grazie alla paura esperita durante la pratica degli sport estremi (Castanier et al., 2010). La paura, infatti, a differenza dell’ansia, si configura come una risposta ad una minaccia ben precisa, facilmente sperimentabile all’interno dello sport estremo e controllabile dall’individuo attraverso la regolazione delle proprie emozioni in quanto esternalizzata (Gyurak, Gross, & Etkin, 2011; Sadock & Sadock, 2007). Se la regolazione emotiva avviene con successo, l’individuo riuscirà a diminuire la sua paura, trasferendo tale capacità di coping anche in altri ambiti di vita. In altre parole, l’individuo riuscirà ad affrontare gli stress prolungati incontrati nella propria quotidianità se si è sentito un agente delle proprie emozioni all’interno di un contesto di alta tensione per un prolungato periodo di tempo (Woodman et al., 2010). In questo senso, gli studi citati concettualizzano la ricerca del rischio attraverso lo sport estremo come un potenziale modello di sforzo umano per raggiungere uno stato futuro migliore, anziché come semplice ricerca di sensazioni (Barlow et al., 2013).

Interessante è anche il contributo di Taylor e Hamilton (1997) che ha spiegato l’attuazione dei comportamenti rischiosi come possibile mezzo per regolare l’affettività negativa attraverso la fuga dalla consapevolezza di sé. Secondo gli autori, le persone potrebbero utilizzare le attività ad alto rischio (come l’assunzione di droga o alcol) come strategie di fuga per distogliere l’attenzione da sé stesse e per non pensare al proprio malessere, almeno temporaneamente; un risultato trasportato recentemente anche negli sport estremi al fine di spiegare la propensione di alcuni atleti ad attuare comportamenti rischiosi in attività estreme già ad alto rischio (Castanier et al., 2010; Cazenave, Le Scanff, & Woodman, 2007).

Ulteriori ricerche, spingendosi oltre la semplice gratificazione fisiologica, hanno rilevato altre possibili spiegazioni all’implicazione negli sport estremi, ovvero:

  • il raggiungimento di obiettivi (come il diventare un insegnante)
  • la motivazione sociale (come l’interazione con gli altri atleti)
  • la ricerca della libertà
  • la fuga dalla noia
  • la connessione con l’ambiente naturale, e l’ottenimento di piacevoli sensazioni corporee cinestetiche, muovendosi in aria o in acqua.

Quindi, non tutto risulta patologico: lo sport estremo potrebbe portare ad esiti psicologici ed emotivi positivi, ad esempio alla trasformazione della paura in coraggio o lo sviluppo dell’umiltà (Brymer & Oades, 2009; Brymer & Schweitzer, 2012; Willig, 2008).

Sport estremi: le altre motivazioni oltre alla ricerca del rischio

In particolare, lo studio di Kerr e Mackenzie (2012) ha sostenuto che le motivazioni dei partecipanti implicati negli sport d’avventura appaiono multiformi, in quanto, mentre alcuni di essi condividono motivazioni comuni, altri si differenziano nelle loro ragioni, dandone un ordine diverso di importanza. Le diverse tendenze motivazionali possono dipendere sia dalle caratteristiche di personalità, che dal genere (essere uomo o donna) e dal livello di coinvolgimento nello sport (competitivo, professionale, ricreativo). Inoltre, si è rilevato che le motivazioni possono cambiare a seconda delle circostanze incontrate durante lo svolgimento dell’attività oppure nel corso del tempo, in base all’esperienza, alle competenze acquisite e con l’aumento dell’età. Per esempio, una persona potrebbe iniziare a fare kayaking per il semplice desiderio di provare l’adrenalina di scendere dalle ripide cascate dei fiumi, ma successivamente scoprire che la volontà di migliorare le proprie abilità sia in realtà la motivazione più forte.

Dall’analisi delle due prospettive teoriche si può notare come gli studi realizzati più recentemente abbiano favorito il passaggio da una concezione patologica e negativa dell’individuo e dello sport estremo ad una concezione più adattiva e positiva. Un traguardo raggiunto grazie all’utilizzo di strumenti qualitativi (quali self-reports e interviste) ma soprattutto grazie ad una comprensione più approfondita delle esperienze e delle differenze individuali.

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