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Violenza online e cyberbullismo: un’ipotesi neuroscientifica e le prospettive di intervento

Studi recenti nell'ambito delle neuroscienze suggeriscono che il fenomeno del cyberbullismo potrebbe essere il risultato di un deficit nel sistema di neuroni specchio, responsabile delle nostre risposte empatiche, dovuto al tempo sempre maggiore trascorso online dagli adolescenti invece che in relazioni reali.

Di Eddy Chiapasco, Guest

Pubblicato il 11 Mag. 2018

Alla luce di una sempre maggior diffusione del fenomeno del cyberbullismo, proponiamo in questo articolo una lettura del fenomeno connessa all’ipotesi neuroscientifica di un’alterazione a livello del sistema di neuroni specchio, che sottenderebbe una compromissione nella responsività empatica. Riteniamo quindi fondamentale la promozione a tutti i livelli di attività che coinvolgano socialmente i ragazzi, che stimolino le loro competenze sociali ed empatiche e che allenino le loro capacità di assunzione della prospettiva altrui, ponendo le basi per lo sviluppo delle connessioni cerebrali che sottostanno a queste abilità.

Samantha Baldassarre, Eddy Chiapasco, Gabriella Gandino

 

Cyberbullismo e alterazione del “sistema specchio”

Un fenomeno che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale e nazionale nell’odierna società è quello del cyberbullismo, che può essere definito come l’insieme di azioni aggressive, deliberate e ripetute, attuate da uno o più perpetratori, attraverso strumenti elettronici (ad esempio pc, smartphone e tablet), con l’obiettivo di danneggiare e/o isolare uno o più soggetti che non possono facilmente difendersi (Smith et al., 2008; Hinduja & Patchin, 2009).

Essendo un fenomeno molto recente, risulta importante effettuare studi scientifici per meglio comprenderne i meccanismi e poter attuare interventi clinici mirati e adeguati. A tal proposito, facendo riferimento alla teoria del “sistema di neuroni specchio” (Rizzolatti et al., 1996) – situato in varie zone cerebrali tra cui la porzione rostrale anteriore del lobo parietale inferiore, il settore inferiore del giro pre-centrale, il settore posteriore del giro frontale inferiore, un’area anteriore del giro frontale inferiore, il solco temporale superiore e la corteccia pre-motoria dorsale – si vuole proporre un’ipotesi di stampo neuroscientifico, dal momento che suddetto sistema si è dimostrato particolarmente rilevante in ciò che Gallese ha denominato “simulazione incarnata” (Gallese et al., 1996). Quest’ultima è un processo biologico secondo cui quando una persona ne osserva un’altra compiere una determinata azione e/o sperimentare una certa emozione, si attiverebbero in chi osserva non solo le medesime reazioni fisiologiche, ma anche le stesse strutture neuronali (che appunto coincidono con le aree cerebrali del sistema specchio) e, pertanto, tale processo sembra essere alla base della comprensione dei vissuti altrui e in ultima istanza dell’empatia (Gallese et al., 1996; Bracco, 2005). È proprio per via di tale meccanismo di “simulazione incarnata” che quando vediamo un altro individuo soffrire soffriamo un po’ anche noi, perché nel nostro corpo si innescano tutte quelle reazioni viscerali-motorie-neurali che riguardano anche la persona che stiamo osservando.

Ma cosa succede nell’epoca della “rivoluzione digitale” (Cantelmi, Talli, D’Andrea, Del Miglio, 2000), in cui la quotidianità è pervasa dai nuovi strumenti elettronici, che permettono di nascondersi dietro uno schermo e di non vedere direttamente l’altro? Proprio per via del sempre maggior tempo trascorso nel cyberspazio, caratterizzato dalla mancanza di relazioni face-to-face, è possibile che gli adolescenti siano oggi meno abituati ad attivare e ad allenare il loro “sistema specchio”, con la conseguente carenza nel riconoscimento delle emozioni altrui e nell’elicitazione della risposta empatica. Alcuni studiosi, infatti, hanno mostrato che i perpetratori di atti aggressivi online manifestano una minor responsività empatica rispetto ai loro coetanei non cyberbulli (Renati et al., 2012). Sempre la mancanza di un contatto diretto tra cyberbullo e cybervittima sembra essere un elemento importante per spiegare la particolare violenza raggiunta in alcuni casi dalle aggressioni online. Questo aspetto può, infatti, essere letto alla luce del celebre esperimento di Milgram sull’obbedienza all’autorità, in cui l’autore aveva notato come all’aumentare della distanza tra insegnante e allievo (che faceva perdere il contatto visivo tra i due), aumentava anche la violenza del soggetto sperimentale che tendeva ad infliggere alla vittima scosse sempre maggiori (Delcuratolo, 2016).

Ipotizziamo dunque che un deficit funzionale a livello empatico possa essere connesso ad una sottostante alterazione neurologica del “sistema di neuroni specchio”.

I più recenti studi neuroscientifici, soprattutto nell’ambito delle neuroscienze sociali e affettive, hanno, inoltre, evidenziato la plasticità che caratterizza il cervello umano e la sua capacità di trasformarsi non solo durante l’età evolutiva, ma in tutto il ciclo di vita, in presenza di adeguate stimolazioni da parte dell’ambiente sociale (Schore, 2015). Alla luce di tali considerazioni, riteniamo sia necessario promuovere nei ragazzi attività che consentano loro di sviluppare le competenze sociali, di allenare la capacità di assumere la prospettiva altrui e di riconoscere e comprendere le emozioni, ponendo le basi per lo sviluppo delle connessioni cerebrali che sottostanno a suddette abilità.

Attività di sviluppo degli aspetti empatici e role-playing formativo

Come possiamo intervenire per aiutare gli adolescenti a migliorare la loro capacità di comprendere i vissuti altrui?

A livello preventivo, in ambito scolastico, sono già presenti in Italia e in Europa molteplici progetti basati sull’informazione e la sensibilizzazione nei confronti del cyberbullismo, che mirano a diffondere la conoscenza del fenomeno, ma tuttavia non esaustive sul piano preventivo. Sarebbe auspicabile che a tali progetti si affiancassero attività pratiche, che coinvolgano in prima persona i giovani e che consentano loro di sviluppare e implementare quelle abilità psicosociali ed empatiche il cui sviluppo non è favorito dall’utilizzo massivo delle nuove tecnologie.

Una tecnica che a questo scopo sembra essere particolarmente efficace è quella del role-playing formativo, o gioco di ruolo, di Jacob Moreno (1961), una pratica di simulazione in gruppo che prevede lo svolgimento da parte dei partecipanti, per un tempo limitato, del ruolo di attori. Ciò che viene richiesto ai soggetti è di rappresentare una scena di vita quotidiana, impersonando alcuni ruoli in interazione tra di loro, mentre altri individui assumono la funzione di osservatori (Masci, 2009). Una volta conclusa la rappresentazione, segue un confronto tra gli attori e gli osservatori circa le dinamiche relazionali emerse e i vissuti esperiti (Masci, 2009).

Questa tecnica offre la possibilità di immedesimarsi in ruoli diversi, sperimentando i disagi e le emozioni tipici di questi ruoli, e stimola l’apprendimento di competenze psicosociali ed empatiche attraverso l’imitazione, l’osservazione del comportamento altrui e la riflessione sui commenti ricevuti rispetto alla propria condotta (Capranico, 1997).

Nella nostra esperienza di lavoro con i ragazzi della scuola secondaria di primo grado, nell’ambito delle attività di prevenzione al cyberbullismo, abbiamo potuto constatare l’efficacia del role-playing. I ragazzi, dovendo mettersi nei panni dei vari personaggi coinvolti in una situazione di cyberbullismo (cyberbullo, cybervittima e bystanders), possono coglierne al meglio le dinamiche emotive e relazionali. Il confronto finale tra il gruppo classe permette loro, inoltre, di acquisire una maggiore consapevolezza sul fenomeno e individuare potenziali vie uscita dalle situazioni più critiche.

Ci auguriamo, pertanto, che i futuri programmi di prevenzione, oltre alla necessaria parte di informazione e sensibilizzazione sull’argomento, dedichino anche particolare attenzione a questo tipo di attività. Riteniamo, altresì, fondamentale il compito educativo dei genitori, i quali dovrebbero porre ai loro figli dei limiti nel tempo di utilizzo dei nuovi strumenti elettronici e promuovere al contempo delle attività alternative che favoriscano la socializzazione dei loro ragazzi, in modo da fornire delle opportunità di relazione face-to-face per sviluppare quelle competenze empatiche che le nuove tecnologie paiono impoverire.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bracco, M. (2005). Empatia e neuroni specchio. Una riflessione fenomenologica ed etica. Comprendre, 15, 33.
  • Cantelmi, T., Talli, M., D’Andrea, A., Del Miglio, C. (2000). La mente in Internet. Padova: Piccin Editore.
  • Capranico, S. (1997). Role playing. Milano: Raffaello Cortina Editore.
  • Delcuratolo, C. (2016). Conformismo e Obbedienza. Gli esperimenti di Milgram e Zimbardo, la critica di Haslam e Reicher. Piesse, anno 2, Luglio 2016 n.1, 15-16. DOWNLOAD
  • Gallese, V., Fadiga, L., Fogassi, L., Rizzolatti, G. (1996). Action recognition in the premotor cortex. Brain, 119, 593-609.
  • Hinduja, S., Patchin, J.W. (2009). Bullying Beyond the Schoolyard: Preventing and Responding to Cyberbullying. Thousand Oaks, CA: Sage Publications.
  • Masci, S. (2009). Giochi e role-playing per la formazione e la conduzione dei gruppi. Milano: Franco Angeli Edizioni.
  • Moreno, J.L. (1961). The role concept, a bridge between psychiatry and sociology. American Journal of Psychiatry, 118(6), 518-523.
  • Renati, R., Berrone, C., Zanetti, M.A. (2012). Morally Disengaged and Unempathic: Do Cyberbullies Fit These Definitions? An Exploratory Study. Cyberpsychology Behavior and Social Networking, 15(8), 391- 398.
  • Rizzolatti, G., Fadiga, L., Gallese, V., Fogassi, L. (1996). Premotor cortex and the recognition of motor actions. Cognitive Brain Research, 3(2), 131-141.
  • Schore, A.N. (2015). Affect regulation and the origin of the self: The neurobiology of emotional development. London: Routledge.
  • Smith, P.K., Mahdavi, J., Carvalho, M., Fisher, S., Russell, S., Tippett, N. (2008). Cyberbullying: Its nature and impact in secondary school pupils. Journal of Child Psychology and Psychiatry, 49(4), 376–385.
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