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Ricordo di Jeremy Safran

Jeremy Safran insegnava Psicologia alla New School for Social Research di New York, era direttore di ricerca al Beth Israel Medical Center di New York. Ex-Presidente dell’International Association for Relational Psychoanalysis and Psychotherapy (IARPP) e socio attivo della Society for Psychotherapy Research (SPR)

Di Guest

Pubblicato il 09 Mag. 2018

Jeremy Safran, 66 anni, è stato ucciso da un rapinatore nella sua casa di Brooklyn. Sconvolti e addolorati siamo vicini a sua moglie Jenny e alle loro figlie. Jeremy era un amico, un uomo delicato e un ricercatore straordinario.

di Vittorio Lingiardi, SPR Italia

 

Jeremy Safran insegnava Psicologia alla New School for Social Research di New York, era direttore di ricerca al Beth Israel Medical Center di New York. È stato Presidente dell’International Association for Relational Psychoanalysis and Psychotherapy (IARPP) e da sempre socio attivo della Society for Psychotherapy Research (SPR). A lui, con Christopher Muran, dobbiamo le ricerche e le intuizioni più brillanti sull’alleanza terapeutica e sui meccanismi di rottura e riparazione che regolano la relazione terapeutica. Due suoi libri sono tradotti in italiano: Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica (Laterza, 2003) e Psicoanalisi e terapie psicodinamiche (Raffaello Cortina, 2013).

“Non sono mai stato a mio agio nell’identificarmi esclusivamente in una tradizione terapeutica, e i miei scritti fanno trasparire una predilezione dello stare al confine tra i vari orientamenti”, scriveva. È vero, Jeremy ha saputo integrare non solo diverse anime (di ricercatore, di teorico e di clinico), ma anche diversi approcci scolastici (il cognitivismo, le teorie interpersonali, la psicoanalisi relazionale). Il pluralismo di Jeremy non è mai una semplificazione, bensì la capacità di cogliere significati condivisi in linguaggi differenti. Una delle cose che maggiormente colpisce chi legge i suoi lavori è l’impressione “evolutiva” del percorso, la capacità di esprimere attraverso i propri scritti le trasformazioni del proprio pensiero, a partire dalla lunga collaborazione con Leslie Greenberg all’inizio degli anni Ottanta.

L’integrazione non come fine da perseguire in modo ideologico, ma come risultato di una ricerca personale, clinica e concettuale. Ma è la ricerca sui processi di rottura e riparazione dell’alleanza a rappresentare la quinta essenza del suo pensiero e della sua proposta clinica. Nella sua concettualizzazione dei processi di rottura e riparazione, infatti, ritroviamo la sua attenzione per gli aspetti emotivi dell’esperienza di paziente e terapeuta, per la dimensione interpersonale del lavoro clinico, per il qui ed ora della relazione terapeutica. Il suo lavoro segna il passaggio da una concezione “buonista” dell’alleanza a una concezione dinamica e costruttivista: l’alleanza non come requisito a priori, ma come tensione processuale e negoziazione continua che in alcuni casi, per esempio nel trattamento di pazienti con disturbi gravi di personalità, può costituire il fine del trattamento stesso.

La concettualizzazione di alleanza proposta da Safran e Muran si basa su un’importante componente di verifica empirica, la Task Analytic Investigation, per cui il processo terapeutico è descrivibile come una sequenza di eventi che si ripetono come pattern identificabili nel corso delle sedute. Questo tipo d’indagine permette di costruire modelli clinici in grado di descrivere i diversi modi di rottura dell’alleanza (per ritiro o confrontazione) e gli stadi che ne caratterizzano la risoluzione. Il significato di ogni fattore tecnico può dunque essere compreso solo nel contesto relazionale in cui viene applicato, e le indicazioni tecniche fornite dagli autori non sono prescrizioni standardizzate di tipo manualistico, ma esperienze vissute nella cornice relazionale. Jeremy è stato capace di integrare le nostre diverse anime di teorici, di clinici e di ricercatori. Ha pensato clinicamente e ha verificato empiricamente le sue idee al fine di fornire nuove indicazioni alla pratica clinica.

Da tempo si era avvicinato alle filosofie orientali e in particolare al buddismo (tra i suoi lavori ricordo il libro del 2003 Psychoanalysis and Buddhism: An Unfolding Dialogue). Cercava di accettare e apprezzare le cose per quello che sono, non per passività, ma per coglierne l’essenza. Diceva che nell’accostarsi al paziente era necessario avere “la mente del principiante”. Ci mancherà immensamente e lo abbracciamo commossi nel ricordo della sua tensione spiriturale forte quanto la sua passione empirica.

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